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| << | < | > | >> |IndiceUna valutazione dei valori morali: perché, come? 9 Introduzione di Gabriella Aleandri 13 INVENTARIO DEI VALORI QUOTATI 19 Ambizione 21 Amicizia 25 Ammirazione 29 Amore 33 Assoluto 38 Autenticità 43 Bellezza 47 Bene 51 Benessere 56 Bontà 60 Buonsenso 65 Buonumore 68 Carità 72 Castità 75 Civismo 79 Coerenza 82 Compassione 85 Coraggio 88 Creatività 92 Cultura 96 Curiosità 99 Denaro 102 Dialogo 106 Diritto 111 Dolcezza 115 Dovere 119 Educazione 123 Egoismo 128 Eguaglianza 133 Eleganza 137 Entusiasmo 142 Esperienza 145 Eternità 148 Famiglia 152 Fede 157 Fedeltà 161 Felicità 165 Fiducia 171 Fortezza 176 Fraternità 180 Gentilezza 184 Gioia 187 Giustizia 190 Gloria 193 Gratitudine 197 Gratuità 199 Identità 202 Individuo 205 Intelligenza 208 Lealtà 212 Laicità 215 Lavoro 219 Libertà 222 Onestà 226 Onore 229 Ordine 232 Orgoglio 235 Ospitalità 238 Pace 241 Pazienza 245 Perseveranza 248 Persona 250 Pietà 255 Potere 258 Povertà 261 Prudenza 264 Pudore 268 Purezza 271 Resistenza 274 Responsabilità 276 Rispetto 279 Saggezza 282 Salute 286 Semplicità 289 Silenzio 292 Sincerità 295 Solidarietà 298 Solitudine 301 Speranza 304 Temperanza 308 Tolleranza 311 Tradizione 314 Umanità 317 Umiltà 320 Umorismo 323 Universale 327 Utilità 330 Verità 334 |
| << | < | > | >> |Pagina 9I valori al banco di prova Per sviluppi successivi, e per una scelta selettiva dei rifiuti da scartare, è opportuno sottoporre la propria scala dei valori ad un vero e proprio controllo tecnico. Questa guida ti propone di passare o ripassare al banco di prova un certo numero di pretesi valori. Potrai così verificarne l'affidabilità. Come accade per i rifiuti domestici, potrai testarne la biodegrabilità, cioè la loro resistenza alle mode passeggere. Misurerai così oggettivamente i loro effetti nocivi o benefici sull'ambiente naturale e umano. Sai bene che, per quanto riguarda i rifiuti domestici, a seconda che si tratti di cartone, di plastica, di vetro o di metallo, potranno essere considerate maniere diverse di un loro riciclaggio. Anche per i valori morali si può proporre un'idea di "riciclaggio". La possibilità di riciclaggio non rappresenta una quotazione di propensione (cote d'amour). Indica piuttosto quanto si possa prendere (e quindi anche tralasciare) in questi valori.
Abbiamo cercato d'indicare con la maggiore serietà possibile la
rintracciabilità etimologica di ciascun valore. Alcune etimologie potranno
apparire fantasiose, o addirittura decisamente stravaganti. Per evitare
qualsiasi confusione, è stato dato loro il nome di "etimofollia"
(étymofolie).
Al lettore il giudicare se, in fin dei conti, non siano forse le più
illuminanti.
È necessario riciclare i "vecchi buoni valori"?
Ci si deve intendere bene su questo concetto di riciclaggio. Non si
tratta di servire di nuovo ad ogni pie' sospinto i "buoni vecchi valori".
Il preteso ritorno ai valori (sempre gli stessi: l'autorità, l'obbedienza,
quasi "vecchi giocattoli in legno"
[jouets en bois]:
per altro, troppo costosi!) non è troppo spesso che un rattrappirsi sui "bei
tempi passati". In effetti, affermiamo solennemente, all'inizio di questa
guida, che non esistono "buoni vecchi valori". Se un valore è veramente buono,
non invecchia mai. Inutile cercare di ringiovanirlo ad ogni costo. Riciclare
questi valori significa dunque, semplicemente, riscoprirli sotto uno strato
più o meno spesso di polvere, di cera o di sporcizia, che ha bisogno di
un'appropriata raschiatura.
