|
|
| << | < | > | >> |Indice1 1. Origini della questione arabo-israeliana (1920-1948) 1 Il mandato britannico sulla Palestina (1920-1922) 2 La Dichiarazione di Balfour 7 Il periodo tra le due guerre 8 Il movimento operaio ebraico in Palestina 13 Il Congresso islamico di Gerusalemme e il problema della Palestina 16 La seconda spartizione (1947) e la nascita dello Stato di Israele 24 2. Le guerre arabo-israeliane (1948-1979) 24 Primo conflitto arabo-israeliano (1948-1949) 25 Accordi e conseguenze 29 La Guerra del Sinai (1956) 31 Accordi e conseguenze 33 La Guerra dei sei giorni (1967) 37 Accordi e conseguenze 39 I Fedayin: dalla rinascita alla resistenza 42 La Guerra del Kippur (1973) 43 Il problema dell'unità giordano-palestinese e il fattore arabo 46 Accordi e conseguenze 47 Il discorso di Sadat davanti alla Knesset (20 novembre 1977) 48 Guerra dell'acqua e Alture del Golan: il conflitto tra Siria e Israele 51 3. Dall'impossibile dialogo alla pace (1980-1998) 51 Una pace violenta 53 Il terrorismo senza confini 57 La questione palestinese durante la Guerra del Golfo 61 Il conflitto arabo-israeliano nell'evoluzione terminologico politica 65 Il problema dell'integrazione della comunità araba in Israele 71 4. Dal dialogo di pace ai monologhi di guerra (1998-2006) 73 Dagli accordi di Wye Plantation al fallimento di Camp David: la pace si ferma a Gerusalemme 85 I coloni e gli insediamenti: funzione geopolitica e identità religiosa 87 La seconda Intifadah 97 Voci dall'Intifadah 98 All'ombra delle Torri 105 L'Europa e la questione arabo-israeliana 106 La Palestina che c'è e non c'è 115 Anp-Stato palestinese. Sinossi 116 Road map, raid map 125 Muri reali e accordi virtuali 134 La guerra demografica 135 Il tempo delle svolte (2004-2006). Geografia degli spazi, geografia degli spiriti 143 La guerra dei cerchi concentrici. Il conflitto israelo-libanese (2006) 157 La guerra civile libanese (1975-1990) 164 5. Cento anni di sionismo e antisionismo (1897-1997) 164 Il sionismo visto dagli ebrei 171 Sionismo, ebreo, israeliano 173 Gli antisionismi 180 La Santa sede, Israele e la Palestina 181 Noi ricordiamo. Una riflessione sulla Shoah 182 Il Vaticano di fronte all'ebraismo e a Israele 190 La questione dei Luoghi santi 192 Gerusalemme 198 Una strategia per Gerusalemme 200 6. "Nuova storiografia" e uso pubblico della storia 200 Nuovi storici, vecchie domande 212 La perdita della purezza. L'espulsione dei palestinesi e il vizio d'origine di Israele 222 "Il settimo milione" 227 Appendici 229 a) Carte geopolitiche 248 b) Documenti 248 Dichiarazione di Balfour (2 novembre 1917) 248 Risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu n. 181 (29 novembre 1947). 249 Risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu n. 242 (22 novembre 1967) 250 Risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu n. 338 (22 ottobre 1973) 251 Risoluzione dell'Assemblea generale Onu n. 3379 (10 novembre 1975). Dichiarazione sul sionismo 252 Risoluzione dell'Assemblea generale Onu n. 4886 (16 dicembre 1991). Abrogazione della Risoluzione Onu n. 3379 252 Accordi Camp David (17 settembre 1978) 254 Risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu n. 1559 (2 settembre 2004) 255 Risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu n. 1701 (11 agosto 2006) 260 Patto della Lega araba (1945) 261 Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele (1948) 262 Atto costitutivo nazionale palestinese Olp (1964; 1968) 265 Legge sulla protezione dei Luoghi santi (1967) 266 Statuto del Movimento di Resistenza Islamico Hamas (1988) 285 c) Gli accordi di pace (1993-2004). 