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| << | < | > | >> |Pagina 3I.C'è un vialetto a lato del garage, dovresti ricordarlo, dove qualche volta giocavi con i tuoi amici. Ora è un luogo desolato, privo di vita, inutile, dove le foglie trasportate dal vento si accumulano e marciscono. Ieri in fondo a quel vialetto mi sono imbattuta in un rifugio di scatole di cartone e teli di plastica. C'era un uomo rannicchiato là dentro; un uomo che avevo già visto in giro per strada: alto, magro, con lunghi denti cariati, la pelle segnata da rughe profonde e con indosso un vestito grigio, logoro e troppo ampio, e un cappello dalla tesa floscia. Ce l'aveva in testa ora e dormiva con l'orecchio sulla tesa ripiegata. Un derelitto. Uno dei tanti derelitti che si aggirano tra i parcheggi di Mill Street per elemosinare soldi dai passanti, che si ubriacano al riparo di un cavalcavia, che si nutrono delle scatolette raccolte tra i rifiuti. Uno dei senzatetto per i quali agosto, il mese delle piogge, è il mese peggiore. Assopito, nella sua casa di cartone, con la mascella rilassata, la bocca aperta e le gambe da burattino distese in fuori. Intorno a lui un odore ripugnante di urina, di liquore, di indumenti ammuffiti e altro ancora. Sporco. Sono rimasta là ferma a fissarlo per un po'. Guardavo e annusavo. Una creatura in visita che ha scelto tra tutti proprio questo giorno per importunarmi. Lo stesso giorno in cui il dottor Syfret mi ha comunicato la notizia. Una brutta notizia; ma era solo mia, per me, soltanto per me e non poteva essere ignorata. Era per me: dovevo accoglierla tra le braccia, stringerla al petto e portarla a casa, senza possibilità di rifiutarla neppure con un cenno del capo, senza lacrime. - Grazie, dottore - ho detto. - Grazie per essere stato sincero. - Faremo tutto il possibile - ha risposto lui - affronteremo il problema insieme -. Eppure, dietro quella maschera cameratesca, io avevo già intravisto la ritirata. Sauve qui peut. Lui è un alleato dei vivi, non dei moribondi. Il tremito è cominciato solo quando sono scesa dall'auto. Il tempo di richiudere la porta del garage e tremavo tutta; per calmarmi ho dovuto serrare i denti e stringere la borsetta. È stato allora che ho visto le scatole, ho visto lui. - Che ci fa lei qui? - ho chiesto, sentendo il tono irritato della mia voce che non controllavo. - Non può restare qui, deve andarsene. Non si è mosso; è rimasto sdraiato nel suo rifugio, guardando all'insù, ispezionando le calze invernali, il cappotto blu, la gonna che da sempre pendeva in uno strano modo, i capelli grigi divisi da una striscia di pelle, pelle di vecchia, rosea come quella dei neonati. Poi, facendo leva sulle gambe, si è alzato senza alcuna fretta. Senza dire una parola mi ha voltato le spalle, ha scrollato il telo di plastica nera e lo ha piegato in due, poi in quattro e ancora in quattro. Ha tirato fuori una borsa (c'era stampato: Air Canada) e ne ha chiuso la cerniera. Io mi sono fatta da parte. Mi è passato accanto lasciandosi dietro le scatole, una bottiglia vuota e l'odore di urina. I pantaloni gli cascavano; se li è tirati su. Ho aspettato per essere sicura che se ne andasse e l'ho udito riporre la plastica nella siepe dal lato esterno. Due cose, dunque, nel giro di un'ora: la notizia, a lungo temuta, poi questa ispezione, questa altra forma di annunciazione. Il primo degli avvoltoi, rapaci, infallibili. Per quanto tempo riuscirò a tenerli lontani? I barboni di Cape Town, il cui numero non diminuisce mai. Che vanno in giro nudi senza patire il freddo; che dormono all'aperto senza ammalarsi: che muoiono di fame senza deperire. Riscaldati dentro dall'alcol; le infezioni e le malattie contagiose del loro sangue consumate dalla liquida fiamma. Divoratori degli avanzi a festa finita. Mosconi spietati, dalle aride ali e dagli occhi vitrei. I miei eredi. Con che passi lenti sono entrata in questa casa vuota, disertata da ogni eco, dove persino il rumore delle scarpe sulle tavole del pavimento risuona sordo e monotono. Quanto ho desiderato che tu fossi qui ad abbracciarmi, a consolarmi! Comincio solo ora a comprendere il vero significato dell'abbraccio. Si abbraccia per essere abbracciati. Prendiamo i nostri