Copertina
Autore Wilkie Collins
Titolo Basil
EdizioneFazi, Roma, 2002, Le porte 77 , pag. 332, dim. 120x200x22 mm , Isbn 978-88-8112-379-7
OriginaleBasil [1852]
TraduttoreAlessandra Tubertini
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe classici inglesi
PrimaPagina


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Pagina 15 [ inizio libro ]

Che cosa mi accingo a scrivere?

La storia di poco più che non gli avvenimenti di un anno dei ventiquattro che ho vissuto.

Perché ho deciso di intraprendere un compito come questo?

Forse, perché penso che il mio racconto possa fare del bene. Perché spero che, un giorno, possa servire da monito ad altri. Mi accingo a raccontare la storia di un errore, innocente all'inizio, colpevole nella sua evoluzione, fatale nei risultati, e vorrei sperare che il mio resoconto schietto e onesto mostrerà che questo errore non è stato commesso senza scusanti. Quando queste pagine saranno ritrovate dopo la mia morte, saranno forse lette con calma e giudicate con indulgenza, come reliquie rese solenni dalle ombre purificatrici della tomba. Allora forse ci si potrà pentire della dura condanna espressa contro di me, i bambini della prossima generazione della nostra casa iinpareranno a parlare affettuosamente della mia memoria, e spesso, spontaneamente, mi ricorderanno con benevolenza nelle pensose veglie notturne.

Spinto da queste motivazioni, e da altre che sento ma non riesco ad analizzare, ecco che comincio l'opera che mi sono imposto. Nascosto tra le più sperdute colline del più remoto angolo dell'ovest dell'Inghilterra, circondato solo dai pochi semplici abitanti di un borgo di pescatori sulla costa della Cornovaglia, c'è poco da temere che la mia attenzione venga distolta dalla mia fatica, e poche probabilità che la mia indolenza ne ritardi il rapido compimento. Vivo sotto la minaccia di un'ostilità incombente, che può piombare su di me e sopraffarmi non so né quando né come. Un nemico, determinato e mortale, disposto ad aspettare giorni come anni l'occasione giusta, è sempre in agguato nell'ombra contro di me. Nell'iniziare questa mia nuova occupazione non posso dire se il mio tempo sarà mio per un'altra ora, o se la mia vita durerà fino a sera.

Pertanto, non è certo per passatempo che comincio il mio racconto, e per di più nel giorno del mio compleanno! Quest'oggi compio ventiquattro anni, il primo nuovo anno della mia vita che non sia stato salutato con una sola parola gentile, o un solo augurio affettuoso. Ma uno sguardo di benvenuto può ancora venire a trovarmi nella mia solitudine: l'amoroso sguardo della natura, cosí come la vedo dalla finestra della mia stanza. Sempre più luminoso il sole risplende oltre banchi di nuvole rossastre piene di pioggia, i pescatori stendono le reti ad asciugare sulle rocce più basse, i bambini giocano attorno alle barche tirate in secca sulla spiaggia, la brezza marina spira fresca e pura verso la riva: ogni cosa è splendente allo sguardo, ogni suono piacevole all'orecchio, mentre questa penna traccia le prime righe che aprono la storia della mia vita.

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Pagina 21

In casa assolveva i suoi doveri verso la famiglia con onore, discrezione e gentilezza. Credo che a modo suo ci amasse tutti, ma noi, suoi discendenti, dovevamo dividere il suo cuore con i suoi antenati, eravamo beni di famiglia oltre che suoi figli. Ci era data ogni giusta libertà, ogni giusta indulgenza ci era concessa. Non diede mai prova di diffidenza, né di ingiustificata severità. Ci fu insegnato che disonorare la nostra famiglia, con parole o con azioni, era il solo crimine fatale che non avrebbe mai potuto essere dimenticato e mai perdonato. Fummo educati, con la sua supervisione, nei principi della religione, dell'onore e dell'operosità, e il resto fu lasciato al nostro senso morale, alla nostra comprensione dei doveri e dei privilegi del nostro ceto. Non c'era nulla nella sua condotta verso di noi di cui potessimo lamentarci, eppure ci fu sempre qualcosa di incompleto nei nostri rapporti familiari.