285 Gli accordi di pace a Washington (13 settembre 1993). La dichiarazione di principi israelo-palestinese 285 Accordo fondamentale tra la Santa sede e lo Stato di Israele (30 dicembre 1993) 286 Accordo del Cairo su Gaza e Gerico (4 maggio 1994) 288 La dichiarazione di fine belligeranza tra Israele e Giordania (25 luglio 1994) a Washington. Il trattato di pace tra Israele e Giordania (26 ottobre 1994) 289 Accordo di Taba per l'estensione dell'autonomia palestinese in Cisgiordania (24 settembre 1995). Ratifica a Washington (28 settembre 1995) 292 Protocollo su Hebron (15 gennaio 1997) 294 Accordo palestinese-israeliano di Wye Plantation (23 ottobre 1998) 295 Una "Road map" imperniata sui risultati per una soluzione permanente del conflitto israelo-palestinese basata su due Stati (30 aprile 2003) 302 Road map: le riserve di Israele (27 maggio 2003) 304 Piano di disimpegno dalla Striscia di Gaza e da una parte della Cisgiordania (Piano Sharon, 6 giugno 2004) 310 I piani di pace non realizzati 313 d) Banca dati 323 Cronologia (1917-2006) 438 Glossario 481 Bibliografia 505 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 11. Origini della questione arabo-israeliana (1920-1948)Il mandato britannico sulla Palestina (1920-1922) Il punto di riferimento essenziale per cogliere il nodo storico della questione arabo-israeliana è il 1917, allorquando Lord Arthur J. Balfour, ministro degli esteri inglese, annunciò sotto forma di una lettera inviata il 2 novembre a Lord Lionel W. Rothschild, presidente onorario della Federazione sionista, che il governo di Sua Maestà vedeva con favore la fondazione in Palestina di «un focolare nazionale per il popolo ebraico», anche se, continuava la Dichiarazione, «nulla sarà fatto che possa recare pregiudizio ai diritti civili e religiosi delle Comunità non ebraiche esistenti in Palestina o ai diritti e allo Statuto politico di cui godono gli ebrei in ogni altro paese». La Dichiarazione di Balfour, che affermava l'impegno del governo inglese di costituire in Palestina la sede nazionale del popolo ebraico, si inseriva nel contesto generale conseguente il crollo dell'impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale. Infatti, la Dichiarazione servì alla Gran Bretagna per stabilire una testa di ponte nell'occupazione della Palestina, che avrebbe voluto sottrarre alla Francia nella divisione del Medioriente tra le potenze europee vittoriose. In effetti, tutti i Paesi arabi (Egitto, Arabia e zona della Mezzaluna fertile) cessavano di appartenere alla Turchia: si apriva così l'irrisolvibile nodo delle spartizioni e del riordino totale dei territori ex ottomani. Anzi, emergeva perentoriamente il problema della "creazione", artificiale e ad hoc, di nuovi Stati, da stabilire equilibrando le radici storiche, le contingenze presenti e, soprattutto, gli interessi internazionali delle grandi potenze. La Società delle nazioni (Sdn) escogitò la formula dei mandati per risolvere queste contraddizioni, e incaricò appunto la Francia e la Gran Bretagna dell'amministrazione dei territori della Mezzaluna fertile per portarli all'indipendenza. Del resto l'intenzione di adottare il criterio dei mandati, che svuotava il principio dell'autodeterminazione del popoli presente nei 14 Punti di Wilson, era chiara già prima della Conferenza di pace di Parigi (18 gennaio 1919). Infatti, il 16 maggio 1916, un accordo segreto anglo-francese, definito "Sykes-Picot" (dal nome delle due personalità che lo trattarono), definiva le diverse spartizioni geopolitiche. In base all'accordo la Francia avrebbe amministrato la Cilicia, la costa siriana e libanese fino ad Akko. La Gran Bretagna avrebbe amministrato la Mesopotamia meridionale, compresa Bagdad, il Distretto di Bassora e, in Palestina, i porti di Akko e Haifa; la zona intorno a Gerusalemme sarebbe stata internazionalizzata così come Betlemme, Nazareth e le rive del lago di Galilea (con la soddisfazione della Chiesa cattolica). Il 6 giugno 1916, una volta conclusisi gli accordi, il potente emiro hashemita dell'Heggiaz e sceriffo della Mecca, Hussein Alì, dette vita alla rivolta del deserto nella quale si rese famosa la figura ambigua del colonnello Lawrence, agente britannico, noto come Lawrence d'Arabia. L'emiro Hussein aspirava all'indipendenza di un grande Stato formato da tutti i territori arabi dell'impero ottomano, e in questo progetto era sostenuto, o quantomeno benevolmente non ostacolato, dalla stessa Gran Bretagna, che, nel frattempo, aveva però sottoscritto l'accordo Sykes-Picot. Del resto l'emiro Hussein era confortato, nelle sue rivendicazioni, da una serie di promesse, documentate da