Copertina
Autore Claudio Citrini
Titolo Da Pitagora a Borges
SottotitoloDiscussioni in rete sull'infinito
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2004, Matematica e dintorni , pag. 242, cop.fle., dim. 135x220x16 mm , Isbn 978-88-424-9147-7
LettoreLuca Vita, 2004
Classe matematica , filosofia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  1     Prologo

 13  1. La parola
 25  2. Enumerare
 33  3. Algoritmi
 51  4. Periodicità
 65  5. I numeri reali
 85  6. Quanti sono?
117  7. Uno strano numero
125  8. Asintoti
137  9. Avvicinarsi all'infinito
151 10. Limite
181 11. Inviluppi
191 12. Paradossi sulle serie
201 13. Induzioni
217 14. Regressus

227     Testi citati
233     Indice dei nomi


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina IX

Premessa


Questo libro nasce dalla curiosità, e questa sola dote richiede al lettore.

Parla di matematica, ma non richiede competenze superiori a quelle di uno studente liceale e non è un libro di matematica. Piuttosto sta nei suoi dintorni, come suggerisce il titolo della collana, nei primordi concettuali, là dove si formano le idee fondamentali, e le osserva nascere con lo stupore e la partecipazione con cui il vecchio Qfwfq delle calviniane Cosmicomiche annotava il plasmarsi della terra.

Parla tante lingue, ma non richiede la conoscenza delle lingue - se mai il piacere delle lingue. Si è cercato di far parlare ogni personaggio con le sue parole, documentandone con un certo puntiglio le fonti, perché lo si potesse conoscere meglio ed eventualmente visitare di persona. Tradurre è sempre tradire, per questo nelle note sovente si riportano gli originali delle frasi più significative. Se poi gli accostamenti sono irriverenti, o una frase beffarda interrompe un discorso che rischia di farsi pedante, è per evitare di prendersi troppo sul serio.

Parla di storia, di letteratura, di filosofia, ma non richiede null'altro che la disponibilità, da parte del lettore, ad accettare che "la matematica è soltanto lo strumento dell'universale e ultima conoscenza umana" (F. Nietzsche, La gaia scienza, 246). L'autore non è studioso di nessuna di queste discipline, ma pensa soltanto, con Terenzio, che nulla di ciò che è umano gli è estraneo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 1

Prologo


        Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
        la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra 'l sonno in
        riva di Scamandro, ...


Stavo sonnecchiando davanti al computer, in un'afosa giornata di luglio, cercando disperatamente di organizzare del materiale sull'infinito che avevo raccolto alla rinfusa, e la mia testa vagava tra mille frantumate reminiscenze scolastiche. Un ricordo delle medie mi passò improvvisamente nel subconscio:

    Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
    l'ira funesta che infiniti addusse
    lutti agli Achei, ...

«Ma guarda un po' - mi dissi - la parola "infinito" si trova proprio all'inizio dell' Iliade, cioè della letteratura occidentale!»

Un tintinnio vagamente familiare mi fece alzare le palpebre verso lo schermo, dove il programma di posta elettronica si era aperto automaticamente. Lessi il messaggio:

«Bestia! Che cos'hai studiato il greco a fare, se poi ti fidi del Monti?»

Punto sul vivo, mi ripetei mentalmente i versi originali - quelli che si trovano anche sulle T-shirt - e risposi:

«Hai ragione. Omero dice myría, che vuol dire tantissimi. Letteralmente» - aggiunsi per darmi un po' di tono - «diecimila».

«Ri-bestia! Sembra la stessa parola, ma cambia l'accento. Se è piana, myría, la parola ha significato generico, mentre se è sdrucciola, myria, rappresenta il numerale.»

«In greco si dice parossìtona e proparossìtona, non piana e sdrucciola», replicai piccato per essere stato preso in castagna per ben due volte.

«Credevo che ti fossi dimenticato proprio tutto.»

«No, lo sapevo, ma stavo dormicchiando.»

«Va bene, sei scusato. Anch'io talvolta dormicchio.»

«Quandoque bonus dormitat Homerus...»

«Appunto.»


Come, "appunto"? Ma con chi diavolo stavo scambiandomi messaggi? Peggio ancora, come facevo a riceverli e a spedirli, visto che il mio computer di casa non è in rete?