Selezionare accuratamente i valori
In nessun caso questa guida pretende di dare lezioni di morale. Essa
ti propone di riafferrare i valori sul vivo, di coglierli, per così dire, con
le mani nel sacco, in flagrante reato d'arcaismo o al contrario nella loro
utilità. Certe situazioni interattive ne sveleranno il volto nascosto e le
insospettate risorse. Aneddoti, riferimenti utili, schede cinematografiche,
scenari a scelta multipla ti permetteranno di selezionare accuratamente
i valori. Puoi fare la parte del moderno o dell'antiquato, dell'autentico o
del falso, di chi è disponibile alle aperture o di chi non ha vie d'uscita.
Sta a te giudicare volta per volta se un tale valore abbandonato meriti
d'essere riscoperto, e se un altro, unanimemente celebrato, non stia
usurpando la sua quotazione.
Una guida che mira all'oggettività più imparziale
In materia d'etica, non ci si può fermare a considerazioni soggettive
o che affermino la propria identità. Sarebbe perfettamente inutile verificare i
valori morali, solo per concludere: «È ciò di cui ho proprio voglia?
Non ha valore se non ciò che mi piace». Supponi che una tua vicina pratichi il
maltrattamento di bambini o il racket di case di riposo; accetteresti di dire:
«A mio parere è un male, ma dal suo punto di vista può essere un bene»? È quindi
necessario mettersi alla ricerca di norme morali oggettive, e possibilmente
universali. Sarebbe veramente strano che, per esempio, la schiavitù o la tortura
fosse moralmente inammissibile qui, ma accettabile in altre circostanze.
Cerchiamo almeno di averne un'idea chiara.
Un punto di riferimento ormai inevitabile Nel XXI secolo, l'utente di valori non può più, onestamente, limitarsi a dire: «Da noi si è fatto sempre così», «Così va nella nostra società», «È una mia scelta», oppure: «Non abbiamo gli stessi valori». Si deve essere in grado di giustificare le proprie scelte etiche. Questa guida t'invita a percorrere il mondo dei valori in una prospettiva critica e comparativa. Ti propone di scoprire o di rivisitare i siti familiari o esotici dell'avventura morale, segnalandone i progetti buoni, gli aspetti negativi, i vicoli ciechi e le vie d'uscita. In una parola, la sua ambizione è quella di diventare il «Routard» dell'etica o il «Michelin» della morale. | << | < | > | >> |Pagina 13Introduzione
di Gabriella Aleandri
Perché un libro sui valori morali rivolto ai ragazzi? Al di là della retorica e di quelle che potrebbero sembrare le risposte più immediate, in cui si parla di crisi, se non di assenza di valori, ritengo che ogni generazione, comunque, abbia il compito di porgere ai giovani il proprio thesaurus, che è stato per essa stessa fonte nel dare senso alla propria esistenza, nell'orientare i comportamenti e nell'instaurare idonee relazioni intersoggettive e sociali, in un rapporto di reciprocità tra cultura e valori. Che cosa significa il termine valore? La sua etimologia risale al latino valorem, da valere, nell'accezione di "avere valore", "avere pregio", "essere forte", più il suffisso -orem, che indica "disposizione" o "stato". Indica in generale ciò che è oggetto di scelta, implica una valutazione da parte dell'uomo, ma può anche avere valore "globale", cioè scevro dalla necessità di apprezzamento. La connotazione morale del valore ne è l'emblema. I Greci lo chiamavano aretè (per sintetizzare, coraggio e onore), trasformatosi poi in paideia (educazione spirituale) e sophrosyne (saggezza, che implica molteplici valori), i Romani virtus: può essere designato come valore soltanto «ciò che è conforme alla natura o ciò che è degno di scelta» (Cicerone, De finibus bonorum et malorum, III, 2, 20). L'Occidente europeo li ha ricavati dalle radici ebraico-cristiane e dal processo di civilizzazione che Elias descrive esaurientemente ne La società delle buone maniere. Se nel passato le società cosiddette "tradizionali" trasmettevano i propri valori di generazione in generazione attraverso le pratiche educative familiari e tutta la comunità contribuiva a legittimarli, nelle attuali democrazie della postmodernità, delle "società liquide", della "mentalità flessibile" e della conoscenza si rivela quantomai necessario proporre, o riproporre in maniera più vicina alla cultura del tempo, i valori più "quotati", affinché i giovani, e non solo, possano rintracciare le proprie radici, il senso di appartenenza, la propria identità e le certezze per progettare la propria esistenza. Questo libro si propone, inoltre, l'arduo