uno scambio epistolare (agosto-ottobre 1915) con sir Henry MacMahon, Alto commissario inglese per l'Egitto. | << | < | > | >> |Pagina 714. Dal dialogo di pace ai monologhi di guerra (1998-2006)Anche gli eventi più recenti del conflitto israelo-palestinese hanno consegnato alla riflessione geopolitica alcune rilevanze, se non permanenze, tipiche dell'intero conflitto. In particolare, gli anni che corrono dal 1998 al 2002 hanno confermato alcuni dei processi interni alle relazioni mediorientali: una tensione continua tra la necessità del realismo e il richiamo all'idealità metastoriche, la coesistenza della volontà alla trattativa diplomatica accanto all'urlo nichilista della guerra, la sintesi tra il senso dell'appartenenza identitaria e il bisogno di separazione, la mescolanza di esortazione alla mediazione e utopia della rivoluzione. Luoghi di culto e latrine, martiri della fede (shahid) e soldati d'acciaio, lanciatori di pietre e governanti corrotti, bombe umane di furiosi kamikaze che ignorano l'innocenza e cieche rappresaglie che non conoscono responsabilità: tutto si sorregge in un precario e liminare equilibrio sospeso tra pace possibile e guerre permanenti. Come in un triste e sviante déjà vu c'è la sensazione di una coazione a ripetere sempre con gli stessi uomini, sempre più carichi dei loro rancori pieni di bile che masticano fredde e impossibili vendette: Arafat-Peres, Arafat-Sharon, Arafat-Netanyahu, Arafat-Barak. Dietro ai personalismi storici, emergono le rispettive società civili sempre meno disposte alla comprensione delle ragioni altrui, sensibili semmai ai richiami degli opposti estremismi, comunque critiche verso classi dirigenti ingessate e poteri cristallizzati. Nell'età della grande trasformazione internazionale e nel nuovo contesto del terrorismo globale, il conflitto israelo-palestinese rischia così l'implosione, perché gli attori, ingessati sulle proprie memorie e storie, restano legati a una lettura della realtà fatta con categorie ormai desuete e certamente schematiche: essa appare non intelligibile a loro stessi e finisce per prevaricare ogni soluzione. La geografia dello scontro si presenta del resto assai diversa rispetto al 1993 anche su entrambi i fronti opposti: da una parte è emersa la fragilità della leadership ormai quarantennale di Arafat che ha moltiplicato la già frammentata galassia palestinese nella quale si è sciolto persino il tradizionale riferimento di Al Fatah, con la conseguenza della mancata elaborazione di una linea strategica da imporre a Israele e al mondo arabo (qui l'inconcludenza della seconda Intifadah, scissa tra i pretoriani Tanzim di Marwan Barghuti e il fanatismo terrorista dei kamikaze di Hamas e Jihad); dall'altra parte Israele è apparso con la sua classe governatrice sempre più ripiegato nella logica dell' afradà (separazione), così che lo spirito del processo di Oslo si è accentuato vieppiù sul carattere securitario piuttosto che politico, svuotandosi mano a mano anche della sua carica simbolica e di promozione di dialogo. Ancora: il fallimento politico ed economico della gestione dei Territori autonomi da parte della dirigenza legata ad Arafat, accusata dall'interno di corruzione e autocrazia, ha bloccato in nuce gli stessi presupposti di democrazia presenti nell'Anp, originando una profonda demarcazione tra élite e popolo, ormai smobilitato ed esasperato da una profonda frattura sociale; Israele, per contro, nell'incomponibile puzzle di una società che declina insieme arcaismi religiosi e avanzata modernizzazione scientifico-economica, non riesce a riproporre altro che il vecchio schema dei governi di unità nazionale, sistematicamente posti sotto scacco, di volta in volta, dalle minoranze etnico-religiose e ultranazionaliste. Anche dal profondo processo di revisione culturale e psicologico del sionismo classico che attraversa la società civile israeliana, ormai lontana dal mito del Tsabar (sabra), non è ancora emerso un nuovo paradigma di Israele, melting pot di secolarizzazione e ortodossia, strade informatiche e yeshivà, insediamenti di coloni e cosmopolitismo. Parallelamente, la crisi