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| << | < | > | >> |Pagina 5UnoE cosí quando lo scorso autunno avevo cominciato a fare le mie passeggiate serali, mi ero reso conto che Morningside Heights è un buon punto di partenza per esplorare la città. La stradina che scende dalla cattedrale di Saint John the Divine e attraversa Morningside Park è a un quarto d'ora da Central Park. Nella direzione opposta, andando verso ovest, Sakura Park è a dieci minuti, mentre a nord si arriva ad Harlem costeggiando l'Hudson, anche se il traffico al di là degli alberi copre il rumore del fiume. Quelle camminate, un contrappunto alla frenesia delle giornate in ospedale, pian piano si erano allungate, portandomi sempre piú lontano, tanto che a volte, di notte, dovevo tornare a casa in metropolitana. E cosí che, all'inizio dell'ultimo anno di specializzazione in psichiatria, New York si era fatta strada nella mia vita passo dopo passo. Poco prima che iniziassero quei vagabondaggi, avevo preso l'abitudine di osservare il passaggio degli uccelli migratori da casa mia, e ora mi chiedo se ci fosse un nesso. Nelle giornate in cui rientravo abbastanza presto dall'ospedale, mi mettevo alla finestra come per trarre auspici, sperando di assistere al miracolo dell'immigrazione in natura. Ogni volta che avvistavo una formazione di oche mi chiedevo come vedessero la nostra vita da lassú, e immaginavo che ai loro occhi, sempre che indulgessero in simili congetture, i grattacieli non fossero molto diversi dagli abeti in un bosco. Spesso non contemplavo altro che la pioggia, o la debole scia di un aereo che tagliava in due il cielo, e una parte di me si domandava se esistevano davvero quelle creature con ali e sottogola scuri, il corpo chiaro e i piccoli cuori instancabili. Mi affascinavano cosí tanto che, se non le vedevo, cominciavo a diffidare della mia memoria. Ogni tanto passavano anche dei piccioni, e poi rondini, scriccioli, orioli, rondoni e tanagre, ma era quasi impossibile identificare i puntini solitari, in genere incolori, che sfrecciavano in cielo. A volte, mentre aspettavo la rara squadriglia di oche, ascoltavo la radio. Di solito evitavo le stazioni americane, troppa pubblicità per i miei gusti - Beethoven seguito dalle tute da sci, Wagner dopo il formaggio artigianale -, e preferivo quelle via internet, canadesi, tedesche, olandesi. E anche se spesso non capivo gli annunciatori, conoscendo ben poche parole di quelle lingue, la programmazione si addiceva sempre al mio umore serale. Molti brani mi erano familiari, perché era da piú di quattordici anni che ascoltavo avidamente la classica alla radio, ma a volte mi imbattevo in qualcosa di nuovo. Capitavano persino rari momenti di stupore, come la volta in cui una stazione di Amburgo aveva trasmesso un magnifico brano per orchestra e contralto solo di Sčedrin (o forse era Ysaÿe), che non sono ancora riuscito a identificare. Mi piaceva il mormorio dei conduttori, il suono di quelle voci calme, che parlavano a migliaia di chilometri di distanza. Abbassavo il volume delle casse e guardavo fuori, piacevolmente protetto da quel brusio, ed era facile immaginare un'affinità tra me, nel mio appartamento spoglio, e il conduttore in studio, in qualche città europea, probabilmente di notte. Nella mia mente, quelle voci incorporee sono ancora associate al passaggio delle oche. Non che abbia assistito a molte migrazioni, saranno state tre o quattro: in generale vedevo soltanto i colori del cielo al tramonto, indaco, rosso livido, ruggine, che pian piano cedevano il passo a toni piú scuri. Quando faceva buio, prendevo un libro e mi mettevo a leggere accanto a una vecchia lampada da scrivania che avevo recuperato in un cassonetto all'università: la lampadina, avvolta da una campana di vetro, proiettava una luce verdastra sulle mie mani, sul libro che tenevo in grembo, sul tessuto liso del divano. A volte leggevo ad alta voce, e notavo che le parole