e ambizioso obiettivo di inlividuare valori che possano risultare "oggettivi" e "universali", proprio in un momento, il nostro, di crisi culturale che sembrerebbe, come già anticipato, precludere il darsi di un mondo oggettivo dei valori e della morale. Ma le motivazioni addotte a tale preclusione non sono sufficienti a sradicare il forte bisogno dell'uomo di ritrovare norme morali ed etiche non soggette all'arbitrio o all'interesse del momento o del singolo, per ricavarne indirizzi operativi validi e che siano in grado di ridare dignità alla persona umana. Appare evidente, in sostanza, che «valori come la sopravvivenza dell'umanità, il primato e la protezione della vita umana, la conservazione della natura, la dignità della natura umana, la giustizia, la libertà e l'uguaglianza formano già un nucleo sul quale si è formato un consenso universale fra i popoli ma non fra i governi» (O. Reboul, I valori dell'educazione, Milano, Ancora, 1995). La condizione sottesa al raggiungimento di quanto appena detto risiede nel vivere «in un clima di onestà, democrazia e partecipazione» (ibidem). «Una verità, un valore non è universale perché è accettato su scala mondiale o perché ha trionfato in sondaggi o referendum. L'universale è di tipo diverso... L'universale è... ciò che ciascuno può trovare in se stesso, e che dunque lo rende libero... In breve: un valore, come una verità scientifica, può essere universale senza richiedere per questo l'accordo unanime di tutti gli uomini [...] È lo stesso per l'educazione. Certo, i suoi saperi e i suoi valori variano da una cultura all'altra; ma si possono dire due cose. Da una parte, l'uomo è sempre e dappertutto il prodotto di un'educazione. E, d'altra parte, i saperi e i valori di essa sono sempre comprensibili, se non ammissibili. Si può allora riassumere in una parola ciò che la nostra cultura include di Universale: l'incontro, la possibilità di comunicare» (idem, Nos valeurs sont-elles universelles?, in «Revue Française de Pedagogie» 97 [1991] 10). Il valore del dialogo, quindi, assume un'enorme importanza, soprattutto per quel che concerne il suo contenuto. Il ruolo della scuola, in quanto luogo di incontro di istruzione e di educazione, trova nel processo di insegnamento/apprendimento, attraverso la comunicazione pedagogica e il dialogo, la conferma di uno dei suoi principali fini, quello della trasmissione dei valori morali sociali, condivisi. E il ruolo degli insegnanti in tale compito educativo si rivela fondamentale, nel guidare, accompagnare e stimolare i ragazzi nel loro complesso e difficoltoso cammino di crescita e di formazione della propria personalità. Un'educazione ai valori morali nella scuola diviene ancora più importante, allora, nella nostra epoca che ha visto profondi cambiamenti nel modo di pensare e di agire in seguito anche alle conseguenze comportate dall'enorme diffusione dei mass-media, dando ampia risonanza a nuovi atteggiamenti e stili di vita, che, se talvolta rappresentano strumenti di mutua comprensione e di unità e sono espressione di aspetti positivi (ad es. nel rendere consapevoli della propria dignità di persona o dell'importanza della solidarietà), talaltra, al contrario, si rivelano cassa di risonanza di aspetti negativi (ad es. violazioni proprio della dignità umana, attraverso racconti o immagini violenti), rivelandosi in tal modo dannosi e diseducativi. A questo proposito, la scuola e gli insegnanti sono chiamati ad intervenire attivamente nello stimolare i ragazzi affinché sviluppino uno spirito critico, responsabilità e consapevolezza, e siano in grado di discernere e riconoscere eventuali tentativi di manipolazione, tecniche di persuasione, ecc. E per fare ciò è indispensabile mettere in rilievo, prioritariamente, il rispetto per la persona umana. «Una sorta di educazione del sentimento morale non è solo educazione ai valori, ma anche educazione alle virtù. Non è, infatti, sufficiente chiedersi cosa devo fare: bisogna essere in grado di rispondere alla domanda "che persona devo essere"» (M. Corsi, Bioetica e Pedagogia. Educare alla vita, educare ai valori, 2007). Tale processo, poi, inserito in quello più ampio del lifelong learning, come ampiamente riconosciuto a livello europeo e internazionale, è diventato uno dei focus principali delle odierne democrazie, «è considerato il centro vitale della società, la quale non può non esprimere premura nei confronti dei talenti "che sono nascosti come un tesoro sepolto