Ad alcuni potrà sembrare incomprensibile, persino ridicolo, ma ciò nondimeno è vero che nessuno di noi fu mai in confidenza con lui. Voglio dire che è stato un padre per noi, ma mai un compagno. C'era qualcosa nei suoi modi, cosi tranquilli e immutabili, che ci portava quasi inconsapevolmente a trattenerci. Mai in vita mia mi sono sentito meno a mio agio (all'epoca non sapevo perché) di quando mi capitava di cenare da solo con lui. Da bambino mai gli ho confidato i miei progetti riguardo ai divertimenti, né da ragazzo gli ho mai accennato, se non genericamente, delle mie ambizioni e speranze. Non perché avrebbe accolto tali confidenze con severità o scherno - ne era incapace - ma perché sembrava esserne al di sopra, inadatto a comprenderle, troppo distante dai nostri pensieri, preso com'era dai suoi. Così, tutte le riunioni per le vacanze si tenevano con i vecchi domestici; così, le mie prime pagine manoscritte, quando per la prima volta mi avvicinai alla scrittura, furono lette da mia sorella e non penetrarono mai nello studio di mio padre.

E ancora, il suo modo di dimostrare disapprovazione verso di me o mio fratello aveva qualcosa di terribile nella sua calma, qualcosa che non dimenticavamo mai e che temevamo sempre come la peggiore calamità che potesse abbattersi su di noi.

Da piccoli, quando combinavamo qualche guaio mio padre non manifestava mai esteriormente alcuna irritazione, solo cambiava radicalmente il suo modo di fare con noi. Non eravamo strigliati a dovere, né minacciati con violenza, né energicamente puniti in alcun modo, ma quando venivamo a contatto con lui ci trattava con una cortesia fredda e sprezzante (specialmente se la nostra mancanza mostrava una tendenza alla meschinità o alla rozzezza) che ci feriva nel profondo del cuore. In queste occasioni non ci chiamava mai per nome di battesimo; se per caso lo incontravamo fuori di casa, si voltava e ci evitava; se facevamo una domanda, la risposta era la più sbrigativa possibile, come se fossimo degli estranei. Ogni suo gesto e atteggiamento diceva esplicitamente: «Vi siete resi indegni di unirvi a vostro padre, che ora vi sta facendo sentire lo stesso senso di profonda inadeguatezza che prova». Ci lasciava in questo purgatorio domestico per giorni, a volte per intere settimane. Nel nostro sentire di bambini (per me specialmente) non c'era una vergogna più grande, finché continuava.

Non so come mio padre si comportasse con mia madre. Verso mia sorella, il suo comportamento ebbe sempre qualcosa della vecchia, affettuosa galanteria dei tempi andati. Le prestava le stesse attenzioni che avrebbe avuto per la signora più importante del paese. Quando eravamo soli, la accompagnava a cena esattamente come avrebbe condotto una duchessa a un banchetto. Da bambini, ci permetteva di alzarci da tavola prima di lui, ma mai prima che lei avesse finito. Se un domestico veniva meno ai propri doveri verso di lui, spesso era perdonato, se verso di lei, il domestico veniva cacciato all'istante. Sua figlia, ai suoi occhi, stava a rappresentare la madre: era la padrona della casa, oltre che sua figlia. Era strano vedere quel misto di cerimoniosa cortesia e amore paterno con cui le toccava appena la fronte con le labbra nel darle il buongiorno la mattina.

