Copertina
Autore Francisco Coloane
Titolo I balenieri di Quintay
EdizioneGuanda, Parma, 2003 [1998], Le Fenici Tascabili 13 , pag. 174, cop.fle., dim. 128x198x15 mm , Isbn 978-88-8246-237-6
OriginaleGolfo de Penas
TraduttorePino Cacucci, Gloria Corica
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe narrativa cilena , mare , viaggi
PrimaPagina


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Indice


Golfo de Penas                        5
Stretto dell'Abisso                   9
Legna secca                          19
Un mare di traversie                 29
Cacciatori di foche                  43
Le scie del Caleuche                 55
Notte sull'isola Lunga               63
Natale selvaggio                     67
L'amico Pat                          75
Galoppo di scheletri                 81
La tavola inchiodata                 87
Don Oscar e il fantasma              93
Processo al Trauco                   97
So-tutto-io                         113
Pedro Soldato                       121
Teresa Tekenika                     127
Sulla famosa regione antartica      135
I balenieri di Quintay              149


 

 

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Pagina 5

GOLFO DE PENAS



Tra un'onda e l'altra, la nostra nave si inclinava come un animale ferito in cerca di una via di salvezza, attraverso quell'orizzonte sbarrato da creste agitate e scure.

«Tieniti forte, vecchia mia!» disse un marinaio, stringendo i denti e contraendo i muscoli del volto, come se avvertisse una fitta dolorosa alle viscere. La nave, quasi lo avesse sentito, scricchiolò compiendo una virata di quarantacinque gradi e risalì la cresta di un'altra onda, praticamente adagiata su un fianco, ma ormai in salvo dal salto mortale che avrebbe rischiato di farla colare a picco.

Lo sbarramento d'acqua era totale. Sopra, anche il cielo sembrava un'onda sospesa sulle nostre teste, dal cui ventre cadeva violenta una pioggia fitta e sfibrante.

A un tratto, emergendo dalla tormenta, apparve sulla cresta dell'onda un'ombra più densa; un'altra onda la nascose alla vista, e una terza la riportò in alto mostrandoci un'immagine insolita per quei mari aperti: una barca con cinque uomini.

Strano incontro, perché in quel golfo si avventuravano solo navi di grosso tonnellaggio. La nostra, con le sue dieci miglia di andatura, stava lottando da oltre ventiquattro ore per attraversarlo da sud a nord, e un guscio di noce come quella minuscola barca non poteva sperare di farlo in meno di una settimana fino al Faro San Pedro, i primi picchi rocciosi di terraferma che si incontrano a sud del temuto golfo.

Nel fragore della tempesta, la campana della sala macchine risuonò come un cuore che rimbombava sulle pareti di metallo, e la nave diminuì l'andatura.

Era una barca in legno di cipresso, dallo scafo largo, e il fasciame di grosso spessore mostrava la polpa rossiccia, tanto era stato flagellato dal mare e dalla pioggia. I quattro vogatori remavano vigorosamente da ritti, un piede piantato sul banco e l'altro sul pagliolo del fondo, e tenevano lo sguardo fisso sul mare, soprattutto sull'onda in caduta, quando la massa d'acqua scivolava vertiginosamente verso l'abisso. Anche l'uomo che governava la barca, aggrappato alla barra del timone, stava in piedi, e mentre con una mano aiutava il rematore di poppa, con la spinta del corpo sembrava imprimere forza a tutti, che come un sol uomo seguivano il ritmo del suo impulso. Di tanto in tanto una cresta sfrangiata nascondeva la barca, e allora sembrava stessero vogando sospesi sul mare per una sorta di prodigio.

Quando ci furono di fianco, venne lanciata una cima legata a uno scandaglio, che il rematore di prua assicurò con un nodo scorsoio a un anello fissato sul banco. La vicinanza diventava sempre più pericolosa. Le onde innalzavano e abbassavano scompostamente la nave e la barca in modo tale che, in qualsiasi momento, lo scafo poteva cozzare contro la fiancata di ferro della nave finendo in pezzi. Una scaletta di corda fu calata dal bordo e, quando la cresta di un'onda alzò la barca fino ai traversi del ponte, il timoniere spiccò un salto e si afferrò alla scaletta, arrampicandosi con l'agilità di un gatto. Mise piede in coperta e come un fulmine salì le scale fino al ponte di comando.

Lassù, lui e il capitano si chiusero in cabina. Restammo in attesa. I rematori si tenevano a una prudente distanza con il loro guscio di noce; la nave affondava la prua tra le onde e la rialzava come una testa stremata, scrollandosi la spuma di dosso. Il nostromo e i marinai erano pronti a effettuare la manovra di issaggio della barca a bordo, non appena il capitano avesse dato l'ordine.