in ciascuna persona". Questi talenti sono "la memoria, la forza del ragionamento, l'immaginazione, l'abilità fisica, il senso estetico, la capacità di comunicare con gli altri ...", e "ciò che dimostra ulteriormente la necessità di una maggiore conoscenza di se stessi", per poter "imparare ad essere". Pertanto l'educazione "non deve trascurare alcun aspetto del potenziale di una persona". Solo un'educazione globale infatti può consentire di imparare ad essere "in modo tale da sviluppare meglio la propria personalità e da essere in grado di agire con una crescente capacità di autonomia, di giudizio e di responsabilità personale"» (S.S. Macchietti, in «Prospettiva EP», n. 1, 2000). Al conseguimento di questo traguardo l'educazione ai valori morali può offrire un significativo contributo, nel dare guida e senso alle scelte che ogni giorno ognuno di noi è chiamato a compiere. Quali valori scegliere? Dipende dalla concezione che si ha dell'uomo e della vita. Esistono dei valori che la coscienza e la storia legittimano come perennemente validi? Libertà, democrazia, giustizia, autorealizzazione, autonomia, creatività, solidarietà sono solo alcuni dei valori che, per utilizzare un termine frequente in questo lessico, sembrano avere un buon tasso di "riciclaggio". La loro "sopravvivenza" può essere spiegata dalla loro indiscutibile bontà, dalla loro oggettiva tendenza al bene. Ma l'uomo, lo sappiamo bene, può perdere il proprio "senso dell'umano" e rincorrere, sviato da "false culture" o inebriato da egoistiche e illusorie ambizioni di potenza, "falsi valori", veri e propri disvalori, arrivando così a scatenare guerre o genocidi. Invece, affinché valga davvero per l'uomo, un valore deve sempre rispecchiare l'ontologia del bene. E i valori possono essere ricercati e rintracciati attraverso la "legge del dialogo" e la "metodologia del confronto" (J. Monod, Il caso e la necessità, Milano Mondadori, 1971). Attraverso l'analisi, la riflessione e la personale interiorizzazione dei valori si compierà un passo verso l'acquisizione delle capacità di percepire, obiettivamente ed efficacemente, la realtà, di instaurare relazioni interpersonali soddisfacenti e improntate alla condivisione e alla reciprocità e non basate sulla sopraffazione e sull'intolleranza, di cogliere i problemi, di formarsi un proprio pensiero o una propria opinione scevri da un passivo conformismo. L'uomo, infatti, matura nella libertà delle idee e nel libero confronto: «Solo le altre persone libere possono arricchire spiritualmente le nostre libere persone ed accrescere con il loro valore il nostro valore» (A. Aliotta, 1951). Cottier, in un'approfondita analisi pedagogica sui valori, ne definisce a "valenza personale" come «la presenza di autentiche personalità, responsabili, coerenti, nella fedeltà ai valori fondamentali di cui vive la cultura e, con essa, la società» (G. Cottier, Valori e transizione, Roma, Studium, 1994, p. 116). Infatti, in quanto la loro natura è spirituale e trascendente, i valori «non si impongono da sé, ma devono essere vitalmente accolti... a prezzo di una lotta interiore contro tutte le pulsioni dell'odio, dell'egoismo e dell'aggressività che abitano in noi» (ibidem, p. 186). Il percorso educativo e formativo, allora, rappresenta lo specifico cammino attraverso cui la persona «faccia propri questi valori e li interiorizzi» nel senso di «un'accoglienza e un'assimilazione che siano pure esse di ordine spirituale, ossia che si realizzino nell'immanenza dello spirito» (ibidem, p. 119). La qualità della sua personalità dipende dalla qualità dei valori che intende perseguire. Con questo volume, pur con un linguaggio che vuole essere vicino ai giovani, con semplicità e ironia e senza pretesa di esaustività, si vuole stimolare la riflessione, la presa di coscienza e il confronto intergenerazionale per dare significato all'agire umano, che pur in presenza di repentini e continui cambiamenti, dettati anche dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, mantiene sempre la sua immanente caratteristica di appartenere all'umano. | << | < | > | >> |Pagina 25Etimologicamente la parola "amicizia" (latino amicitia) è legata al verbo amare e al sostantivo amore. Un' etimofollia è possibile ricavarla dalla corrispondente parola francese, amitié, per la sua somiglianza fonica con l'espressione «à moitié» (= "a metà"), che suscita l'idea di "condivisione"; la parola amitié sarebbe derivata da à moitié per contrazione...
