Copertina
Autore Ferdinando Cionti
Titolo Made in Italy
EdizioneSpirali, Milano, 2007 , pag. 145, dim. 14,5x21,8x2 cm , Isbn 978-88-7770-801-4
LettorePiergiorgio Siena, 2008
Classe economia politica
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Made in Italy                                              7
Marx. L'arcano dell'accumulazione originaria              11
Sombart e Weber. Religione e capitalismo                  19
Riforma, controriforma e capitalismo                      40
Politica e capitalismo. Il "modo di produzione asiatico"  50
Pellicani. La soluzione dell'enigma                       61
La nascita del capitalismo come rivoluzione permanente    74
L'economia per l'economia                                 83
I nostri punti fermi e i problemi insoluti                86
Lo svelamento dell'arcano                                 92
Il giusto prezzo                                         130

Bibliografia                                             145

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Made in Italy



Il capitalismo — prima ancora che lo siano i singoli prodotti — è made in Italy. Com'è noto, Roma ha inventato il diritto e Firenze, con Machiavelli e Galileo, ha inventato rispettivamente la politica e la scienza, nel senso che le ha rese discipline autonome e indipendenti dalla religione. Com'è meno noto, i comuni italiani in generale, e soprattutto Venezia, hanno inventato il capitalismo, come ha dimostrato, in modo che appare conclusivo, Luciano Pellicani con il suo Saggio sulla genesi del capitalismo, 1988.

Per la verità, Venezia non ha teorizzato esplicitamente l'autonomia dell'attività economica rispetto alla religione, ma praticamente non le ha consentito di intralciare i suoi commerci. E neppure può dirsi che abbia avuto piena consapevolezza delle cause ultime del funzionamento del meccanismo capitalistico, ma ne conosceva gli effetti e aveva imparato ad adoperarlo perfettamente: come se avesse inforcato una bicicletta e, pedalando alacremente, avesse distanziato i concorrenti che correvano a piedi, senza preoccuparsi di capire come e perché restava in equilibrio.

Del resto, a tutt'oggi, nessuno ancora ha fornito una spiegazione convincente del fenomeno economico capitalismo, che pure è stato descritto e studiato sotto tutti gli aspetti. Quindi, prima inquadrerò il problema e ripercorrerò la sua trattazione, seguendo le, e trascrivendo stralci delle, documentatissime analisi e ragionate conclusioni di Pellicani; e poi ne proporrò una soluzione.


Le principali caratteristiche del capitalismo e il relativo problema di fondo.

Il capitalismo è un sistema economico centrato sul mercato, in cui si incontrano la domanda e l'offerta dei beni e dei servizi e si svolge il gioco della concorrenza, in modo tale che razionalità strumentale e capitalismo coincidono, in quanto solo grazie ai prezzi di mercato è possibile il calcolo economico (L. von Mises, Human Action, 1966 e Socialism, 1969). Inoltre, il capitalismo è un'economia monetaria poiché solo tramite la moneta è possibile il calcolo razionale dei costi e dei ricavi cioè la determinazione del profitto che, per un verso, è "lo scopo diretto e l'incentivo determinante della produzione" (K. Marx, Il capitale, 1956, vol. III, 3, p. 52) e per l'altro, ciò che misura l'efficienza dell'unità produttiva (F. Perroux, L'economia del XX secolo, 1968, p. 608).

Per il funzionamento del capitalismo è essenziale la libertà del consumatore così come la libertà dell'imprenditore. "Il concetto stesso di capitalismo implica l'esistenza di una molteplicità di soggetti economici in concorrenza fra di loro il cui fine è la massimizzazione del profitto" (L. Pellicani, p. 13).

Tali soggetti sono le imprese che combinano, tecnicamente ed economicamente, i fattori produttivi per ottenere una merce da immettere sul mercato.

L'attore principale dell'impresa è l'imprenditore, colui che assume l'iniziativa — e il connesso rischio — di "guidare i mezzi di produzione in nuovi canali" (J.A. Schumpeter, Teorìa dello sviluppo economico, 1968, p. 99). Lo spirito animatore dell'imprenditore capitalistico, precisa Max Scheler (Sociologia del sapere, 1968, pp. 146-147), è "la volontà di acquisizione senza limiti (come actus), e non l'acquisizione (come concreto possesso di oggetti)" e, quindi, il capitalismo è un sistema economico dinamico — rectius: autopropulsivo — aperto e in continua espansione e trasformazione, vale a dire l'opposto dell'economia autarchica (o naturale), gestita come un oikos e basata sul principio della corrispondenza fra la produzione e il consumo (A. Dopsch, Economia naturale ed economia monetaria nella storia universale, 1967, pp. 15-18).