Con apprensione andai a leggere l'intestazione del messaggio. C'era scritto:

    From: Poeta.sovrano@nobilecastello.inf
    To: Claudio.C@pothi.gaia
    Object: Myriai aloghiai

Un tuffo al cuore! L'indirizzo del mittente era inequivocabilmente quello di Omero, almeno secondo padre Dante. Qualche hacker - pensai cercando di tranquillizzarmi - stava facendomi uno scherzo raffinato. Ma come aveva potuto intrufolarsi nel mio computer? Ormai si comunica via telefonino, pensai, quindi se qualcuno mi ha installato (a mia insaputa) il programma di posta elettronica mi può anche mandare messaggi finti. Un bel dono, pensai scherzosamente ricordando il significato del nome. Dovevo solo smascherare quello che mi stava facendo degli scherzi. Mi sarei fatto dare una mano da qualcuno più esperto di me, ma un hacker si può anche scovare.

Già, però quello non solo scriveva sul mio computer senza collegamenti fisici, ma mi aveva letto nel pensiero gli infiniti lutti degli Achei! Inoltre anche il mio indirizzo era strano. "Gaia" è la Terra: il termine è tornato di attualità, ma è prettamente omerico. Un po' vago come dominio, ma da uno che scrive da "nobilecastello.inf" poteva andare. Ma anche il "pothi", cioè "dovunquesitrovi" era vago. Un hacker non avrebbe inventato un dominio del genere. Quanto all'oggetto, era coerente: voleva dire "innumerevoli sciocchezze". Siccome ormai il torpore pomeridiano mi era del tutto passato, non c'era altra possibilità: era proprio Omero, o al più la sua segretaria, se al Limbo ne aveva una.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

1. La parola


La sera successiva presi posto davanti al computer, rigorosamente spento, e attesi con ansia. Dopo qualche istante, lo schermo si colorò dello sfondo giallino della chat, con la sua brava intestazione "Apeirologia", e comparve una frase di benvenuto.


TANA - Ciao, Epsi. Allora, da dove cominciamo?

EPSI - Dai primordi. Dalla parola. Mi sono sbagliato sui primi versi dell'Iliade, ma Omero magari usa veramente la parola "infinito".

HOM - Certo. Tu sai che infinito in greco si dice ápeiros, che vuol dire letteralmente "senza confine". Io uso una forma epica equivalente, ma sempre in senso iperbolico di sconfinato: sono tali la terra, il mare, il popolo, il sonno.

EPSI - Questa del sonno è l'accezione che mi piace di più.

HOM - Hai ragione. È molto evocativa. Anche il buio può essere infinito. Sai che il più grande inventore d'immagini dell'antichità, Pindaro, riferendosi agli inferi scrive: «di qui l'infinita tenebra discaricano / i torpidi fiumi della cupa notte»?

EPSI - Mi pare che manifesti la paura dell'ignoto, il trovarsi sperduti nel vuoto.

JLB - Questo è il senso eterno della notte. «Nessuna casa si affacciava direttamente sulla strada; a un angolo, un fico formava una gran macchia scura; i portoncini - più alti delle linee allungate dei muri di cinta - sembravano ricavati dall'infinita sostanza della notte».

EPSI - Appunto. La notte, cioè il buio, sono infiniti perché non se ne vede un limite. Per questo ci procurano angoscia.

ARI - Infatti noi ci troviamo bene solo nel finito, la parola infinito ci dà un senso d'incompletezza.

EPSI - Per la sensibilità moderna l'incompletezza non è sempre un fattore negativo. Prendi la Pietà Rondanini: che cosa potresti aggiungerci? Se la finisci, non ha più la stessa potenza evocatrice.

ARI - Sarà come dici tu, ma per noi, etimologicamente, perfetto significa terminato, completo.

EPSI - L'infinito può anche significare una grandezza immensa.

ARI - È vero. Eraclito - quello del «Tutto scorre» - disse anche: «I limiti dell'anima non riusciresti a trovare, pur percorrendo ogni via: ragione così profonda ha essa».

HOM - Sì, effettivamente in questo senso l'infinito acquista quasi una connotazione positiva.

EPSI - E si avvicina alla nostra sensibilità moderna sul termine.

AGO - Mio caro, noi crediamo in Dio, e per noi Dio è infinito.

ARI - Per noi gli dei non lo erano. Erano nati, come il mondo e dentro al mondo, e, seppure immortali, non erano onnipotenti. La loro volontà era limitata dal Fato, cui neppure loro potevano sottrarsi. E soprattutto non erano perfetti.