I minuti trascorrevano lenti. Perché ci mettevano tanto a decidere di salvare una barca in mezzo all'oceano?

La tensione dell'attesa diminuì quando vedemmo uscire il barcaiolo dalla cabina. Fece uno strano cenno con la mano e ridiscese le scale con balzi da capriolo. Ma l'ordine di issare i naufraghi non venne dato. Il nostro sconcerto, a quel punto, aumentò.

Passandomi accanto, mi rivolse uno sguardo freddo ed energico. Volevo dire qualcosa, ma il suo sguardo mi trattenne dal farlo. L'uomo era inzuppato d'acqua; indossava pantaloni di lana grezza e un maglione pesante, la testa scoperta e i piedi nudi; il volto sembrava slavato come il legno della sua barca e tutto in lui emanava un'agilità invidiabile, con la quale pareva difendersi dal flagello implacabile delle intemperie.

Riattraversò la nave come un fulmine, scavalcò il bordo, si aggrappò alla scaletta e, approfittando di un rollio, con un balzo si ritrovò nuovamente alla barra del suo timone.

«Mollaaa!» gridò, e il marinaio a prua sciolse la cima, lanciandola in aria con un gesto disinvolto e sprezzante. I rematori ripresero a vogare con notevole energia, e la barca scomparve dietro una montagna d'acqua. Un'altra la sollevò sulla cresta, e quindi svanì così com'era apparsa, un'ombra più densa inghiottita dalla tormenta.

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Pagina 16

«Attenzione allo Stretto dell'Abisso!»

Sul volto di Marabolí era spuntato il solito sorriso di chi nasconde i propri dubbi nei momenti più critici.

«Passaggio Inglese! Tutti in coperta! Verricelli, argani, ancore, pronti a dar fondo d'emergenza! 'Se una nave viene da nord e l'altra da sud, una delle due non può passare.' Se passano entrambe e si incrociano, una sarà costretta a naufragare.»

I bracci dei verricelli sfiorarono quasi gli stralli. Anziché navigare verso sud dopo aver superato il Passaggio, nella notte rischiarata dalla luna, chissà perché, decise di continuare a nord. Furono costretti a rifare il tragitto già percorso. Non era un pilota di cui ci si poteva fidare, Marabolí. Impossibile conoscere del tutto un uomo in mare!

Ancora una volta aveva confuso il Canale Wide con il Canale Eyre. Tutta quella regione cordiglierana tra il Cile e l'Argentina è un'unica distesa di ghiacci. I denti di Marabolí scricchiolarono. Spianò la carta geografica e notò in mezzo al ghiacciaio denominato Hielo Sur delle spirali scure, Cerro Murallón, tremila e seicento metri di altezza di fronte al Canale Wide. Si trattava forse di un altro Stretto dell'Abisso sommerso sotto i ghiacci eterni che in altre ere avevano ricoperto l'intera Patagonia occidentale e orientale dopo l'ultima glaciazione? Diavolo!

Né Dio né il diavolo si raccapezzano tra quei labirinti di isole, canali e canaletti che passano dal Pacifico all'Atlantico o viceversa. Nel mare, sotto le distese di ghiaccio o sul fondo dei passi tra gli abissi, le loro leggi non coincidono con quelle dell'uomo o della natura sommersa. A volte mettono alla prova i poveri mortali, sulla coperta delle navi, e fanno i propri calcoli, offrono accordi.

«Testa fredda e piedi caldi!» gli aveva augurato il capitano Melías chiudendo la porta della cabina, per andarsene a dormire.

Il saccente pilota uscito dalla scuola navale si sbagliava. Il capitano della carboniera non dormiva attraversando lo Stretto dell'Abisso. Sognava, sognava sempre l'incontro con la moglie e il piccolo Carlos, e al ritmo della lenta andatura della sua nave, il sangue si avvelenava d'angoscia ogni volta che solcava le proprie acque interiori.

Quattro del mattino, rintocchi di campana per il cambio della guardia di pilota e timoniere. Il capitano Melías, su un mare di ghiaccioli, continuava a schiaffeggiare con le pinne da tricheco una foca bionda che nell'alto del cielo nascondeva il lato oscuro del suo volto superando lo Stretto; ma non vide il primo pilota Marabolí, perché al suo posto c'era il sostituto, che imboccava, nella piena luce dell'alba, l'uscita dello Stretto dell'Abisso. Dietro, molto indietro, si udivano suoni in lontananza di ghiacci che brillavano sul mare, suoni come di campane e melodie di mandolini, che annunciano la primavera negli eterni passi degli abissi della vita e della morte tra cielo, terra e mare.