Materiale: Simposio,
di Platone,
De Amicitia,
di Cicerone, o il XXVI canto del
Purgatorio
di Dante, le
Rime,
sempre di Dante, i canti XVIII e XIX dell'
Orlando Furioso
di Ariosto, il cap. XXXIII dei
Promessi Sposi
di A. Manzoni,
Rosso Malpelo
di G. Verga,
In memoria
di G. Ungaretti, e, perché no, anche
Canzone per Piero
di F. Guccini, i 27 volumi del ciclo di romanzi di Jules Romains:
Gli uomini di buona volontà
(1932-1947).
L'amicizia è davvero un valore sicuro? La parola non è scomparsa dal nostro vocabolario. Figura ancora in bella vista nella hit parade dei valori plebiscitari esibiti nelle pagine delle nostre riviste che vengono dedicate alla "psicologia". Non è quindi una parola "uscita di moda", e neppure usurabile. In apparenza, quindi, è un valore quotato. Ma sotto la stessa parola viene davvero guardata la stessa realtà? Niente di meno certo. Del resto, si tratta di un fenomeno frequente nel passare da una lingua all'altra e che si trova classificato nell'espressione "falsi amici". Physician in inglese significa "farmacista", e non "fisico"; il French horn indica – lo credereste? – il "corno inglese"; gift significa "dono" in inglese, ma "veleno" in tedesco (o dono avvelenato?). Ciò che accade, nello spazio geografico, da una lingua all'altra, può accadere anche nella storia delle mentalità. Cosa significa oggi "amicizia"? Qual è il suo vero valore? Un adagio attribuito ad Aristotele diceva pressappoco così: Platone è mio amico, ma molto di più è mia amica la verità. Aristotele è decisamente una persona senza cuore, un ipocrita! Oggi sembra prevalere la tendenza opposta: si preferiscono gli amici alla verità. Si cerca di rendere la verità più amichevole, più accomodante, meno perentoria. In breve: ci si arrangia "in via amichevole". L'amicizia deve prevalere sulla verità e sulla giustizia. Questo era il motto del presidente brasiliano Getulio Vargas: «Tutto per gli amici. Per gli altri: la giustizia!». Ecco qui un estratto dal capitolato d'oneri dell'amico del XXI secolo: • L'amico è sempre raggiungibile (lascia il suo cellulare acceso e non filtra le chiamate dei suoi amici). L'amico non ha bisogno d'essere fedele, dal momento che è raggiungibile. • Si deve poter dire ad un amico qualsiasi cosa: la sua funzione è ascoltare, accondiscendere, "comprendere", vale a dire scusare e assolvere senza la benché minima vergogna. L'amico sostituisce il confidente, il confessore e lo psicoanalista. • Una volta, si sfogavano pudicamente certe emozioni nel seno dell'amico. Oggi vi si riversano a tonnellate i propri problemi di lavoro, le proprie preoccupazioni familiari, la propria vita sessuale. L'amicizia ha ormai anche una funzione di "discarica municipale". Ovviamente, l'amico non è spazzatura; è, al contrario, uno "scarico per immondizie". • L'amico è sempre d'accordo, altrimenti non è un vero amico. Un amico che non sia della vostra opinione è un traditore. L'amico del XXI secolo o è consensuale o non è affatto un amico. Tra amici, il disaccordo è ormai impossibile (ciò che toglie il piacere di riconciliarsi con un amico).
• Secondo i punti che precedono, l'amico ideale non esiste: nessuno
è tanto disponibile, tanto usabile a piacimento, tanto complice,
tanto compiacente quanto sarebbe necessario per assumere correttamente questo
incarico. Cosa importa? Chi dice ancora di avere "un" amico? La parola non
esiste più al singolare. Si hanno
amici intercambiabili. Si ha un gruppo, una rete d'amici. Ciò che
un amico non ha potuto ascoltare (aveva spento il suo cellulare)
potrà recepirlo un altro al suo posto (magari attraverso un SMS).