DANTE - Infatti vivevate «nel tempo de li dèi falsi e bugiardi».

ARI - Bugiardi magari sì. Ma falsi no, gli dei erano la personificazione di noi e del nostro mondo, così come lo vedevamo. Per questo erano pieni di difetti. E poi, tu, che hai chiamato Giove il tuo Dio, non puoi giudicarli.

DANTE - Ma dài, era una licenza poetica, per fare la rima! Però hai ragione, ho usato anch'io molta della vostra mitologia per esprimere concetti altrimenti astratti.

EPSI - È strano: etimologicamente "perfetto" e "infinito" sono termini contraddittori. Eppure per i greci gli dei non godevano di nessuno dei due attributi, mentre il Dio dei cristiani si caratterizza per entrambi.

AGO - Non puoi semplificare così la faccenda! Sono tante le sfumature di significato di queste parole, che difficilmente ne troverai un senso condiviso da tutti.

ARI - Comunque qualcuno pensava che l'Ente fosse infinito. Per esempio, Melisso diceva che «non ha principio né termine, ma è in(de)finito».

DANTE - Però ragionava in modo vago. Sono d'accordo con te che Melisso appartiene alla schiera di «chi pesca per lo vero e non ha l'arte. / E di ciò sono al mondo aperte prove / Parmenide, Melisso, e Brisso e molti, / li quali andaro e non sapean dove».

EPSI - Ari, dimmi un po', qual era il vostro concetto d'infinito?

ARI - Noi greci rifiutiamo l'infinito come attributo di cose esistenti.

EPSI - Cioè non esiste nessuna cosa infinita?

ARI - No, nessuna.

EPSI - Neanche tra gli oggetti ideali?

ARI - «L'infinito [...] non è mai in potenza, nel senso che possa poi diventare in atto una realtà esistente per se stessa: esso è infinito in potenza per il pensiero».

EPSI - Ma lo spazio non appare infinito?

ARI - Appare, forse. Ma non è. Per noi greci l'universo era finito, delimitato dal cielo delle stelle fisse.

EPSI - Questa mi è sempre sembrata grossa.

ARI - A dire il vero, anche ad alcuni di noi. Per esempio, Archita disse: «Venuto all'estremità, al cielo, mettiamo, delle stelle fisse, potrei forse stendere ancora la mano o la bacchetta verso l'esterno o no?».

EPSI - Come Jim Carey nel film The Truman Show, quando giunge a quel che sembrava il cielo e scopre che è semplicemente uno scenario dipinto?

ARI - Proprio così. Ma mentre lui esce nel mondo "vero", noi oltre il cielo delle stelle fisse non possiamo andare.

LUIGI PIRANDELLO - Lasciate che m'intrometta anch'io per ricordarvi che pure la marionetta che rappresenta Oreste nel teatrino - almeno così immagina il mio "fu Mattia Pascal" - volgendo gli occhi al «buco nel cielo di carta», «a quello strappo, donde ora ogni sorte di mali influssi penetrerebbero nella scena [...] si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto».

GIACOMO LEOPARDI - Bravo! Però prosegui pensando: «Beate le marionette [...] su le cui teste di legno il cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla!»

LUCREZIO - Il che dimostra che il cielo finito va bene solo alle teste di legno...

GIACOMO LEOPARDI - Ma che cosa dici, provocatore! «Niente infatti nella natura annunzia l'infinito, l'esistenza di alcuna cosa infinita. L'infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza»!

LUCREZIO - Non esiste nessun cielo delle stelle fisse, anzi non esiste nulla di fisso. Aveva ragione Archita. Pensa che assurdità ritenere che il mondo sia una sfera finita, fuori dalla quale non c'è niente. Se getti una freccia, dove si va ad infrangere?

ARI - Non ci puoi arrivare e basta. Il vuoto non esiste, non c'è nessuna direzione in cui gettare la freccia.

LUCREZIO - Ma va là. Lo spazio è infinito, e in esso gli atomi eseguono la loro danza cosmica eterna e illimitata.

ARI - Non credergli. Lo senti? È un atomista.

DANTE - Un seguace di «Democrito, che 'l mondo a caso pone».

LUCREZIO - Ma attraverso il grande Epicuro.

HOR - Anche tu come me ti professi «Epicuri de grege porcum»?