bambini tra le braccia affinché essi ci stringano nell'abbraccio del futuro, ci facciano sopravvivere, ci accompagnino oltre la soglia della morte. Era cosí ogni volta che ti stringevo a me, sempre. Diamo alla luce figli affinché essi si prendano cura di noi. Le verità della casa, la verità di una madre: da ora e fino alla fine è tutto ciò che avrò da dirti. Dicevo... quanto mi sei mancata! Quanto ho desiderato poter salire di sopra da te, sedermi sul bordo del letto, far scorrere le dita tra i tuoi capelli, sussurrarti all'orecchio: È ora di alzarsi!, come facevo al mattino quando dovevi andare a scuola. E poi, quando ti giravi, il tepore del tuo corpo, il tuo respiro dolce di latte, ti prendevo tra le braccia per quel rito che noi chiamavamo «stringere Mamma forte forte» il cui significato segreto, il significato mai confessato, era che Mamma non doveva essere triste, poiché non sarebbe morta ma avrebbe continuato a vivere in te. | << | < | > | >> |Pagina 36Era un sabato pomeriggio, sul tardi. Dal parcheggio ci siamo incamminate per una stradina polverosa che divideva due lunghi e bassi capannoni per giungere a un terzo capanno dove un uomo in tuta blu stava in piedi in un recinto pieno di polli, pollastrelli a dire il vero, che gli turbinavano attorno alle gambe. La bambina, Hope, liberatasi con uno strattone, era corsa avanti e si era aggrappata alle maglie della rete metallica. Qualcosa era guizzato tra Florence e l'uomo: un'occhiata, un interrogativo, uno sguardo d'intesa.Ma non c'era tempo per i saluti. Lui, William, il marito di Florence, aveva un lavoro da eseguire e non poteva essere interrotto. Il lavoro consisteva nell'avventarsi su un pollo, rivoltarlo a testa in giú, stringerlo tra le ginocchia mentre si dibatte, attorcigliare un fil di ferro attorno alle zampe e passarlo a un altro uomo, piú giovane, che lo avrebbe appeso, tra rochi lamenti e uno sbatacchiare d'ali, ad un gancio del nastro trasportatore che sferragliando s'inoltrava verso il fondo del capanno. Qui un terzo uomo con un grembiule di cerata schizzato di sangue ne afferrava la testa, tirava il collo fino a tenderlo e lo tranciava di netto con un coltellino tanto piccolo da sembrare parte della mano, e cosí facendo lanciava la testa in un secchio pieno di altre teste mozzate. Questo era il lavoro di William, e questo è ciò che ho visto prima di avere il tempo o la presenza di spirito di chiedermi se davvero volevo guardare. Per sei giorni alla settimana questo era ciò che faceva. Legava le zampe dei polli. O forse faceva a turno con gli altri e li appendeva, i polli, ai ganci; o ne mozzava le teste. Per trecento rand al mese piú i pasti. Un lavoro che faceva da quindici anni. Perciò non era poi improbabile che alcuni dei polli che avevo farcito di pangrattato, tuorlo d'uovo e salvia, che avevo spennellato con olio e sfregato con l'aglio, fossero stati tenuti all'ultimo momento tra le gambe di quest'uomo, il padre dei bambini di Florence. Che si alzava alle cinque del mattino, mentre io ancora dormivo, per lavare le gabbie, riempire di becchime le mangiatoie, ramazzare i capanni e poi, dopo colazione, iniziare la macellazione: spennare, pulire e congelare migliaia di carcasse, impacchettare migliaia di teste e zampe, fra metri e metri di intestini e montagne di piume. Avrei dovuto abbandonare immediatamente quel posto, non appena mi resi conto di ciò che vi si compiva. Avrei dovuto prendere l'auto e andarmene e fare del mio meglio per dimenticare. Invece ero rimasta davanti alla recinzione, incantata, mentre i tre uomini elargivano morte a uccelli cui non è dato volare. E oltre a me la piccola, con le dita aggrappate alla rete, anche lei assorbita da quella visione. Così difficile, eppure cosí facile: uccidere, morire. Erano ormai le cinque, la giornata volgeva al termine, e io mi sono congedata. Mentre mi dirigevo verso questa casa vuota, William ha portato Florence e le bambine negli alloggi. Mentre lui si lavava, Florence ha cucinato una cena di riso e pollo sul fornello a cherosene, poi ha allattato la bambina. Era sabato. Alcuni degli altri lavoranti erano fuori in visita o a divertirsi. Cosí anche Florence e William, dopo aver messo le bambine a dormire