Fisicamente, mio padre era di media altezza. Era di corporatura molto esile e delicata, la testa piccola e ben piantata sulle spalle, la fronte più ampia che alta, l'incarnato singolarmente pallido, tranne che nei momenti di agitazione in cui, come ho già detto, aveva la tendenza ad avvampare in un istante. Gli occhi, grandi e grigi, avevano qualcosa di imperioso e conferivano alla sua espressione una certa immutabile fermezza, una dignità che non si incontra facilmente. A ogni sguardo tradivano la sua nascita e la sua educazione, i suoi vecchi pregiudizi ancestrali, il suo cavalleresco senso dell'onore. D'altra parte, occorreva tutta l'energia virile dello sguardo nella parte superiore del viso per riscattare la parte inferiore da un'apparenza di effeminatezza, tanto delicati erano i suoi fini lineamenti normanni. Il sorriso era di una dolcezza straordinaria, quasi come il sorriso di una donna. Se mai rise, in gioventù, la sua risata doveva essere molto limpida e musicale, ma da quando lo ricordo non l'ho mai udita. Nei momenti più felici, nella compagnia più allegra, io l'ho visto soltanto sorridere.

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Pagina 81

Povera Mrs Sherwin! L'avevo a malapena notata quel giorno sull'omnibus con la figlia, era come se la vedessi per la prima volta. Le emozioni delle donne hanno una comunicativa tutta naturale. Una donna felice diffonde impercettibilmente la sua felicità intorno a sé, esercita un influsso che è qualcosa di molto simile a quello di una giornata di sole. Allo stesso modo, la tristezza di una donna malinconica è invariabilmente, anche se silenziosamente, contagiosa, e Mrs Sherwin apparteneva a quest'ultima categoria. La sua pelle dall'aspetto malato e umidiccio, i grandi occhi miti di un azzurro acquoso, l'inquieta timidezza dell'espressione, il misto di inutile esitazione e involontaria rapidità in ogni movimento, tutto in lei tradiva una vita di incessante paura e costrizione, un temperamento pieno di modeste generosità e slanci dimessi che era stato annientato fino a non riuscire più a emergere, a non vedere più la luce. In quel suo volto mite ed esangue, in quel penoso muoversi frettolosamente a scatti, in quel modo di parlare tremulo e fievole potevo vedere una di quelle spaventose tragedie del cuore che sono messe e rimesse in scena, atto dopo atto, e anno dopo anno, nel segreto teatro casalingo, tragedie che sono oscurate dal lento discendere del nero sipario che cade sempre più basso ogni giorno, che cade, per tutto nascondere infine, dalla mano della morte.

«Il tempo è stato molto bello in questi giorni, signore», disse Mrs Sherwin, con voce quasi impercettibile e guardando con occhi ansiosi il marito per vedere se le fosse pennesso pronunciare persino queste tristemente banali parole.

«Molto bello davvero», continuò la povera donna, timidamente come se fosse diventata bambina di nuovo e le fosse stato ordinato di ripetere la sua prima lezione in presenza di un estraneo.

«Un ternpo delizioso, Mrs Sherwin. In questi ultimi due giorni me lo sono goduto in campagna, in una zona del Surrey - i dintorni di Ewell - che non avevo mai visitato prima».

Ci fu una pausa. Mr Sherwin tossi, era evidentemente uno scampanio di avvertimento coniugale che era stato suonato molte altre volte, giacché Mrs Sherwin sobbalzò e lo guardò immediatamente.

«In qualità di padrona di casa, Mrs Sherwin, ho l'impressione che dovresti offrire a un ospite come questo gentiluomo un po' di torta e di vino, senza particolari pecche nelle buone maniere!».

«Oh, povera me! Le domando scusa! Mi dispiace molto, davvero», e versò un bicchiere di vino, con mano così tremante che la bottiglia tintinnò per tutto il tempo contro il vetro. Anche se non desideravo nulla, mangiai e bevvi qualcosa immediatamente, per non accrescere l'imbarazzo di Mrs Sherwin.

Mr Sherwin si versò da bere da solo, alzò il bicchiere ammirato verso la luce, e disse: «Alla sua salute, signore, alla sua buona salute», quindi bevve con aria da intenditore e un espressivo schiocco delle labbra. Sua moglie, cui non offrì nulla, lo guardò per tutto il tempo con l'attenzione più reverenziale.