Lo specifico strumento dell'imprenditore è il capitale, grazie al quale egli può "sottomettere al proprio dominio i beni cercati di cui ha bisogno" (J.A. Schumpeter, 1968). Il capitale non è una cosa, bensì "un processo che usa cose materiali quali momenti della sua esistenza permanentemente dinamica" (R.L. Heilbroner, The nature and logic of capitalism, 1985, pp. 35-37). Tale dinamismo è espresso dalla celebre formula marxiana Denaro-Merce-Denaro, che indica quella tipica metamorfosi espansiva per cui il capitale-denaro si converte in capitale-merce per tornare ad assumere la forma di capitale-denaro.

Tutto, nel modo di produzione capitalistico, è dominato dalla compra-vendita; quindi tutto è merce, anche la forza-lavoro. Mentre nella produzione mercantile semplice il produttore vende il proprio prodotto per acquistare altri prodotti capaci di soddisfare i propri bisogni, nel regime capitalistico l'imprenditore "si presenta sul mercato con il denaro, acquista merci (forza-lavoro e mezzi di produzione) e, quindi, dopo aver compiuto un processo di produzione, ritorna sul mercato con un prodotto che a sua volta converte in denaro" (P.M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, 1951, p. 867).

Il contratto di lavoro è "la differentia specifica del capitalismo" (H. Bravermann, Lavoro e capitale monopolistico, 1978, p. 52). Infatti, nel sistema capitalistico "il lavoro non fa più parte di una specifica relazione sociale in cui un uomo (servo o apprendista) lavora per un altro (signore o maestro) in cambio di una forma di sussistenza"; al contrario, esso non è che "una merce da offrire sul mercato al miglior prezzo, senza comportare come corrispettivo alcuna responsabilità da parte dell'acquirente" (R.L. Heilbroner, Nascita e sviluppo della società capitalistica, 1978, p. 87).

Detto questo, posto che nessuno ha creato il capitalismo secondo un piano intenzionale, e posto altresì che l'impresa e anche l'imprenditore capitalistico professionale "sono figure antichissime e ampiamente diffuse" (M. Weber, Osservazioni preliminari, 1976, vol. I, p. 95), come mai, si chiede Pellicani, il capitalismo è sorto e si è affermato solo in Occidente? È bene precisare subito che la domanda presuppone l'individuazione dell'essenza del capitalismo — e, quindi, del criterio di qualificazione di un imprenditore come "capitalistico" — che invece, secondo noi, costituisce il problema irrisolto che impedisce di dare una risposta esauriente, per cui andrebbe formulata più correttamente così: posto che l'agricoltore, piuttosto che l'artigiano e il commerciante, anche professionale, sono figure antichissime e ampiamente diffuse, come mai in Occidente, e solo in Occidente, si sono trasformati in imprenditori capitalistici? Che poi equivale a chiedersi nell'ordine: che cos'è il capitalismo? Quando, come e perché è sorto? E, infine, come mai proprio e soltanto in Occidente?

Ma intanto vediamo come Pellicani ha respinto le risposte date in precedenza alla sua domanda.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 40

Riforma, controriforma e capitalismo



Come si è visto, "la Riforma fu in tutto e per tutto un rigurgito di spirito medievale e, come tale, una forza spirituale affatto ostile allo spinto del capitalismo e a tutto ciò che in qualche modo appariva a esso collegato. Per intendere le profonde motivazioni che mossero Lutero e Calvino contro il nuovo ordine che la borghesia stava creando, nonché le ragioni della straordinaria mobilitazione di massa che la loro predicazione suscitò, occorre tenere presente la particolare logica di sviluppo dell'economia di mercato e le sue sconvolgenti conseguenze sociali e morali" (L. Pellicani, p. 88).