In altre parole, l'amicizia funziona come una centrale telefonica o
come un numero verde: oggi si trovano in Internet tanti amici
quanti se ne vogliono, sempre pronti a chattare, cioè a chiacchierare in
discorsi senza capo né coda, a scambiare confidenze... e altre cose simili.
così cantava nel 2002 Lucio Dalla, noto anche per un'altra canzone
altrettanto significativa per l'espressione di sentimenti affettivi attraverso
i moderni "mezzi di comunicazione":
In queste condizioni, l'amicizia ha cessato di essere rara e, nello stesso
tempo, ha cessato di essere preziosa. Ecco perché gli esempi del passato
suscitano la nostra gelosia. Le amicizie di una volta ci fanno quasi
male, ed allora ci consoliamo pensando che si tratta di esempi letterari,
quindi fittizi. Non sono totalmente improbabili questi amici fedeli, leali,
disinteressati, liberi, e tuttavia sempre veritieri, che ci presentano l'epopea
antica (Achille e Patroclo o Eurialo e Niso), il teatro classico (Romeo e
Tebaldo, della tragedia shakespeariana
Romeo e Giulietta),
il romanzo moderno (Bouvard e Pécuchet, dei
Tre racconti
di Gustave Flaubert) o i fumetti contemporanei (Tintin e Haddock, Blake e
Mortimer, Boule e Bill)?
Lavori pratici:
ricerca bibliografica della più bella lettera d'amicizia.
Leggete qui sotto questo superbo esempio di lettera che esalta l'amicizia, tratto dalle pagine di Jules Romains (vero nome: Louis Farigoule), Gli uomini di buona volontà: Mio caro Epistemon, lasciami tendere, per abbracciarti e serrarti sul mio cuore, braccia di cinquecento chilometri. È passata appena un'ora da quando il fattorino mi ha recapitato il tuo telegramma... Ad essere ricevuto sei stato tu, e io l'ho proclamato facendolo riecheggiare tra le valli di questa montagna come un grido di giubilo. Ti giuro sul mio onore che soltanto questo mi ha fatto sussultare il cuore e mi ha fatto gioire per il mio successo. Da quanto mi hai scritto ho riconosciuto la forza della mia amicizia, che voglio indistruttibile.
Il tuo vecchio Jean des Entammeures.
L'amicizia così riciclata può definirsi con queste brevi annotazioni: - sopporta la distanza, - sopporta l'attesa, - cerca le gioie condivise, ma non necessariamente immediate o fruibili insieme, - apre una solida prospettiva di futuro. | << | < | > | >> |Pagina 148Etimologia: dal latino aeternum, derivato da un aeviternum, dove la componente aevum (= "evo", "età") fa pensare a un tempo calcolabile in "lunghi periodi". La parola "eternità" significa, comunque, una "durata senza limite di tempo", anzi "qualcosa che è al di fuori del tempo". In effetti, la nozione di eternità, rispetto al tempo, è del tutto analoga a quella di infinito rispetto ad uno spazio finito, limitato, circoscritto.
Eternità: un concetto difficile da capire nella sensazione di effimero e di
noia in cui spesso oggi si vive
Si è soliti dire, oggi, che si vive in cosiddetti "ritmi frenetici" dell'esienza: si passa dal tempo lavorativo, non sempre e non del tutto gradito, al tempo libero, in cui troppe volte proprio non si sa come ammazzare il tempo. Il risultato è, per molti, quella "noia mortale", quel taedium vitae, come si dice in latino, che ha indotto poeti e scrittori a scrivere anche dei veri e propri capolavori.
Leopardi, proprio il poeta che nell'
Infinito
mette a confronto «l'eterno, / e le morte stagioni», ne ha fatto uno degli
interrogativi più inquietanti, liricamente espressi nel suo
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia,
quando il pastore si rivolge alla luna e le chiede:
Moravia ci ha regalato, ne La noia, addirittura uno dei suoi capolavori (Premio Viareggio 1961), un romanzo in cui lo scrittore afferma, in sostanza, che la noia, uno stato d'animo che prima era prerogativa dei ricchi, è oggi più diffusa in molti che soffrono non trovando uno scopo nella vita.
Per molti, nel passare da una noia mortale (nel tempo) ad una noia
immortale (nell'eternità) non è che ci si guadagni molto nel cambio...
Pierre Dac (1893-1975), umorista e comico francese, ebbe a dire: «L'eternità
deve essere qualcosa di lungo, soprattutto verso la fine». Per molti altri è il
"riposo eterno"
(requiem aeternam).