«Lei non prende nulla, Mrs Sherwin?», domandai.

«Mrs Sherwin, signore», si frappose il marito, «non beve mai vino, e non digerisce i dolci. Problemi di fegato, grossi problemi di fegato. Si serva ancora. No? Davvero? Questo sherry mi costa sei scellini la bottiglia: un prezzo da vino di prima qualità, e infatti lo è. Bene, se non ne vuole più, possiamo venire agli affari. Aha! Affari li chiamo io, per lei spero si tratti di piacere».

Mrs Sherwin tossì, una tosse debole, sommessa, quasi soffocata sul nascere.

«Eccoti di nuovo!», sbottò Mr Sberwin, voltandosi furioso verso di lei. «Di nuovo a tossire! Sei mesi di dottore, un conto di sei mesi che se ne va dalle mie tasche, e nessun miglioramento, nessuno, Mrs Sherwin».

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Pagina 115

Se una straordinaria regolarità di lineamenti fosse sufficiente a fare un bell'uomo, allora questo impiegato di fiducia di Mr Sherwin era sicuramente uno degli uomini più belli che io avessi mai visto. Se non si considerava la testa (che era abbastanza larga, sia davanti sia dietro), il suo volto mostrava, ovunque, una simmetria di proporzioni pressoché perfetta. La fronte stempiata era liscia e massiccia come il marmo; le sopracciglia alte e le palpebre sottili erano ferme e immobili come quelle di una statua, e sembravano ugualmente fredde; le labbra delicatamente disegnate erano abitualmente chiuse quando non parlava, fisse e immutabili come se non fossero mai state attraversate da un soffio di vita. Sul suo volto non c'era né una ruga né un segno. Non fosse stato per la leggera calvizie e i capelli grigi ai lati e dietro la testa, sarebbe stato impossibile indovinarne l'età, anche con un'approssimazione di dieci anni.

Questo era il suo viso quanto all'aspetto, ma in quella che è la manifestazione esteriore della nostra immortalità, cioè l'espressione, notai che era un vuoto assoluto. Non avevo mai visto prima un volto umano così imperscrutabile. Sarebbe stato impossibile fare una maschera cosi inespressiva da somigliargli, eppure sembrava una maschera. Non trasmetteva nulla dei suoi pensieri quando parlava, nulla del suo stato d'animo quando taceva. I suoi freddi occhi grigi non aiutavano a studiarlo. Non variavano mai dallo sguardo fermo e diretto che era esattamente lo stesso per Margaret e per me, per Mr Sherwin e per Mrs Sherwin, lo stesso sia che parlasse sia che ascoltasse, sia che trattasse di questioni importanti o del tutto indifferenti. Chi era? Cos'era? Il suo nome e la sua occupazione erano ben misere risposte a queste domande. Era per natura freddo e insensibile di cuore? Oppure una selvaggia passione, un terribile dolore avevano distrutto la vita dentro di lui e l'avevano uccisa per sempre? Era impossibile capirlo! Davanti a te c'era sempre quel volto impenetrabile, totalmente inespressivo, così inespressivo che non sembrava nemmeno assente, un vero mistero per quegli occhi o quella mente che vi si fossero soffermati. Nascondeva qualcosa, ma se fosse vizio o virtù era impossibile a dirsi.

Era vestito nel modo meno appariscente possibile, tutto di nero, ed era più alto della media. I suoi modi erano il suo solo tratto che tradisse qualcosa agli occhi degli altri. Se considerato in rapporto al suo ceto, il suo comportamento (per quanto discreto) lo rivelava come di una posizione superiore. Aveva tutta la calma e l'autocontrollo di un gentleman. Manteneva un comportamento rispettoso senza la minima sfumatura di servilismo e mostrava una decisione, nel parlare come nel fare, che non avrebbe mai potuto essere scambiata per ostinazione o tracotanza. Dopo aver trascorso meno di cinque minuti in sua compagnia, i suoi modi mi assicurarono che doveva aver occupato una posizione più alta di quella in cui si trovava al momento.