in un piccolo letto, sono usciti a fare una passeggiata, loro due soli, nel tepore dell'oscurità. Camminavano lungo il bordo della strada. Parlavano della settimana trascorsa: come era stata, delle loro vite. Quando sono rientrati hanno trovato le bambine che dormivano profondamente. Per assicurarsi un po' d'intimità, hanno appeso una coperta davanti al giaciglio. Poi avrebbero avuto la notte tutta per sé; tutta, tranne quella mezz'ora in cui Florence sarebbe sgusciata fuori, nel buio, per allattare la piccola. La domenica mattina William (non è il suo vero nome, ma il nome con il quale è conosciuto sul lavoro) ha indossato il completo, il cappello e le scarpe buone. Con Florence hanno raggiunto la fermata della corriera, lei con la bambina sulla schiena, lui tenendo per mano Hope. Hanno preso la corriera per Kuilsrivier, poi un taxi fino a Guguletu, fino alla casa di quella sorella presso cui alloggiava il loro ragazzo. Erano le dieci passate e cominciava a fare caldo. Il servizio in chiesa era terminato; la cucina era piena di ospiti, piena di discorsi. Dopo un po' gli uomini sono usciti; era ora che Florence aiutasse sua sorella a preparare il pranzo. Hope si era addormentata sul pavimento. Un cane era entrato, le aveva leccato il viso, era stato cacciato via; la bambina, ancora addormentata, era stata sollevata e messa sul divano. Una volta rimaste sole, Florence aveva dato alla sorella i soldi per le spese di Bheki, l'affitto, i pasti, le scarpe, i libri di scuola; la donna se li era nascosti in petto. Poi era comparso Bheki a salutare sua madre. Gli uomini, tornati dalle loro occupazioni, quali che fossero, hanno pranzato tutti insieme: pollo della fattoria, dell'azienda o impianto industriale che dir si voglia, riso, cavolo, sugo. Da fuori gli amici di Bheki avevano preso a chiamarlo: lui, finito di mangiare in gran fretta, aveva abbandonato la tavola. Tutto questo era accaduto. Tutto questo deve essere accaduto. Un ordinario pomeriggio in Africa: un tempo sonnolento, una giornata sonnolenta. Si potrebbe quasi dire che la vita dovrebbe essere proprio cosí. Infine era venuto per loro il tempo di andarsene. Sono andati alla fermata della corriera, Hope questa volta a cavalcioni sulle spalle del padre. Arrivata la corriera si sono congedati. La corriera portava via Florence e le bambine. | << | < | > | >> |Pagina 70C'era un lungo tavolo in mezzo alla stanza coperto di vassoi malamente accatastati. Qualcuno emetteva effluvi di tosse, come se avesse i polmoni pieni di latte. - Nell'angolo - ha detto Vercueil.Non sapeva chi fossimo, e neppure io ho riconosciuto immediatamente il ragazzo il cui sangue mi si era incollato alle dita. Aveva la testa fasciata, la faccia gonfia, il braccio sinistro stretto al petto dalla fasciatura. Indossava il pigiama celeste dell'ospedale. - Non parlare - gli ho detto. - Siamo venuti solo per assicurarci che tu stia bene. Ha schiuso le labbra tumefatte e le ha richiuse. - Ti ricordi di me? Sono la donna per la quale lavora la madre di Bheki. Questa mattina vi ho visti: ho visto come sono andate le cose. Devi guarire presto. Ti ho portato della frutta -. Ho posato la frutta sul comodino: una mela e una pera. Non ha mutato espressione. Non mi piaceva. Non mi piace. Scruto nel mio cuore e non trovo neppure un angolino dove si annidi un qualche sentimento per lui. Cosí come ci sono persone per le quali spontaneamente proviamo simpatia, pure ci sono persone che sin dal principio ci lasciano totalmente freddi. Ecco tutto. Questo ragazzo non è come Bheki. Non ha nessun fascino. C'è qualcosa di stupido in lui, qualcosa di deliberatamente stupido, ottuso, indocile. È uno di quei ragazzi la cui voce cambia troppo presto, che all'età di dodici anni si sono lasciati l'infanzia alle spalle diventando brutali, scaltri. Una persona lineare, piú lineare in tutti i sensi: piú lesto, piú agile, instancabile piú delle persone vere, privo di scrupoli come di dubbi, privo di senso dell'umorismo, feroce, innocente. Quando giaceva in strada, quando pensavo che stesse per morire, ho fatto quel che ho potuto per lui. Ma, ad essere sincera, avrei preferito adoperarmi per qualcun altro. Mi ricordo di un gatto che una volta ho