Sviluppi dell'idea d'eternità Gli antichi non immaginavano un inizio del mondo se non in racconti mitologici. Il cosmo era per essi eterno. Con il monoteismo ebraico, l'eternità ha abbandonato il mondo per diventare un attributo di Dio, l'Eterno. E poiché le nostre società hanno "accantonato" Dio, non possiamo più credere all'eternità di qualsiasi cosa. Va riconosciuto che facciamo fatica con questo concetto d'eternità. Kant aveva osservato che, da un lato, non possiamo concepire chiaramente una durata infinita "smaltita" prima dell'istante presente, perché vi è contraddizione tra "infinito" e "smaltito"; ma che, dall'altro, è altrettanto difficile considerare un inizio del tempo, una data "prima della quale" non vi sia nulla, perché il nostro concetto di "prima" suppone giustamente quello del tempo. Possiamo rappresentare più chiaramente questa difficoltà di concepire l'eternità citando una celebre barzelletta ebraica:
«Il vecchio Mosè assilla di domande Dio nella sinagoga: "Signore, cosa sono
per Te mille anni? Un minuto! Cos'è per Te un milione? Un centesimo! Signore,
fammi dono di un centesimo!". Allora una voce gli riponde: "D'accordo, Mosè, ma
aspetta un minuto!"».
Due concetti d'eternità In effetti, vi sono almeno due eternità. Diciamo due distinti concetti d'eternità. L'uno è l'eternità "temporale": è un corso ininterrotto del tempo, una durata "sempiterna", che non finisce mai. È l'eternità del chewing-gum, in cui si tira in lungo il tempo masticando in perpetuo un pezzetto di gomma americana sempre più insipido. In questo tipo d'eternità si indugia in prolungamenti con perdita di sapore...
L'altro concetto è "atemporale": è una forma d'imponderabilità in
cui il "prima" e il "dopo" non hanno più corso, in cui niente passa perché
tutto è presente. Questa eternità non è il tempo fermato («Oh, temo, sospendi il
tuo volo!»), l'istante rappreso o il momento che si fissa
su una lunga sequenza. Questa eternità è tutti i tempi riuniti: qualcosa
con cui far impazzire tutti i pendoli e tutti i calendari. Ecco una venerabile
definizione dell'eternità tratta dal
De consolatione philosophiae
di Boezio: «L'eternità è il godimento perfetto e totalmente simultaneo d'una
vita senza fine».
Spegnere ogni desiderio, o accendere questa speranza completamente folle, abbracciando questa promessa strana di una vita eterna? Confessa che questa prospettiva, se non è un miraggio, è più appetitosa di quella di una gomma americana indefinitamente "ruminata". Una pienezza di vita in cui s'incrociano tutti i destini, in cui sono ricapitolati tutti gli avvenimenti in una perfetta novità. Qualcosa come una rinascita più in alto, una nuova creazione.
Ora, cos'è esattamente questa storia di vita eterna? Vorresti ridurla a
semplici prospettive banalmente materiali? Perché dovremmo desiderarla? Sarebbe
infine il rimedio definitivo a tutti i tradimenti, a tutte le ingiustizie, a
tutte le violenze, a tutte le malattie che devastano questo mondo quaggiù? Chi
può dartela in eredità, e a quali condizioni? Tutto
ciò che possiamo dire, per il momento, è che se la vita eterna non è già
cominciata, allora non è veramente eterna. In ogni modo, ti trovi di fronte a
una scelta: o cerchi di sfuggire al riciclaggio perpetuo del desiderio
e della sofferenza, del voler vivere e della malattia, oppure tenti l'avventura
della vita eterna.
Una guida degna di questo nome deve fornirti gli indirizzi delle
destinazioni che promette, o almeno alcune indicazioni. La prima è tratta
da un poema di Rimbaud, intitolato, giustamente,
L'Eternità:
L'eternità è il matrimonio dell'acqua con il fuoco, il sale e la luce.
Non un semplice ponte di tempo tra due mari, non la semplice estremità
di un istmo in cui scorra senza fine la sabbia di una clessidra delle
reincarnazioni. Ma piuttosto una riva di incontri.