creavano uno strano sottofondo mescolandosi al mormorio dei presentatori francesi, tedeschi o olandesi, o al suono delicato dei violini d'orchestra, e l'effetto era amplificato dal fatto che gran parte dei testi che leggevo erano tradotti da quelle lingue europee. Quell'anno, saltabeccavo da un libro all'altro: La camera chiara di Barthes, Telegrammi dell'anima di Peter Altenberg, L'ultimo amico di Tahar Ben Jelloun, tra gli altri. Quella fuga sonora mi faceva ripensare a sant'Agostino e alla sua incredulità di fronte a sant'Ambrogio, che si diceva riuscisse a leggere senza pronunciare le parole. In effetti è incredibile - mi sorprendeva allora e mi sorprende ancora oggi - poter comprendere un testo leggendolo mentalmente. Per Agostino, solo ripetendo le frasi ad alta voce se ne poteva cogliere davvero il ritmo e la vitalità, ma da allora molto è cambiato nella nostra idea della lettura. Da troppo tempo ci viene ripetuto che l'immagine di una persona che parla da sola è associata a eccentricità e pazzia, e non siamo piú abituati a sentire la nostra voce, se non durante una conversazione o quando ci possiamo confondere tra la folla. Ma ogni libro rimanda a una conversazione, a due persone che parlano, e in quel tipo di scambio è normale sentire dei suoni, o perlomeno dovrebbe esserlo. Cosí, leggevo ad alta voce, con me stesso come pubblico, pronunciando parole altrui. Quelle insolite ore serali trascorrevano in fretta, tanto che spesso mi addormentavo sul divano, e solo piú tardi, nel cuore della notte, mi trascinavo a letto. Poi mi svegliavo di scatto, sempre con l'impressione di aver dormito pochi minuti, al suono della sveglia sul cellulare, un bizzarro arrangiamento di O Tannenbaum in stile marimba. In quei primi istanti di consapevolezza, nel bagliore improvviso del mattino, la mia mente correva in circolo, ripescando frammenti di sogni o brani del libro che stavo leggendo prima di addormentarmi. Era stato per interrompere la monotonia di serate simili che avevo cominciato a fare quelle camminate, due o tre volte durante la settimana dopo il lavoro e almeno una volta nel fine settimana. | << | < | > | >> |Pagina 152Aspettai alla fermata davanti alla magnifica facciata in ferro del Musée des instruments de musique, e l'autobus, quando arrivò, era quasi pieno, umido e caldo, e tutti faticavamo a respirare. Attraversammo la città in quello spazio soffocante, cercando di sbirciare dai finestrini appannati le strade battute dal vento. Scesi a Flagey. Il mio ombrello era ormai inservibile, e lo buttai via. In rue Philippe mi trovai a camminare dietro una donna che spingeva una carrozzina. Camminavamo in fila indiana tra gli edifici e una serie di ostacoli temporanei, grossi pannelli di plastica ancorati ai blocchi di cemento di un cantiere. Un'improvvisa folata di vento sollevò i pannelli, che erano legati uno all'altro, e li ribaltò verso di noi. D'istinto, mi lanciai in avanti e fermai la caduta con le mani. Vacillai ma non persi l'equilibrio. La donna, giovane e dai colori mediterranei, con un paio di jeans troppo aderenti, era riuscita per un pelo a mettere in salvo la carrozzina. Non vedevo il bambino, che era infagottato e protetto dalla pioggia da un telo di plastica trasparente. La giovane madre mi ringraziò varie volte, senza fiato. Era sconvolta dalla rapidità con cui tutto era successo. Minimizzai la cosa con un cenno della mano, orgoglioso.Il vento continuava a ululare, furibondo. Un centinaio di anni prima, la stradina su cui stavamo camminando era un torrente. Poi gli urbanisti avevano deciso di ricoprirla e le case si erano ritrovate davanti al traffico invece che all'acqua. Ma sotto la strada l'acqua scorreva ancora, e ora stava tornando, sotto forma di pioggia: acqua dal cielo e acqua sottoterra. Salvare d'istinto un bambino, un po' di felicità; qualche ora con i ruandesi, quelli che erano sopravvissuti, un po' di tristezza: l'idea del nostro anonimato finale, un