curato, un vecchio gatto dal pelo fulvo che non poteva aprire le mandibole per via di un ascesso. L'ho portato in casa perché era diventato troppo debole, l'ho nutrito dandogli il latte con una cannuccia, gli ho somministrato l'antibiotico. Quando ha recuperato le forze l'ho lasciato libero, ma ho continuato a lasciargli il cibo fuori. Per un anno, di tanto in tanto, l'ho visto nei paraggi; per un anno il cibo è stato consumato. Poi è scomparso nel nulla. Per tutto il tempo mi ha trattato senza compromessi, come un nemico. Anche nel periodo in cui era stremato, il suo corpo era rigido, i muscoli tesi opponevano resistenza alle mie mani. Intorno a quel ragazzo percepivo lo stesso muro di resistenza. Nonostante avesse gli occhi aperti, non vedeva, quello che dicevo non lo sentiva. Mi sono voltata a guardare Vercueil. - Andiamo? - ho detto. E sull'onda di un impulso (no, qualcosa di piú, sull'onda di un consapevole sforzo per non bloccare quell'impulso) ho toccato la mano libera del ragazzo. Senza stringerla, senza trattenerla a lungo; si è trattato di un contatto leggero, delle mie dita esitanti sul dorso della sua mano. Ma ho sentito che s'irrigidiva, ho percepito un ritrarsi istantaneo come per una scossa elettrica. Per tua madre che non è qui, ho pensato. Ma ad alta voce ho detto: - Non giudicare in modo affrettato. Non giudicare in modo affrettato: cosa volevo dire? Se non lo sapevo io, chi altri avrebbe potuto? Sicuramente non lui. Tuttavia, in questo caso, l'incomprensione aveva radici piú profonde. Le mie parole gli sono scivolate addosso come foglie morte. Parole di una donna, per questo trascurabili; di una vecchia, per questo doppiamente trascurabili; ma, soprattutto, di una bianca. Io, una bianca. Cosa vedo, quando penso ai bianchi? Vedo un branco di pecore (non un gregge, un branco) che si aggirano su un pianoro polveroso sotto il sole cocente. Sento uno scalpiccio di zampe, suoni confusi che si risolvono, quando l'orecchio vi si sia adattato, in un unico belato composto però di timbri differenti: - Io!, Io!, Io! - E nel mezzo, urtando e spingendo da un lato e dall'altro con i loro ispidi fianchi, facendosi largo pesantemente, i denti seghettati, gli occhi sanguigni, gli stessi irriducibili vecchi porci selvatici che grugniscono - A morte!, A morte! - Sebbene sia del tutto inutile, mi ritraggo al contatto dei bianchi, almeno quanto lui; trasalirei persino di fronte a quella vecchia donna bianca che gli sfiora la mano se non fossi io stessa. | << | < | > | >> |Pagina 113- Hanno ucciso il ragazzo di Florence martedí.Ha fatto cenno di sí con il capo. - Ho visto il cadavere - ho continuato, bevendo un altro sorso, pensando: diventerò loquace ora? Dio ci scampi! E se divento loquace lo diverrà anche Vercueil? Lui e io, sotto l'influenza dell'alcol, entrambi impegnati a parlare a ruota libera in una piccola automobile? - Sono sconvolta - ho detto. - Non posso dire a lutto perché io non ho diritto di usare quella parola, essa appartiene alla sua gente. E tuttavia sono, come dire?, turbata. È qualcosa che ha a che fare con la fisicità della sua morte, il peso di quella morte. È come se nel morire fosse diventato pesantissimo, come il piombo o come la fanghiglia densa e melmosa che si trova ai piedi delle dighe. Come se nell'atto di morire avesse esalato un ultimo sospiro e tutta la leggerezza lo avesse abbandonato. Ora lui giace su di me con tutto quel peso. Non è schiacciante, ma è lí. - Come quando quel suo amico giaceva sanguinante sulla strada. La stessa pesantezza. Sangue pesante. Cercavo di fermarlo, di impedire che si disperdesse lungo il marciapiede. Quanto sangue! Se lo avessi raccolto tutto in un secchio non sarei stata in grado di sollevarlo. Come voler sollevare un secchio di piombo. - Non ho veduto morire dei neri prima d'ora, Vercueil. Ne muoiono in continuazione, lo so, ma sempre da qualche altra parte. Quelli che ho visto morire erano bianchi e morivano nei loro letti, rinsecchiti e leggeri, incartapecoriti, quasi inconsistenti. Bruciavano con facilità, ne sono sicura, di loro non è rimasto alla fine che un mucchietto di cenere da raccogliere. Vuole sapere perché mi sono riproposta di darmi fuoco? Perché ho pensato che sarei