La seconda indicazione è una profezia d'Isaia (11, 6) che evoca l'avvento di
un regno in cui:
Ovviamente, come fa osservare Woody Allen, se il lupo dorme insieme con l'agnello, l'agnello rischia di non chiudere molto gli occhi... Ma chi parla di chiudere gli occhi? Infine, per far salire la quotazione dell'eternità, si propone una terza citazione, quella di Simone de Beauvoir: «Amare qualcuno significa dirgli: non morirai». | << | < | > | >> |Pagina 323Etimologia: anche se la parola in se stessa, "umorismo", è un francesismo, in quanto direttamente collegabile con humorisme, a sua volta collegabile con l'inglese humorism (= "gaiezza", "brio"), la radice va ricercata nel latino umor, a sua volta collegato con il verbo umeo (= "essere bagnato"), con significato di "umore" che riguarda non tanto l'aspetto fisico quanto invece il "temperamento"; significa, infatti, "disposizione del temperamento", come anche "capriccio". Da notare che il significato di "inclinazione" e quello di "capriccio" risalgono alle teorie della medicina ippocratica, che attribuiva l'indole degli uomini al temperamento di quattro "umori" (sangue, flemma, bile gialla e bile nera). Umorismo: un "valore" di "drammatica" valenza tutta "pirandelliana"
Proprio Pirandello, il drammaturgo del
Così è se vi pare
e dei
Sei personaggi in cerca d'autore,
ci ha dato una famosa interpretazione del senso dell'umorismo in quella poetica
del contrasto tra la "vita" e la "forma" che trova espressione compiuta e
persuasiva soprattutto nel suo saggio
L'Umorismo (1908).
Egli lo definisce come "il sentimento del contrario", in quanto ogni singolo
uomo che gode di questo sentimento
stimola in se stesso una specie di "specchio riflesso", quindi un'immagine
distorta, e dà agli altri un'immagine inversa di quella che dovrebbe
essere normalmente. Ecco come egli stesso ce ne fornisce una descrizione nel
famoso esempio della "vecchia signora" (già citato alla voce "eleganza" di
questo lessico):
«Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. "Avverto" che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un "avvertimento del contrario". Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico».
Nelle sue riflessioni, il drammaturgo spiega poi che un comico fa ridere
proprio perché all'apparenza mostra al pubblico il contrario di
quello che dovrebbe essere, mentre l'umorista spinge invece a riflettere
sul motivo del contrario, passando così da un sentimento di avversione,
che faceva ridere il pubblico, ad un sentimento quasi di compassione,
che suscita non più una risata divertita, ma un sorriso di comprensione;
«non ci fermiamo alle apparenze – chiarisce ulteriormente Pirandello –,
ciò che inizialmente ci faceva ridere adesso ci farà tutt'al più sorridere».
Umorismo: un "valore" che desta ammirazione e stupore anche nelle situazioni più drammatiche Basta ricordare, ad illustrazione di questa dote così sorprendente, due episodi abbastanza noti nella storia di vicende tutt'altro che umoristiche nel corso dei secoli:
1. La prima riguarda il diacono romano San Lorenzo, martirizzato il
10 agosto 258 d.C. durante la persecuzione scatenata contro i cristiani
dall'imperatore Valeriano I. Gli
Atti del martirio
raccontano che Lorenzo, posto sulla famosa graticola per esservi bruciato vivo,
ad un certo punto si rivolge al carnefice e gli dice: «Da questa
parte sono cotto; girami dall'altra e poi mangiami». Ma ovviamente c'era poco da
ridere per questa battuta. Giovanni Pascoli, nella poesia intitolata
X Agosto,
la notte nota come quella delle "stelle cadenti", interpreta così il fenomeno:
2. La seconda riguarda un certo Alphonse Martainville, un giovane di 17 anni processato nel 1789 per attività contro-rivoluzionarie durante la Rivoluzione Francese e condannato ad essere ghigliottinato. Nel leggere la sentenza di morte, il presidente del tribunale rivoluzionario lo chiama Alphonse de Martainville, quindi con un «de» di troppo rispetto al nome esatto. Il condannato, senza scomporsi per la sentenza di morte, protesta però per l'"allungamento" del proprio nome: «No, signor presidente, mi chiamo Martainville, e non de Martainville». Ed aggiunge: «Cittadini, sono qui per essere accorciato, non per essere allungato!». Ilarità del pubblico, dal quale arrivano anche delle voci: «Se non si accorcia, allora venga elargi [notando che in francese elargir significa sia "allargare" che "rilasciare", o addirittura "scarcerare"!] . Persino il presidente si lascia coinvolgere dalla situazione "umoristica" che si è creata in tribunale e sentenza: «Allora, rilasciatelo! ["élargissez-le"]».
Meno male! Talvolta il "senso dell'umorismo" riesce persino a salvare una
vita, ricorrendo magari anche soltanto ad un semplice "gioco di parole".
«L'immaginazione è una qualità che è stata concessa all'uomo per compensarlo
di ciò che egli non è, mentre il senso dell'umorismo gli è stato dato
per consolarlo di quel ch'egli è»
(O. Wilde)
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