altro po' di tristezza, il desiderio sessuale soddisfatto senza complicazioni, un altro po' di felicità, e avanti cosí, un pensiero dopo l'altro. La condizione umana mi pareva meschina, l'essere soggetti a quella lotta costante per modulare l'ambiente interiore, sballottati come nuvole. Come era prevedibile, la mente annotò anche quel giudizio, e gli assegnò il suo punteggio: un po' di tristezza. L'acqua che un tempo scorreva lungo la strada che stavamo percorrendo era confluita in uno stagno al centro di Flagey, uno stagno che era stato cancellato per creare uno spartitraffico, rievocando la creazione della terra nei miti piú antichi, come una divisione delle acque. Era notte, ormai. Entrai in casa, mi spogliai, e mi distesi sul letto nella camera buia, nudo. Grosse gocce di pioggia picchiettavano sulla finestra. Le previsioni avevano ragione, la pioggia sferzava la terra tutt'intorno a me, in cerchi sempre piú ampi. Cadeva sul quartiere portoghese, sulla statua di Pessoa e su Casa Botelho. Cadeva sul negozio di Khalil, dove forse Farouq aveva appena iniziato il suo turno di lavoro. Cadeva sulla testa di bronzo di Leopoldo II, su quella di Claudel, sulle pietre del Palais Royal. La pioggia continuava a scendere, sul campo di battaglia di Waterloo appena fuori città, sulla collina del Leone, le Ardenne, le valli implacabili piene di ossa di giovani ormai vecchie, sulle città indenni a ovest, su Ypres e i crocchi di croci bianche che punteggiavano i campi delle Fiandre, sulla Manica burrascosa, sul gelido Mare del Nord, sulla Danimarca, la Francia, la Germania. | << | < | > | >> |Pagina 160La mostra era affollata e le fotografie avevano una vitalità che non mi aspettavo. Il giornalismo di Munkácsi era dinamico, prediligeva le pose sportive, i giovani, le persone in moto. In quelle immagini — la cui composizione era accuratamente studiata, ma sembravano scattate in movimento — si notava l'immediatezza di altri lavori magistrali, come la foto di tre ragazzi africani che corrono verso le onde in Liberia. Fu da lui, e da quell'immagine in particolare, che Henri Cartier-Bresson aveva elaborato l'ideale del momento decisivo. Lí nella galleria tutta bianca, con le file di immagini e il brusio della calca, mi resi conto che la fotografia era davvero un'arte incredibile. In tutta la storia veniva catturato un istante, ma i momenti precedenti e successivi scomparivano nella corsa del tempo: solo quella frazione di secondo era privilegiata, salva, soltanto perché l'occhio della macchina l'aveva colta.Munkácsi si trasferí dall'Ungheria alla Germania, dove rimase fino al 1934. Lavorò per il «Berliner Illustrirte Zeitung», il settimanale fotografico che nel 1930 aveva pubblicato la foto dei ragazzini liberiani. L'«Illustrirte Zeitung» aveva seguito la prima guerra mondiale e quando Munkácsi se ne andò segui anche la seconda. Nella mostra all'Icp alcune copie della rivista con il lavoro di Munkácsi erano state messe in teche di plexiglas ad altezza della vita. Un uomo sui sessant'anni stava osservando la stessa teca che guardavo io e rimanemmo fianco a fianco, chini sulla superficie trasparente. Aveva un viso rilassato, e indossava una giacca a vento gialla. Vedendo che stavo studiando attentamente la rivista, senza guardarmi disse che c'era un refuso — che il nome avrebbe dovuto essere «illustrierte» e non «illustrirte», ma fin dal primo numero era rimasto cosí. In quel primo numero, mi spiegò, era stato un errore, ma poi era diventato una specie di marchio distintivo del giornale, e non l'avevano cambiato. Lo sapeva, mi disse, perché si ricordava della rivista fin dall'infanzia. Quando abitava a Berlino gli arrivava a casa tutte le settimane. Avvertendo il mio interesse, l'uomo continuò a parlare, mentre i nostri sguardi si spostavano sulle fotografie di Munkácsi. In un'immagine, probabilmente scattata da un dirigibile, si vedeva un grande prato pieno di giovani tedeschi distesi al