A tal fine è illuminante una pagina di Economia e società (1968, pp. 620-621) di Weber: "Il mercato, abbandonato alla sua autonormatività, conosce soltanto la dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano portatrici. Queste costituiscono altrettanti ostacoli al libero sviluppo della nuda comunità di mercato; e gli specifici interessi di questa, a loro volta, costituiscono la specifica base di prova di tutte queste relazioni. Interessi razionali in vista dello scopo determinano in maniera particolarmente grande i processi di mercato [...]. Il mercato 'libero', cioè non vincolato da norme etiche, con il suo sfruttamento della costellazione degli interessi e della situazione di monopolio, con il suo mercanteggiare è considerato da ogni etica come cosa indegna fra fratelli. Il mercato, in antitesi a tutte le altre comunità che presuppongono sempre la fratellanza personale, e per lo più una parentela di sangue, è alla sua radice estraneo a ogni fratellanza". Il che, per Ferdinand Toennies (Comunità e società, 1963, pp. 46-47), vuol dire che il mercato tende a sostituire i legami tipici della Gemeinschaft con i legami tipici della Gesellschaft, vale a dire a trasformare la "convivenza durevole e genuina" in una "convivenza passeggera e apparente".

Quindi, sottolinea Pellicani (pp. 89-90), non si tratta solo del fatto che con l'espansione delle relazioni mercantili i valori mondani prendono progressivamente il sopravvento sui valori religiosi; "si tratta anche del fatto che il mercato tende a dissociare il corpo sociale, 'sciogliendo' tutti i legami morali e affettivi — primi fra tutti, per l'appunto, quelli creati dalla religione (il significato etimologico di religione è legare, unire, tenere insieme) — che tengono insieme i socii. La stessa parola sotius subisce una profonda alterazione semantica: non vuol più dire membro di una comunità a essa legato da vincoli di solidarietà; ora — a partire dal momento, e nella misura, in cui la logica catallattica si espande — indica semplicemente colui che, avendo impiegato un capitale, partecipa ai profitti (o alle eventuali perdite) di una società commerciale. Un uomo egoista, dunque, mosso esclusivamente da considerazioni utilitaristiche, dal calcolo dei costi e dei benefici. E, in effetti, come una 'associazione di egoisti' viene giustamente descritto il capitalismo sia dal comunista Marx ('Il bisogno pratico, l'egoismo è il principio della società borghese') sia — e la cosa è altamente significativa — dal liberale J.M. Keynes ('Il capitalismo moderno è assolutamente non religioso, privo di unità interna, senza spirito pubblico, e spesso, anche se non sempre, pura congerie di possidenti e arrivisti'), vale a dire come una società a-morale, se non proprio immorale. Il suo principio costitutivo è l'autonomia dell'economia, la netta separazione fra il mondo degli affari e tutto ciò che non rientra nella sfera dell'utile. La razionalità, intesa nel suo significato etimologico ('Ratio è il termine tecnico per conto, calcolo [...] è l'atto di contare come lo si praticava materialmente e per iscritto' — E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 1976, vol. I, p. 114) deve dominare sovrana e incontrastata l'intera vita economica".

Osserva Eric Fromm (La fuga dalla libertà, 1968, p. 54) che "dappertutto il capitale commerciale tendeva a impadronirsi della produzione" e a subordinare, isolando il consumatore dal produttore, i mestieri al suo potere di comando. Inoltre, "la rapida dilatazione del mercato e il conseguente sviluppo della divisione del lavoro rendevano il capitalismo un sistema indecifrabile e incontrollabile per tutti i gruppi sociali scarsamente attrezzati per partecipare con successo al gioco della catallassi. Questi si sentirono estraniati di fronte a un mondo che non erano più in grado di capire e che appariva loro come 'impazzito'". Certo, la crescente importanza del mercato nella vita economica significava una maggiore autonomia dell'individuo che ora aveva la chance di scegliere la sua professione e di liberarsi, almeno parzialmente, dei vincoli tradizionali. Ma questa libertà per molti era ambigua in quanto, aggiunge Fromm, "venivano meno quei vincoli che solevano dargli sicurezza e un sentimento di appartenenza. La vita non veniva più vissuta in un mondo chiuso ruotante intorno all'uomo; il mondo era diventato illimitato e al tempo stesso minaccioso. Perdendo il suo posto fisso in un mondo chiuso, l'uomo perdeva anche la risposta sul significato della vita; la conseguenza era che cominciava a sorgergli il dubbio su se stesso e sullo scopo della vita. Era minacciato da possenti forze impersonali: il capitale e il mercato. Il rapporto con i suoi simili, ora che tutti erano diventati potenzialmente suoi concorrenti, era diventato un rapporto di ostilità e di estraneità: egli era libero, ossia era solo, isolato, minacciato da tutte le parti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 92