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Pagina 29

UN MARE DI TRAVERSIE



Prima di salpare con la sua goletta Orfelinda, il capitano Annibale Pescetto tracciò la rotta tra le isole di Calbuco, Ipún e Guamblin, anche se lungo il tragitto avrebbe toccato altri luoghi dove lasciare mercanzia varia e raccogliere qualche pelle di foca e di gatto di mare che gli appartati abitanti dei fiordi cordiglierani e delle isole più sperdute tenevano in serbo per lui.

Il capitano Pescetto era un uomo ben disposto verso gli altri, dato che nell'estuario di Compu gli piaceva ascoltare dalle labbra di Rosa Coleman una vecchia canzone marinara sulla «buona pesca», le persone da lui soccorse in più di una tempesta, se avessero potuto emulare gli antichi poeti autoctoni, gli avrebbero intonato «la canzone del brav'uomo di mare».

Aveva armato la sua goletta alla maniera degli antichi velieri e le due gabbie di trinchetta tese sulle punte dell'albero maestro e di mezzana le davano un aspetto più svettante rispetto alla sua stazza di cinquanta tonnellate e l'andatura di sette miglia con il motore ausiliario, ma poteva arrivare a dodici con i venti di traversia che soffiano dai quadranti dell'ovest sui golfi di Ancud e Corcovado.

A quei tempi, l'isola di Calbuco non era ancora unita al continente dalla scogliera artificiale su cui passa la strada che ha prolungato la nostra valle centrale oltre il punto in cui affonda nel mare. La diga in pietra è stata costruita dove prima c'era il traghetto a chiatta, lasciando nel lago formatosi all'interno lo scafo arrugginito di una baleniera, che sporge ancora la prua dall'acqua come il collo di un cormorano incatenato.

L'Orfelinda, invece, entrava e usciva spesso con le vele spiegate, ammainandole, come in un sospiro di sollievo, con l'ultima spinta che la portava al punto di ancoraggio. La parte emersa dello scafo era dipinta di un verde bottiglia, lo stesso che acquista la corrente di Humboldt fino a centocinquanta miglia verso il mare aperto, grazie al prezioso plancton che le sue diramazioni trasportano dai mari interni di Chiloé, Guaitecas e Chonos, mentre la parte sommersa gareggiava in abbagliante biancore con la spuma prodotta dalla prua tagliente.

I lunghi tragitti del capitano duravano mesi, e la gente di mare e della costa ci scherzava sopra dicendo che lui tornava a Calbuco solo per mettere incinta la moglie, Orfelinda Vásquez, e subito dopo salpava per poi ritornare a vedere il nuovo rampollo.

Parafrasando Dante, ribatteva ai maliziosi che per lui c'era una Orfelinda nel mare e una sulla terra, perché il pianeta non è altro che questo: terra e mare.

La storia della sua vita era conosciuta da tutto il villaggio, e lui stesso si era preso la briga di raccontarla per evitare che altri facessero illazioni. Di origine italiana, era nato ad Ancona, sull'Adriatico; ma i genitori si erano trasferiti a Portofino quando lui aveva poco più di un anno. Porto Delfinius, era solito chiamarlo, riferendosi all'antico nome di quel luogo frequentato dai primi naviganti, i mercanti fenici, dietro ai quali era arrivata la prima pirateria del mare Mediterraneo.

Il bambino Pescetto era cresciuto leggendo racconti leggendari sulla professione più antica dei mari, quella del pirata, che, secondo l'etimologia, significa semplicemente «ladro di mare», uomo che si avventura per compiere rapine e malefatte affrontando ogni sorta di pericoli. Possiede maggiore nobiltà rispetto ai briganti della terraferma: deve essere un buon navigante, dotato di audacia e coraggio per lanciarsi nelle sue imprese.

Famoso pirata dell'antica Grecia, Policrate, tiranno di Samo, arrivò a possedere una flotta di cento navi guerriere che gli assicuravano il dominio del mare Egeo. Le imbarcazioni erano molto leggere e di poco pescaggio, cosa che permetteva di spingersi su acque difficili tra i labirinti di isole dove risultava molto arduo l'inseguimento. La navigazione consisteva generalmente nel costeggiare i litorali e nessun marinaio si avventurava in alto mare, e tanto meno navigava di notte. Al tramonto veniva gettata l'ancora e alle prime luci dell'alba si salpava.

Erano questi i racconti che Pescetto aveva ascoltato nell'infanzia, e adesso, quando la sua mente era già a bordo dell'Orfelinda che si apprestava a salpare, diceva tra sé: «Di notte ti sogno e all'alba riprendo a vivere con te».