della coscienza politica palestinese, pur dipendendo anche dall'ambivalenza dei rapporti che la società intrattiene con un'Autorità nazionale originariamente figlia del movimento di liberazione ma organicamente legata alla Stato di Israele, è dipesa dalla percezione di una pace imposta dall'esterno sulla quale la società non ha avuto voce in capitolo. Inchieste locali hanno infatti «mostrato un calo spettacolare dell'impegno politico tra il 1994 e il 1999: per esempio, la percentuale di coloro che si dichiarano senza schieramento politico è più che raddoppiata tra queste due date, in particolare negli ambienti più istruiti. Contemporaneamente, è stato osservato un calo significativo dell'interesse per l'informazione e una crescente voglia di migrazione nelle generazioni più giovani». In questa disgregazione politica della società palestinese, gli appelli alla guerra santa degli integralisti religiosi acquistano forza e sostanza di mobilitazione nei confronti delle masse diseredate (che non sono solo i profughi) e si pongono di fatto quali saldi riferimenti per ipotetici riscatti da subalternità secolari. Si spiega in tal modo il fallimento seguito ai negoziati di Camp David del luglio 2000, ultimi e sistematici incontri bilaterali svolti con la mediazione del presidente americano Clinton per passare da uno status ad interim a uno "definitivo". Alla vigilia degli accordi tanto BArak quanto Arafat si presentavano fortemente indeboliti: il primo ministro israeliano (maggio 1999- febbraio 2001) non aveva più una maggioranza dopo la defezione di sei ministri dello Shas, dell'Nrp e di Israel Ba'aliya, mentre l'immagine dell'Anp, corrotta e clientelare, confermava una crisi di legittimità derivante dalla mai risolta questione tra scelta moderata e radicalismo di fondo, tra Stato o rivoluzione. Insomma: la pace sarebbe dovuta passare tra due leader dimidiati con alle spalle società spaccate da una guerra permanente anche se mascherata. Così, in quei giorni di speranza, si passava senza soluzione di continuità dal dialogo di pace ai monologhi di guerra: di li a poco, il 28 settembre 2000, la risposta dei palestinesi alle proposte di pace di Barak «non fu un'attività diplomatica ma il lancio di una seconda Intifada, quasi subito battezzata dal leader palestinese "l'Intifada di Al Aqsa", dalla moschea dove aveva avuto inizio la ribellione. Grazie alla sua coloritura religiosa, il nome servì a mobilitare sentimenti filopalestinesi nel mondo arabo e in quello islamico». Che si trattasse di lampi di guerra era naturale dedurlo dalla provocatoria visita alla Spianata delle Moschee — area amministrata dal Wafq (il Fondo religioso islamico) — che Ariel Sharon, a quel tempo leader del Likud, aveva fortemente voluto al fine di ribadire la sovranità israeliana su di essa. Era l'inizio della seconda Intifadah che ha causato, fino al gennaio del 2002, 1132 vittime, delle quali 872 palestinesi e 238 israeliani. Una guerra; un'ecatombe. | << | < | > | >> |Pagina 2006. "Nuova storiografia" e uso pubblico della storiaNuovi storici, vecchie domande Memoria(e) e identità si presentano come due termini e concetti latitudinari, tanto che la loro frequenza nel discorso contemporaneo li ha caricati di una varietà di significati da farli diventare dei puri clichés. Il rapporto identità nazionale e memoria nell'Europa occidentale, poi, è denso di rimandi e antitesi, ancor più moltiplicati nel momento stesso in cui il crescente potere retorico delle soggettività scopre «la pluralità delle memorie collettive», le quali si contendono l'interpretazione dell'immagine del passato. Per usare paradigmi ermeneutici in uso nel dibattito storico italiano, possiamo affermare che anche nella ricostruzione della questione arabo-israeliana emerge da molti anni lo stesso tema della «memoria divisa» o della «memoria storica condivisa» e dell'uso pubblico, più che politico, della fisionomia originaria dello Stato di Israele. O meglio: in Israele la lenta erosione della "vulgata" storiografica, generativa di autocoscienza collettiva, ha svuotato il costruito della civil religion all'interno della