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Pagina 288

«Mi riconosce ancora?», disse. «Mi riconosce come Robert Mannion?». Mentre pronunciava il suo nome, alzò la maschera e mi guardò.

La vista di quel viso raccapricciante, reso esangue e spettrale dalla malattia, con i lineamenti orribilmente deformati e la malignità feroce e immutabile di quello sguardo torvo nel sole penetrante di mezzogiorno (lo stesso sguardo innaturale di furia e trionfo che avevo visto balenare nel lampo la notte del temporale) mi lasciò senza parole e non mi ha mai abbandonato da allora. Non devo, non oso descrivere quella vista spaventosa, benché si erga vivida nella mia mente in tutto il suo orrore come la prima volta che la vidi, benché si agiti terrificante davanti a me mentre scrivo, benché cali dalla mia finestra come un'ombra disgustosa sul radioso panorama di terra, mare e cielo ogni volta che distolgo lo sguardo dalla pagina che sto scrivendo per volgerlo verso le bellezze che si vedono dal mio cottage.

«Mi riconosce come Robert Mannion?», ripeté. «Riconosce il lavoro delle sue mani, adesso che lo vede? O sono cambiato tanto che non riesce più a distinguermi, come suo padre avrebbe trovato cambiato il mio se lo avesse visto il mattino della sua esecuzione, in piedi sotto il capestro, col cappuccio sulla faccia?».

Non riuscivo ancora a muovermi né a parlare. Potei solo guardare altrove pieno di orrore, e fissare gli occhi a terra.

Abbassò la maschera coprendosi di nuovo il volto, poi riprese a parlare.

«Sotto questa terra sulla quale ci troviamo», disse, posando il piede sulla tomba, «qui giù, dove sta guardando, giace sepolta assieme ai morti l'ultima persona che un giorno con il suo ascendente avrebbe potuto indurmi alla tregua e alla pietà. Ha pensato alla sola, estrema occasione che stava perdendo, quando è venuto a vederla morire? Io ho osservato lei, e ho osservato Margaret. Ho sentito tutto ciò che lei ha sentito, ho visto tutto ciò che lei ha visto, so quando è morta, e come, bene quanto lei, ho condiviso con lei i suoi ultimi momenti, fino alla fine. Non volevo abbandonarla in suo esclusivo possessonemmeno sul letto di morte, come ora non voglio lasciare lei qui solo sulla sua tomba, coine se queste spoglie fossero di sua proprietà!».

Mentre pronunciava queste ultime parole, ripresi il controllo di me stesso. Non riuscii a parlare, come avrei voluto, potei solamente muovermi per andarmene.

«Fermo», mi disse, «ho ancora da dire qualcosa che la riguarda. Devo dirle in faccia, qui sul corpo senza vita di Margaret, che ciò che le ho scritto dall'ospedale è ciò che farò, che renderò tutta la sua esistenza futura una lunga espiazione di questa deformità», e si toccò il viso, «e di questa morte», e posò di nuovo il piede sulla tomba. «Vada dove vuole, questa mia faccia non si volterà mai altrove, questa lingua, che lei non metterà mai a tacere se non con un delitto, sveglierà ai suoi danni le superstizioni addormentate e le crudeltà di tutto il genere umano. Lo sgradevole segreto di quella notte in cui ci segui puzzerà come la peste alle narici dei suoi simili, chiunque essi siano. Può ripararsi dietro la sua famiglia o i suoi amici, io la colpirò attraverso i più cari e più coraggiosi di loro! La prossima volta che ci incontreremo, lei stesso ammetterà che io faccio ciò che dico. Viva la vita libera che Margaret le ha restituito con la sua morte: presto si renderà conto che è la vita di Caino!».

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