Un metro e novanta di statura, biondiccio, robusto, i suoi occhi avevano riflessi verdi come l'erba dei prati. Alla morte della madre aveva abbandonato tre volte la casa paterna in Italia; poi era rimasto per qualche tempo con le sorelle minori e la seconda moglie del padre. A tredici anni si era imbarcato da clandestino su un transatlantico diretto in America. Scoperto, quando ormai Gibilterra era stata superata, gli avevano assegnato un lavoro, e rivolgendo un ultimo sguardo alle Colonne d'Ercole e alla mareggiata proveniente dal Finisterre, aveva voltato le spalle alla vecchia Europa.

Ma dopo essere rimasto abbagliato entrando nella rada del Rio de la Plata, aveva subìto il primo rovescio, quando il console italiano a Montevideo era salito a bordo con il messaggio del padre, il signor Marzio Pescetto, che ingiungeva al figlio di tornare indietro su quella stessa nave. Un'odissea patita due volte. Ma a sedici anni non gli avrebbero più potuto giocare quel brutto scherzo e si era accontentato di un vecchio cargo spagnolo, il Gastelu, che lo aveva portato senza altre sorprese a Punta Arenas, nella regione magellanica.

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Pagina 55

LE SCIE DEL CALEUCHE



In quel viaggio fummo accompagnati dagli anemoni silvestri delle colline chiloesi e anche da quelli dei bassi fondali marini che si estendono dal Canale di Chacao fino alle Bocche del Guafo, dove finisce il mare interno di Chiloé. Era l'inizio di dicembre e ci dirigevamo a Cucao con altri passeggeri in vacanza sulla lancia Rosario del Carmen, attraverso il lago Huillinco. Le montagne di Cucao sono le più alte dell'isola, boscose fino alla vetta, e si innalzano tra i 600 e i 900 metri sul livello del mare.

Il Pacifico era scintillante di sole. Le forze contrarie della corrente di Humboldt scontrandosi con il vento di traversia formavano vortici, e nell'acqua sembrava di scorgere alla rinfusa colpi di coda di delfini bianchi, balene azzurre, orche scure e capodogli verde bottiglia, il colore caratteristico della grande corrente che si muove a cinque o sei miglia al giorno, riproducendo il vivaio del ricco plancton di minuscoli crostacei dalle isole di Chiloé fino alle Galapagos.

La prima cosa impressionante fu verificare a occhio nudo che, dopo il maremoto del 1960 (8-9 gradi della scala Mercalli), il fiume che sbocca nella laguna di Cucao aveva aumentato la profondità di oltre due metri - fenomeno di tutto l'arcipelago che si è abbassato di livello sul mare - diventando più facilmente navigabile fino alle vicinanze della foce. Qui, curiosamente, viene contraddetta la strofa di Jorge Manríquez che dice: «Le nostre vite sono fiumi che sfociano in mare per morire...» visto che in questo caso è il mare a morire nel fiume, e con le alte maree nella fase di plenilunio diluisce la sua salinità fino alle sponde di Huillinco. Là, le lance e le piccole imbarcazioni cominciano a ballare quando soffiano i venti di traversia, che arrivano dal terzo e quarto quadrante della rosa dei venti. Solo le foche di Pirulil risalgono la barriera di Cucao e si concedono il piacere di pescare branzini, re di triglie d'acqua dolce e salata, se non addirittura qualche corvina o gattuccio che ha smarrito la rotta. I riflessi dell'olio sparso da questo squaletto fa credere agli abitanti della zona di aver avvistato il Caleuche in certe notti.

Uno dei passeggeri, Francisco Mansilla, vedendo per la prima volta quelle ondeggianti colline oceaniche, esclamò stupefatto:

«Sembrano balene che lottano!»

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Pagina 81

GALOPPO DI SCHELETRI



Quella notte il vento andò a dormire prima di noi fuori dal bosco dove ci eravamo accampati. Era stato Facón Grande, il caposquadra dei mandriani, a richiamare la nostra attenzione con un deciso cenno del capo:

«Avete sentito?» chiese tendendo un orecchio verso l'oscurità.

Il Lungo e io ci mettemmo all'ascolto; di lì a poco sentimmo solo il rumore di una sorta di grosso uccello bianco piombato tra il fogliame.

«Sono i blocchi di neve che cadono dagli alberi», disse con noncuranza il Lungo.

«No, è un cavallo al passo veloce sul sentiero lastricato», rettificò Facón.