LUCREZIO - Non proferire quel nome, tu, edonista! Epicuro è il divino filosofo che ha rischiarato per primo i misteri della vita, togliendoci il timore della morte. Infatti, egli scrisse, «la morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 60

GAL - Pensa che io non ci volevo credere. Ero legato ai moti circolari, come Copernico, il quale scrisse: «Dopo ciò, ricorderemo che il movimento dei corpi celesti è circolare. Infatti, la mobilità propria della sfera consiste nel ruotare in circolo, esprimendo con questo stesso atto la sua forma, nel corpo più semplice, dove non si può trovare principio né fine...».

ARI - O meglio, ogni punto è principio e fine. Come disse Eraclito, «comune è infatti il principio e il termine sulla circonferenza del cerchio».

CLIDE - La perfezione del cerchio è dovuta al fatto che è, con la retta, l'unica curva piana ogni cui parte è uguale a un'altra parte.

EPSI - Ah, sì. E nello spazio ce ne sono?

CLIDE - Certo, c'è l'elica cilindrica, come dimostrò Gemino. Ma, ovviamente, i moti planetari non sono elicoidali.

GAL - Dunque essendo periodici devono essere circolari o composti di cerchi.

ARI - Guarda, ti cito io Copernico: «Solo il circolo, infatti, può riportare le cose passate».

EPSI - Ma come, siete alleati? Credevo che...

ARI - Su questi principi metafisici, più che alleati. Be', forse lui era più platonico, ma fa poca differenza. Mi cita in abbondanza, e per cose importanti, anche se talvolta perviene a conclusioni diverse dalle mie. Per esempio, usa il mio principio «Ciò che è infinito non può essere attraversato, né in alcun modo mosso» per dedurre che il cielo è fisso. Infatti, secondo lui, se ruotasse si allontanerebbe all'infinito, come per forza centrifuga. Però anche per lui c'è in realtà una bella sfera delle stelle fisse, sia pure con il Sole al centro, invece della Terra.

EPSI - Ma allora dove sta il motivo della disputa?

GAL - Eh, mio caro, togliere centralità alla Terra significa toglierla all'uomo. Almeno, questo è il percorso filosofico che ne consegue. La scienza non può prescindere dal contesto in cui opera, e ai miei tempi pensare una cosa del genere era più "pericoloso" che a quelli di Copernico. Per quanto già allora dovessero apparire sospetti, ma Copernico era un canonico, e non aveva alcuna intenzione di mettersi contro la religione. Come del resto neanch'io, sia chiaro, solo che in mezzo c'erano stati dei guastafeste come Giordano Bruno, con la sua storia degli infiniti mondi... insomma, ai miei tempi si era molto meno liberali, e poi c'erano le invidie e le rivalità personali.

DANTE - Detto fra noi, l'esperienza osservativa non è così evidente. Il centro della Terra non è forse «il punto / al qual si traggon d'ogne parte i pesi»?

MELA - Be', per capirlo ci volevo io. Ai tempi di Galileo la dinamica celeste non era ancora matura.

GAL - Hai ragione. Neanche quella terrestre. Io mi occupavo di cinematica. Ma lasciamo perdere e torniamo alla descrizione dei moti dei pianeti.

EPSI - Insomma, a parte la faccenda del centro, tu, Copernico e Tolomeo calcolavate il moto dei pianeti con deferenti ed epicicli?

GAL - Io tanti calcoli non li facevo a questo riguardo, veramente.

CLIDE - Faccio notare che per far funzionare il sistema copernicano ci volevano più epicicli che con quello tolemaico.

GAL - Solo che l'epiciclo di Venere nel sistema tolemaico doveva essere così grande che la brillantezza dell'astro avrebbe dovuto fluttuare in modo assai vistoso, molto più di quanto mostri l'esperienza.

DANTE - «Solea creder lo mondo in suo periclo / che la bella Ciprigna il folle amore / raggiasse, volta nel terzo epiciclo».

EPSI - Sei un tormento! Ma di tutto sei riuscito a parlare?

DANTE - Certo.

EPSI - Guarda, sto mangiando un bel panino con il salame. Hai parlato anche di questo?

DANTE - Come no? «in sé medesmo si volvea co' denti».

EPSI - Grr! Me la sono voluta!

MELA - Se avessero dato ascolto a Keplero, si sarebbero trovati di fronte a una situazione computazionalmente più semplice, ancorché inattesa.