stessa opinione pubblica e ha coinvolto le narrazioni collettive che hanno prodotto l'identità di una nazione. In breve, la narrazione sionista della storia ebraica – largamente dominante sino a oggi – per la quale la storia del popolo ebraico ha un senso preciso nella costituzione dello Stato, è stata messa in discussione non tanto e non solo nel merito, ma anche nelle procedure di narrazione e nell'uso delle fonti di ricerca a essa sottesa. In questo orizzonte, è emersa una generazione di storici definita (o autodefinitasi) dei «nuovi storici» che, attraverso un'abbondante pubblicistica nata da indagini archivistiche (soprattutto delle carte governative e militari israeliane degli anni quaranta), di recupero di testimonianze e di incrocio di testi, ha riconsiderato spesso polemicamente i nodi fondamentali della civil religion israeliana nonché i suoi miti fondativi: il rapporto tra potenza mandataria e Stati arabi con lo sfondo dell'intesa tra Transgiordania e Agenzia ebraica; il rapporto tra Shoah e costruzione dello Stato ebraico; il nodo del conflitto del 1947-49 con il delicatissimo problema dei profughi palestinesi; i caratteri dei conflitti dal 1956 al 1982 con l'indicazione delle responsabilità israeliane sulle questione dei confini e delle paci mancate; la critica all'affermazione di una temperie politica-culturale in Israele prodotta da una parallela egemonia storica della mitologia nazionalistico-militare. Come dire: tale revisionismo storiografico «ha giudicato indispensabile indicare, verso la metà degli anni settanta, una via di emancipazione da quelli che considerava i prevalenti atteggiamenti di autoglorificazione e di superficialità delle tradizionali ricerche gestite dall' establishment. Come è comprensibile il confronto si è presto dilatato destando pure l'interesse di studiosi palestinesi, arabi e non ebrei specie negli Stati uniti, in Gran Bretagna e Francia». L'obiettivo della "nuova storiografia" sulle vicende nazionali e internazionali dello Stato ebraico, ha tentato – come ogni revisionismo storico – di destrutturare il "canone" identitario israeliano con i suoi simboli, icone, luoghi e date per mostrare come esso sia il risultato di un'artificiale costruzione politica, caratterizzata dall'invenzione di una tradizione (homo hebraicus: lo Tsabar o sabra come ebreo antidiasporico) e dall'autoperpetuazione di alcuni gruppi sociali (l'élite del kibbutz come risorsa preziosa per la classe dirigente del paese, ma anche il segmento manageriale dell' Hevrat Ovdim, le imprese economiche laburiste affiliate all' Histadruth). Questa operazione elaborata dalla "nuova storiografia" si è presentata, in realtà, essa stessa con sostanza e con forma politica, tesa com'è a trasformare Israele in un paese "normale", anche se – va ricordato – l'aspirazione alla normalità ha rappresentato una dimensione specifica del sionismo. Ma, secondo i "nuovi storici", proprio la promozione dell'esistenza nazionale e il progetto di trasformazione dell'uomo ebreo – tipici dell'originario sionismo – sono stati ipostatizzati in vere e proprie categorie dello spirito, così come la questione della Shoah. La critica alla monumentalizzazione della memoria svolta dalla "nuova storiografia" israeliana si è però esercitata paradossalmente entro le coordinate di un giudizio di valore, che prevale (meglio: prevarica) sull'analisi dei duri fatti della storia; i "nuovi storici", alla fine, si pongono più sul piano dell'apodittica valoriale – che vorrebbero invece nelle intenzioni abbandonare – piuttosto che su quello dell'interpretazione della legge bronzea degli eventi. Ciò è confermato dall'idea di base della riscrittura storica della "nuova storiografia" – formata per lo più da cinquantenni intellettuali favorevoli al processo di pace –, che si è concentrata infatti, almeno inizialmente, sulle questioni riguardanti il vizio d'origine dello Stato ebraico e sulle violenze subite dagli arabi, che divennero negli 1947-1948 profughi dietro la spinta militare degli ebrei, anziché di propria volontà, come sostiene contrariamente la consolidata storiografia israeliana. Una tesi