bruciata con facilità. - Invece loro non bruciano, Bheki e gli altri che sono morti. Sarebbe come cercare di bruciare delle sagome di ghisa o di piombo. Potrebbero al piú perdere la nettezza del contorno, ma quando le fiamme arrivassero ad esaurirsi li troveresti ancora là, pesanti come sempre. Se li lasciassi là potrebbero sprofondare, millimetro dopo millimetro, finché la terra non si richiude su di loro. Ma poi smetterebbero di sprofondare. Si fermerebbero a un certo punto, premendo contro la superficie. Se solo provasse a smuovere la terra con la scarpa li vedrebbe: i volti, gli occhi morti, aperti, colmi di sabbia. - Beva - ha detto Vercueil, porgendomi la bottiglia. Il suo volto stava cambiando espressione, le labbra sporgenti, gonfie, umide, lo sguardo offuscato. Come la donna che aveva portato a casa. Ho preso la bottiglia e l'ho pulita sulla manica. - Lei capisce, non è solo una questione personale, questo disagio di cui parlo - ho proseguito. - Non si tratta affatto di qualcosa di personale. Io volevo bene a Bheki, certo, quando era ancora un bambino, ma non mi piaceva ciò che era diventato. Avevo sperato in qualcosa di meglio. Lui e i suoi amici dicono di essersi lasciati l'infanzia alle spalle. Ebbene, hanno smesso di essere bambini, ma cosa sono diventati? Piccoli puritani austeri, che hanno in spregio il sorriso, che disdegnano il gioco. - E allora perché dovrei piangerlo? La risposta è che ho veduto il suo volto. Quando è morto è tornato bambino. La maschera è caduta e ha lasciato il posto alla piú sincera sorpresa infantile quando la morte gli si è abbattuta addosso; nell'ultimo istante quando ha capito che il lancio di pietre e gli spari non sarebbero piú stati un gioco; che il gigante che avanzava su di lui con una mano colma di sabbia per tappargli la bocca non sarebbe piú arretrato dinanzi ai canti e agli slogan; che alla fine del lungo tunnel dove si è sentito soffocare e ammutolire senza poter piú respirare non c'era luce. - Ora quel bambino è stato sepolto e noi gli camminiamo sopra. Me lo lasci dire, quando cammino su questa terra, questo Sudafrica, mi cresce dentro la sensazione di camminare sulle facce dei neri. Loro sono morti ma la loro anima non li ha lasciati. Giacciono là, pesanti e tenaci, in attesa che il mio piede muova il prossimo passo, che me ne vada, in attesa di essere richiamati in vita. Milioni di sagome di ghisa che galleggiano sotto la pelle della terra. L'età del ferro che attende di fare ritorno. - Lei pensa che ora sono indignata ma che poi andrò avanti. Lacrime facili, pensa, lacrime sentimentali, versate oggi, scordate domani. Ebbene, è vero, mi sono indignata in passato, immaginavo che non avrebbe potuto verificarsi di peggio, ma poi il peggio è arrivato, puntualmente, e io sono andata avanti, almeno in apparenza. Ecco il problema! Per non restare paralizzata dalla vergogna ho passato la vita ad andare avanti, sopportando il peggio. Quel che non posso piú sopportare ora è proprio quell' andare avanti. Se vado avanti anche questa volta non avrò mai piú un'altra occasione per non farlo. Se voglio guadagnarmi la resurrezione questa volta non posso andare avanti. Vercueil mi porgeva la bottiglia. Se n'era andata una buona metà. Ho spinto via la sua mano. - Non voglio piú bere - ho detto. - Beva, - ha detto - si ubriachi per una volta. - No! - ho esclamato. Ero alticcia e la rabbia mi ha infiammato contro la sua insensibilità, la sua indifferenza. Che ci facevo li? In questa vecchia auto noi due dovevamo avere l'aria degli ultimi due profughi venuti dalla zona delle platteland all'epoca della grande depressione. Ci mancavano solo un materasso di fibra di cocco e una gabbia per i polli legata sul tetto. Gli ho strappato la bottiglia di mano; ma mentre abbassavo il finestrino per buttarla via, se l'è ripresa. - Esca dalla mia auto! - ho detto seccamente. Ha tolto la chiave dal cruscotto ed è sceso. Il cane lo ha seguito di slancio. Sotto i miei occhi ha gettato la chiave tra i cespugli, si è voltato e, bottiglia nella mano, si è avviato speditamente giú per la collina, verso Hout Bay.
Piena di rabbia ho aspettato, ma non è tornato indietro.
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