GAL - Se avessi dato ascolto al cardinal Bellarmino, mi sarei risparmiato un sacco di guai. Lui l'aveva detto, di considerare l'ipotesi copernicana come mero artificio matematico: «Dico che mi pare che V.P. e il sig. Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico. Perché il dire, che supposto che la Terra si muova e il Sole stia fermo, si salvano tutte le apparenze meglio che non porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al matematico: ma voler affermare che realmente il Sole stia al centro del mondo, e solo si rivolti in se stesso senza correre dall'oriente all'occidente, e che la Terra stia al 3° cielo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa molto pericolosa non solo d'irritare tutti i filosofi e i theologi scholastici, ma anca di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante».

EPSI - Ma se le cose non stavano così, ma avevi le prove che effettivamente era il Sole a stare al centro, perché non doveva accettarlo?

GAL - Anche su questo il cardinale era stato molto prudente. «Dico che quando ci fusse vera dimostrazione che il Sole stia nel centro del mondo e la Terra nel 3° cielo, allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non le intendiamo, che dire che sia falso quel che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è l'istesso dimostrare che supposto ch'il Sole stia al centro e la Terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il Sole stia nel centro e la Terra' nel cielo; perché la prima dimostratione credo ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa, esposta dai Santi Padri.»

EPSI - Ma tu la prova ce l'avevi o no?

GAL - La miglior prova che avevo erano le fasi di Venere. Ma le mie osservazioni al cannocchiale erano controverse, e quelli che erano contro di me non ci volevano credere, e del resto io ero stato molto prudente. Anche perché, con le macchie solari, i monti sulla Luna, i satelliti di Giove, stavo smontando tutta la struttura dei cieli descritta da Aristotele.

EPSI - A me però, nonostante quel che diceva Cicerone, la periodicità piace. È rassicurante. Non ci sono proprio pianeti con periodi commensurabili?

GAL - Come no? I periodi di Nettuno e di Plutone sono in rapporto 2:3.

BACH - Cioè hanno un intervallo di quinta, come DO e SOL.

TANA - Quanta grazia! Il grande Johann Sebastian lascia i cori angelici per dirci qualcosa sulla musica.

GAL - Giove e Saturno risuonano come DO e MI (ottava più terza).

EPSI - Sai che giocando coi numeri scopri che anche Marte e il pianeta mancante (se valesse la legge di Titius) risuonerebbero nello stesso modo?

BACH - Dunque vedi che l'armonia del mondo c'è, talvolta con periodi elegantemente correlati, talaltra no. È come con la scala temperata.

EPSI - Che cosa intendi? Che c'entrano le note musicali? Chiariamo bene questa faccenda.

TANA - Niente affatto! Qui si chiude, se no la facciamo troppo lunga!

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 151

10. Limite


EPSI - Carissimi, mi piacerebbe che mi raccontaste per benino com'è nata l'idea del limite, e che cosa significa.

TANA - Attento, stai toccando una materia esplosiva!

EPSI - Perché? Mi pare una domanda molto naturale.

TANA - Certo lo è, ma sai quante discussioni si son fatte a suo tempo riguardo alle priorità!

EPSI - Le famose dispute tra Newton e Leibniz?

TANA - E chi dunque, se no?

EPSI - Intanto, mi pare che molte cose già bollissero in pentola; inoltre, ormai è passato un bel po' di tempo. Perciò mi aspetto interventi sereni: nell'al di là non dovrebbero esserci più gelosie tra i nostri amici.

TANA - Speriamo bene. Diteci intanto qualcosa di voi.

MELA - Io sono nato il giorno di Natale del 1642. L'anno è quello della morte di Galileo, ma il giorno è quello... Non ti pare una bella coincidenza?

FRIED - Dici così perché, fin dalla nascita, sei sempre stato un eretico e un miscredente. In realtà sei nato il 4 gennaio 1643. Che non è neppure il giorno della morte di Galileo, l'8 gennaio 1642.

EPSI - Fatemi capire... possibile che battibecchiate anche per un dato oggettivo come la data di nascita di Newton?

MELA - Sono stati i papisti per scipparmi la data migliore.

FRIED - Sessant'anni prima? Non ne azzecchi una giusta, con le date.

TANA - Te lo spiego io. Isaac si riferisce al calendario giuliano, che era ancora in vigore in Inghilterra (lo rimarrà fino al 1752). Ma già nel 1582, nei paesi cattolici, era stato introdotto il calendario gregoriano. Sai che saltarono allora lO giorni: dal 4 si passò direttamente al 15 ottobre, per cui la festa di S. Teresa d'Avila, che morì in quella notte, si celebra il 15 e non il 5 ottobre.