storica – come afferma la stessa Fiamma Nirenstein – «piuttosto logica, e neppure tanto scandalosa», per di più non nuova (come vedremo in seguito): «lo scontro ci fu e fu crudele da entrambe le parti, e anche gli arabi fecero stragi di ebrei tutte le volte che poterono perpetrarle. La legge di necessità determinò i difficili eventi del tempo. Ma il modo con cui Morris è stato accolto, e poi seguito da un'intera scuola di ricercatori delle colpe d'Israele, oppure contestato da testimoni del tempo irati fino alle lacrime, è segno di quanto importante fosse per l'Israele del mito di fondazione, il credo della bontà e della giustizia». In questo orizzonte ermeneutico, condividiamo la posizione, tra gli altri, di Claude Klein che indica come la «critica della narrazione sionista non è vissuta in modo tranquillo. In effetti, poiché essa si concentra su un "peccato originale", potrebbe rilevarsi di natura tale da rimettere in discussione la legittimità stessa dello Stato di Israele. Per uno Stato che fin dalla sua creazione è alla ricerca di legittimità, questa critica sul piano storico assume una portata enorme». La critica dell'innocenza pertiene così alla "nuova storiografia" che si domanda come, con quali «procedure» e «lentezze [...] si è fatta strada la consapevolezza del male, non come possibilità astratta iscrivibile nel proprio orizzonte, bensì come segmento concreto e storicamente databile e individuabile nella propria storia»; in altri termini, come ben argomenta David Bidussa, si tratta «di riscrivere la stessa civil religion modificando la scala gerarchica delle sue componenti o sostituendone alcune».
La crisi della
civil religion
israeliana e la prima produzione della pubblicistica dei "nuovi storici" emerge
negli anni settanta, e ha come riferimento fattuale il passaggio del governo
dalla maggioranza laburista a quella di tipo conservatore-nazionalista del
Likud. Precisamente nel 1977 il governo della destra nazionalista, formato da
una coalizione di partiti liberali e religiosi (la cosiddetta
Mahapakh),
dette origine a una strutturale privatizzazione mirante a smantellare il ruolo
interventista dello Stato, smobilitando le élite tradizionali del laburismo,
sempre al governo dai tempi dell'yishuv. «Dietro a quel passaggio si manifesta
certamente una svolta nella vita politica e civile israeliana: soggetti e attori
culturali e politici a lungo marginalizzati o non fondanti, iniziano a occupare
il centro della scena modificando sensibilmente il quadro di riferimento. Da
parte di qualcuno quel passaggio è stato eccessivamente enfatizzato come il
sorgere di una seconda generazione della politica
israeliana. Una "seconda generazione" riconoscibile per tratti distintivi molto
marcati: il rifiuto di alcuni valori fondativi della società dei pionieri,
l'insorgere di movimenti religiosi ortodossi e la loro centralità sullo scenario
politico israeliano. Tendenzialmente il passaggio da un modello societario
laico, comunque secolarizzato, a uno in cui acquista peso rilevante la questione
dell'ortodossia religiosa in cui l'elemento antioccidentale svolge un ruolo non
marginale. È corretto sottolineare come la questione dell'ortodossia e più in
particolare quella dei movimenti geopolitici redentivi esprima un passaggio di
fase e segni una trasformazione radicale di molti tratti distintivi e costituenti
della società israeliana. Tuttavia, questo aspetto, pur radicale non è definitivo.
Marca una frattura ma non determina un mutamento di codice genetico. Infatti
esso si colloca entro un paradigma culturale omologo a quello dei "padri
fondatori": la necessità di una società coesa, unificata e fondata su alcuni
tratti politici e culturali non solo comuni, ma soprattutto omogenei. È con gli
anni novanta che possiamo datare questa nuova stagione, allorché inizia una vera
e propria crisi della
civil religion
israeliana. Un processo all'interno del quale, per esempio, la stessa percezione
dello spazio e della difesa militare del territorio, implicano un diverso
rapporto con la propria storia e con la coscienza storica della propria presenza
su quel territorio.»
|