sole. I corpi, che occupavano ogni centimetro disponibile, creavano un motivo astratto, bidimensionale, che ricopriva tutto il campo. L'uomo raccontava con la lentezza di chi sta varcando la soglia della memoria, ma non erano ricordi vaghi, e ne parlava con chiarezza, come se fosse appena successo. Avevo tredici anni quando lasciai Berlino, disse, e da allora New York è stata la mia casa. Mi ero completamente sbagliato sulla sua età, non sembrava proprio un ottantaquattrenne. Era in gran forma, e si muoveva come se la vecchiaia non gli fosse di alcun ostacolo. Anche nel modo in cui parlava della gioventú c'era una leggerezza particolare, come se stesse parlando di qualcos'altro, qualcosa di meno spaventoso, meno corrotto dal disastro. Fu solo molto tempo dopo, concluse, che decisero di adottare «illustrierte», con la e corretta. Ma a quel tempo io conoscevo il titolo cosí, sbagliato. È mai stato a Berlino?, mi chiese. Gli dissi di sí, e che mi era piaciuta moltissimo. Io non ci sono mai tornato, disse, ma mi ci trovavo molto bene quando abitavo là. Dev'essere stato completamente diverso a quell'epoca, dissi. Non gli raccontai che anche mia madre e la mia oma ci avevano vissuto da profughe verso la fine della guerra e dopo, e che anch'io, in un certo senso, ero di Berlino. Se avessimo parlato ancora un po', gli avrei detto solo che venivo da Lagos, in Nigeria. Ma in quel momento sua moglie, o una donna anziana che immaginai fosse la sua compagna, ci raggiunse. Sembrava molto piú vecchia di lui, e usava un deambulatore. Salutandomi con un sorriso e un cenno del capo, il signore avanzò con lei verso un'altra sezione della mostra. L'atmosfera delle fotografie di Munkácsi si incupí passando dagli anni Venti ai Trenta, e i giocatori di calcio e le modelle furono sostituiti dalla gelida tensione dello stato militare. Questa storia, narrata infinite volte, ha conservato il potere di accelerare il battito del cuore: si spera sempre, segretamente, che le cose finiscano in modo diverso e che la cronaca di quegli anni mostri che i torti furono in realtà su una scala piú simile al resto della storia umana. L'enormità di quello che invece accadde davvero, a prescindere da quanto sia ormai familiare, a prescindere da quanto spesso sia stato reiterato, lascia sempre senza parole. E fu proprio quello che mi successe quando, tra le foto di truppe e parate all'apertura del Reichstag nel 1933, vidi l'immagine, che mi aspettavo e non mi aspettavo al contempo, del nuovo cancelliere tedesco di fronte a una fila di soldati. Accanto a lui, con quel suo spaventoso viso deforme, c'era Goebbels. Mi ritrovai a osservare quell'immagine a fianco di una giovane coppia. Io ero a sinistra, loro a destra. Erano ebrei hassidici. Potevo solo immaginare cosa significasse per loro essere li, in quella galleria: l'odio puro che io provavo per i soggetti della foto, in cosa si trasformava per quella coppia? Cosa c'era di piú intenso dell'odio? Non lo sapevo, e non potevo chiederlo. Dovevo allontanarmi subito, dovevo posare lo sguardo altrove e sottrarmi a quel silenzioso incontro in cui mi ero imbattuto per caso. I due erano davanti alla foto, vicini, immobili, silenziosi. Non sopportavo piú di guardare loro, né l'immagine che stavano fissando. La mostra cominciò a ruotare su quell'asse. Diventò una mostra su qualcos'altro, e non c'era via di scampo. C'erano altre foto, immagini della fortunata carriera di Munkácsi negli anni Quaranta a Hollywood, eleganti ritratti di attori e protagonisti del jet set: Joan Crawford, Fred Astaire. Ma il pomeriggio era ormai avvelenato e volevo solo andarmene a casa, dormire e iniziare il mio anno di lavoro. Mi avvicinai all'uscita insieme alla folla e rividi per un istante il vecchio berlinese e sua moglie. La sua storia dell'«illustrirte», da tempo custodita, aveva trovato il tempo e il luogo per essere rivelata; incredibile quante piccole storie la gente si portava dietro in