DANTE - Per fortuna che Gregario XIII se n'era dato cura! Come sai, io l'avevo detto, c'era ancora un piccolo errore nel calendario giuliano: «ma prima che gennaio tutto si sverni / per la centesma ch'è là giù negletta».

TANA - Sì, certo. L'errore era piccolo, non come ai tempi di Giulio Cesare, quando dovettero fare un anno di quindici mesi per sistemare le stagioni ormai sballate dall'epoca di Numa Pompilio.

GAL - Eh, questi eretici sono proprio degli imbroglioni. Senti che cos'era capitato a me: «Io scrissi nel mio Nunzio Sidereo d'aver fatta la mia prima osservazione alli 7 di gennaio dell'anno 1610, seguitando poi l'altre nelle seguenti notti: vien Simon Mario, ed appropriandosi l'istesse mie osservazioni, stampa nel titolo del suo libro, ed anco per entro l'opera, aver fatto le sue osservazioni fino dell'anno 1609, onde altri possa far concetto della sua anteriorità: tuttavia la più antica osservazione ch'ei produca poi per fatta da sé, è la seconda fatta da me; ma la pronunzia per fatta nell'anno 1609, e tace di far cauto il lettore come, essendo egli separato dalla Chiesa nostra, né avendo accettata l'emendazion Gregoriana, il giorno 7 di gennaio del 1610 di noi cattolici è l'istesso che il dì 28 di decembre del 1609 di loro eretici».

FRIED - Io sono nato il primo luglio del 1646.

MELA - Arrivavi sempre dopo di me...

FRIED - Dante, come finisce quella tua citazione di prima?

DANTE - Con «e vero frutto verrà dopo 'l fiore».

FRIED - Giusto. Newton è il fiore, io il frutto.

MELA - Epsi, come fa la canzone?

EPSI - Quale?

MELA - Quella di Endrigo, mi pare. Ah, ecco: «... per fare il frutto, ci vuole il fiore».

DANTE - Adesso sentite quella roba lì, nell'Antipurgatorio? Quando ci sono passato io, c'era Casella che cantava "Amor che nella mente mi ragiona", e lo faceva «... sì dolcemente / che la dolcezza ancor dentro mi suona». Parole mie, musica sua. Altro che cantautori.

FRIED - Ai nostri tempi invece, in Inghilterra s'importavano musicisti tedeschi.

TANA - Siete incorreggibili.

EPSI - Dunque anche su questo punto i nostri litigano, avendo ragione entrambi?

FRIED - Ma no, è solo un tormentone. Lo facciamo per tuo divertimento. Noi nella vita ci rispettavamo assai.

EPSI - Perché allora invece di scrivervi direttamente passavate attraverso il segretario della Royal Society, Henri Oldenburg?

MELA - Era per lasciare una traccia delle nostre conversazioni.

TANA - Prudenza e correttezza formale andavano a braccetto.

FRIED - Parliamo pure di diffidenza.

EPSI - A casa mia si dice: «Non per diffidenza, ma per pura sfiducia...». Ma è vero?

MELA - Senti un po', Epsi, come iniziavo la mia seconda lettera a Oldenburg: «Degnissimo uomo, a stento potrei dire con quanto piacere ho letto le lettere dei chiarissimi sig. Leibniz e sig. Tschirnhaus. Elegantissimo invero è il metodo di Leibniz per giungere a serie convergenti: basterebbe a mostrare l'ingegno dell'autore, anche se non avesse scritto nient'altro».

EPSI - Mi pare un bel riconoscimento! Non ti pare, Fried?

FRIED - Sì, però Newton, quando voleva, era anche piuttosto oscuro, coi suoi anagrammi.

MELA - Effettivamente, non nego. Difficilmente avresti potuto cavar fuori qualcosa da «6accdie13eff7i319n404qrr4s9t12vx».

FRIED - Già. Anche riordinate, le tue lettere dicevano «data iequatione quotcumque fluentes quantitates involvente, fluxiones invenire, et vice versa». In pratica: inventare il calcolo differenziale e integrale.

HENRI - Per me la frase significava: "So integrare tutte le equazioni differenziali".

EPSI - Una bazzecola!

HENRI - Per conto mio era millantato credito. È ben noto che la maggioranza delle equazioni differenziali non si può risolvere esplicitamente.

| << |  <  |