Lo svelamento dell'arcano



Secondo Marx, per spiegare la genesi del capitalismo occorre supporre "una accumulazione originaria precedente l'accumulazione capitalistica: una accumulazione che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico". Ma come si è formato tale punto di partenza?

Secondo l'"economia borghese", l'accumulazione originaria sarebbe avvenuta grazie alla industriosità di "una èlite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice" (J.A. Schumpeter). Marx respinge questa tesi, ma abbiamo visto che la sua tesi — cioè l'espulsione violenta dei contadini dalla terra — è ancor meno accettabile. D'altra parte il risparmio era ed è sicuramente un elemento del processo di accumulazione, "sebbene non nel senso e nella misura in cui l'economia classica afferma" (J.A. Schumpeter). Anzi, certamente in misura non determinante, essendo una virtù che per un verso è sempre esistita e, per altro verso, è esterna al processo economico razionalmente inteso.

Insomma, per esercitare la sua professione l'imprenditore avrebbe avuto bisogno di un capitale di partenza, ma sfortunatamente — ha constatato Pellicani — ne rimane tuttora oscura l'origine. E, probabilmente, tale resterà.

Anzitutto perché la funzione del capitale di partenza sarebbe imprescindibile soltanto se il presupposto essenziale del capitalismo fosse la formazione di due classi (una composta da coloro che hanno denaro per comprare sul mercato la forza-lavoro di cui hanno bisogno per iniziare la produzione di merci e l'altra composta da coloro che hanno solo la forza-lavoro da vendere per soddisfare i loro bisogni materiali). Mentre non sarebbe imprescindibile — o almeno è da dimostrare che sia ancora tale — se non fosse questo l'essenziale presupposto del capitalismo, come in effetti non lo è, secondo quanto abbiamo appurato sopra.

Ma, soprattutto, perché il punto non è quello di mettere insieme, con la violenza o con il risparmio, piuttosto che con qualunque altro mezzo, una somma di denaro e merci o mezzi di produzione. La loro concentrazione nelle mani di un soggetto, di per sé, non risolve nulla, come, del resto, aveva già capito perfettamente lo stesso Marx: "denaro e merci non sono capitale sin da principio". Né fanno diventare il loro proprietario automaticamente un imprenditore. Pirenne ha dimostrato che la borghesia imprenditoriale si rinnova continuamente grazie all'ingresso sul mercato di individui che partono da zero o comunque con un capitale di modeste proporzioni, cosicché aveva ragione Einaudi a qualificare il capitale "servo sciocco" dell'imprenditore, il quale può anche non possedere nulla di suo, al di fuori della sua intelligenza e della sua energia creatrice (Jean-Baptiste Say). È il citato caso di Godric di Finchale che costruì la sua fortuna su un calice rubato in una chiesa.

Già per Jerzy Topolski, il punto decisivo era che il concetto marxiano di accumulazione originaria non incrementa la somma dei mezzi di produzione disponibili a livello generale e neppure del loro equivalente valore monetario, "non è, cioè, come l'accumulazione vera e propria, una condizione del processo di riproduzione allargata, ma modifica solamente il grado di concentrazione dei mezzi di produzione".

Insomma occorre che denaro e merci "siano trasformati in capitale" (K. Marx). Vale a dire che non è l'accumulazione (meglio, la concentrazione) originaria che conta, ma l'accumulazione conseguente allo svolgersi del processo capitalistico che incrementa sia l'"equivalente valore monetario" dei mezzi di produzione sia, e conseguentemente, "la somma dei mezzi di produzione disponibili a livello generale".

Sweezy, richiamandosi a Pirenne, attribuisce una importanza decisiva al commercio a lunga distanza che fu la "forza creativa la quale generò un sistema di produzione per lo scambio".

| << |  <  |