ogni angolo della città. Solo allora mi resi conto che lo stesso Munkácsi, autore della cosiddetta Giornata di Potsdam, e la cui macchina fotografica aveva catturato per i posteri un istante apparentemente ordinario della Berlino del 1933, era ebreo. | << | < | > | >> |Pagina 209Non avevo visto il film di Erice, ma il declino della popolazione di api mi fece venire in mente un'altra cosa che ora collegavo a quello che Lise-Anne aveva appena descritto. La mancanza di familiarità con la morte di massa, con la peste, la guerra e la carestia, mi sembrava una cosa nuova nella storia umana. Gli ultimi decenni, dissi ai miei amici, in cui le guerre scoppiano in tanti punti diversi invece di diffondersi dappertutto, e l'agricoltura non evoca piú una paura elementare e le variazioni stagionali del clima non sono foriere di carestie, sono un'anomalia. Siamo i primi esseri umani completamente impreparati al disastro. È pericoloso vivere in un mondo sicuro. Prendiamo questa innocua e bellissima bravata dei paracadutisti. Sappiamo che sono nel giusto, che ci hanno offerto un'esperienza memorabile, con una certa dose di rischio personale, ma la polizia ha il dovere di assicurarci protezione in qualsiasi evenienza, ha il potere di difenderci con la forza delle armi, di proteggerci anche dal piacere. Spesso penso al lungo diciannovesimo secolo che, in ogni parte del mondo, è stato un interminabile bagno di sangue, un'orgia di massacri continui, che fosse in Prussia o negli Stati Uniti, nelle Ande o in Africa occidentale. Lo sterminio era la norma, e le nazioni andavano in guerra per il minimo pretesto. Una dopo l'altra, interrotte solo da brevi pause per il riarmo. Pensate alle epidemie che hanno spazzato il dieci, venti, persino il trenta per cento della popolazione europea. Di recente ho letto da qualche parte che la città di Leiden ha perso il trentacinque per cento della popolazione in un arco di tempo di cinque anni, nel decennio fra il 1630 e il 1640. Cosa significava vivere con questa possibilità, con gente di ogni età che ti muore intorno, di continuo? Il problema è che non ne abbiamo idea. Anzi, quando ho letto questa cosa, era come nota a piè di pagina in un articolo su qualcos'altro, sulla pittura o l'arredamento.Le famiglie decimate, tipo tre morti su sette, non erano affatto insolite. Per noi, l'idea di tre milioni di newyorchesi morti di qualche malattia nei primi cinque anni del millennio è quasi inimmaginabile. Ci sembrerebbe una distopia totale, quindi pensiamo a quelle realtà storiche solo come note a piè di pagina. Cerchiamo di dimenticare che altre città, in altre epoche, hanno visto di peggio, che nulla ci può immunizzare da qualche tipo di peste, che siamo vulnerabili come qualunque altra civiltà del passato, ma particolarmente impreparati. Persino nel modo in cui parliamo del poco che ci è successo nella vita, abbiamo già esaurito le iperboli. Continuavo a battere sullo stesso tasto, e fu Lise-Anne a salvarmi da me stesso cambiando argomento. Disse, Ma Julius, tu sei uno strizzacervelli. Mi ha sempre affascinato la cosa. Io ovviamente sono pazza, altrimenti non starei con quel tipo lí davanti. Quindi lascia perdere le api o la peste e tutto il resto. Chi è la persona piú pazza che hai curato di recente? Scommetto che te ne arrivano certi che sono un bel po' fuori di testa. Oppure sei costretto al segreto professionale? Ti giuro che non lo diremo a nessuno. Li assecondai e mi misi a raccontare storie dei miei pazienti, di visite di alieni e sorveglianza governativa, di voci nelle pareti e sospetti di cospirazioni famigliari. C'è sempre un fondo di umorismo negli orrori delle malattie mentali, soprattutto tra i ranghi dei paranoici. Ora ripescavo quelle storie, a volte attingendo a quelle dei miei colleghi e spacciandole per mie. Ridevano tutti mentre rievocavo il caso di quel paziente che aveva bloccato «con successo» i segnali da altri pianeti, foderando con cura ogni finestra di casa sua con l'alluminio, mettendo nelle scarpe recettori maniacalmente ricavati da semplici graffette e tenendo sempre un piccolo pezzo di piombo in ogni tasca, anche quando dormiva. La schizofrenia paranoide si prestava particolarmente bene a questi racconti e chi ne soffriva era solitamente un buon narratore perché abituato a costruirsi mondi. Contenuti nei parametri delle loro realtà, quei mondi erano incredibilmente coerenti: sembravano assurdi solo dall'esterno. I medici usano davvero la parola «pazzo»?, chiese Moji. Certo che sí, dissi. Anzi, certe persone sono semplicemente svitate, ed è proprio quello che scriviamo sulla cartella. Mi è successo la settimana scorsa. Rappresentante quarantanovenne: gli ho parlato per qualche minuto e mentre parlava ho scritto: il paziente è pazzo come dieci cavalli. Di un altro paziente avevo annotato: semplicemente fuori di testa. Penso che sareste meravigliati da quello che dicono i medici quando nessuno li sente. Sai quel negozio vicino a TriBeCa, disse Lise-Anne, Andiamo Pazzi Per I Pazzi? Be', disse il mio amico, Io so per certo di esserlo. In realtà ci sono un sacco di persone malate di mente in questa città, forse la maggioranza dei newyorchesi. Be', no, proseguí lui, non intendevo questo. Ma è che tutti trovano un modo per tirare avanti e nessuno è completamente libero dai problemi mentali perciò, dico io, lasciamo che se la sfanghino. La pazzia è usata come scusa per reprimere il dissenso, ora come sempre. Julius, sono sicuro che lo sai: nell'Europa medievale c'erano delle prigioni galleggianti, navi piene di pazzi che andavano di porto in porto a raccattare gli indesiderati. Gente che oggi sarebbe considerata lievemente depressa veniva esorcizzata, all'epoca. Bisognava rimuovere i soggetti contaminanti dalla società. E se parliamo di pazzia vera, prosegui, e non voglio certo fingere che non esista, se parliamo di qualcosa di profondo, della disgiunzione intima tra realtà reale e una specie di realtà inventata dal singolo, be', nella mia famiglia abbiamo un sacco di casi. Quello che dicevi prima di Leiden... in un certo senso la mia famiglia è Leiden. Mio padre è impazzito ed è diventato un fanatico della cocaina. O forse il contrario, prima è arrivata la cocaina. E comunque, adesso è da qualche parte nel South Carolina, in questo preciso istante, che cerca di farsi una pista. Vive per quello. Ovviamente uso la parola «padre» in senso lato. Non lo vedo da quattro anni, e le volte in cui l'ho visto avrei preferito farne a meno. Mia madre invece ha avuto sei figli da cinque uomini diversi. Anche quello è da pazzi, no? Voglio dire, come fai a non smetterla dopo il terzo o quarto figlio? Ho un fratello piú grande che è dentro per spaccio. Per non parlare di mio zio Raymond. Zio Ray faceva il meccanico ad Atlanta. Aveva una moglie e tre bambini. Un tipo semplice, senza grilli per la testa, mai toccato droghe. Poi, quando avevo undici anni, ha perso la testa per chissà cosa, è andato sul retro di casa sua e si è fatto saltare le cervella. L'ha trovato mia cugina Yvette, la figlia piú piccola. Aveva sette anni.
Il silenzio cadde sul gruppo. Sapevo quella storia. Era
il terrificante passato che il mio amico aveva dovuto superare per laurearsi e
diventare assistente universitario
dell'Ivy League. Ora che si era sfogato, aveva un'espressione pacifica. Davanti
a noi, nelle ombre del pomeriggio
che si stavano allungando, i paracaduti ripiegati venivano portati via dai
veicoli dei guardiaparco. I paracadutisti sarebbero stati accusati di
comportamento pericoloso
e multati. Immagino, disse Moji, che quello che i neri devono affrontare in
questo paese — e non intendo me o Julius, ma gente come voi, che siete qui da
generazioni —, quello che avete dovuto sopportare voi è sufficiente a far
perdere la testa a chiunque. La struttura razzista di questo
paese porta alla pazzia.
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