Ci rimettemmo in ascolto; ma ancora una volta riuscimmo a sentire solo il rumore dei blocchi di neve che cadevano disfandosi dalle alte chiome dei roveri.

Ci facevamo compagnia intorno al fuoco che rischiarava a tratti il cuore del bosco di roveri. I cavalli mangiavano qualche foglia tenera al chiarore oscillante delle fiamme; i cani dormicchiavano con il muso affondato nella cenere, e noi fumavamo una sigaretta dopo un pasto frugale.

Il fuoco aveva ormai sciolto la neve tutto intorno, e il volto bagnato della terra si affacciava cordiale, dopo tanti mesi passati a spaziare con lo sguardo su un'unica distesa bianca che uniformava ogni cosa.

Quell'inverno era stato lungo e rigido sull'intera estensione della Patagonia.

A Iemisch Aike, era stato necessario trasferire grandi branchi di giumente selvagge per aprire sentieri nella neve e poter mettere in salvo le greggi di pecore rimaste bloccate sui campi delle alture, quelli estivi, con le precoci nevicate.

Nonostante i tentativi, fu impossibile portare via circa trecento manzi rimasti sui contrafforti andini più alti, e adesso, all'inizio della primavera, andavamo a riprenderli.

Facón era il più esperto di quelle montagne. Lo avevano soprannominato così per il grosso coltello con il manico d'argento che portava sempre infilato dietro, nella cintura; il suo nome era José Diaz e lavorava nella tenuta come caposquadra dei mandriani.

Il Lungo doveva il soprannome alla statura, faceva coppia con il caposquadra nella domatura dei puledri ed era il suo aiutante nel seguire le mandrie di cavalli; si chiamava Basilio Oyarzo.

Io in quel periodo mi chiamavo Tomás Friend, caposquadra della sezione Chankaike nella stessa tenuta. Ho detto «in quel periodo» perché prima ero Emiliano Amigo, cognome che avevo tradotto in Friend, e date le circostanze mi calzava meglio.

A un tratto, i cani smisero di dormicchiare, alzarono i musi e cominciarono ad annusare l'aria in direzione della zona oscura. In quel momento, udimmo il tipico gloc-gloc di un cavallo su uno dei ponti di tronchi grezzi gettati sui passi fangosi tra le foreste. I cani scavalcarono il fuoco e scatenarono un putiferio nel cuore della boscaglia. Di lì a poco, aprendosi un varco tra i rami, comparve un cavaliere su un baio, seguito da due cani che si rifugiavano tra le sue zampe, incalzati dai loro simili.

«Salve», salutò lo sconosciuto.

«Salve», rispondemmo.

«Può smontare, se vuole», aggiunse Facón.

Spronò il cavallo fino al tronco dove erano legati i nostri.

Smontò, allentò il sottopancia, mise le pastoie alle zampe e si avvicinò al fuoco.

Una volta sceso da cavallo, la sua figura risultò più piccola di quanto era apparsa prima: un uomo piuttosto basso, con gambali e giubba di pelle grezza di pecora, imbottita di lana all'interno. Stivali a mezza gamba, sciarpa al collo e berretto di pelle di guanaco con paraorecchi.

«C'è ancora un po' di carne arrostita», disse il Lungo, porgendogli mezzo cosciotto di agnello rimasto sulla graticola.

«Grazie, molte grazie», rispose estraendo il coltello da caccia con cui tagliò la carne. Stava per portare un pezzo alla bocca quando i cani lo fissarono imploranti e cominciarono a guaire. Tagliò il pezzo in due e lo lanciò davanti ai loro musi.

«Ne abbiamo dell'altra per i cani», disse il Lungo, e si alzò per andare a prendere un pezzo di collottola che tagliò in due.

Il nuovo arrivato staccò un'altra striscia e se la portò alla bocca, per poi tagliarla tenendola tra i denti come fanno i gauchos; a un certo punto sembrò gli fosse andata di traverso, si piegò e prese a mugolare come i suoi cani.

«Il fumo dei rami verdi prende alla gola tutti», disse il Lungo, attizzando il fuoco.

«Non è il fumo, amico... È la fame... Non mangiamo niente da tre giorni.»

Era la prima volta che vedevo qualcuno in Patagonia piangere per la fame in quel modo. Dopo il Grande Sciopero del '19, i proprietari terrieri e i lavoratori avevano concluso un accordo che permetteva a chiunque fosse affamato di abbattere una pecora nei pascoli, mangiarne la carne e lasciare la pelle appesa a una recinzione come segno del fatto avvenuto. In simili casi di estrema necessità, l'uomo non veniva considerato un ladro. Poteva anche restare tre giorni nei rifugi della tenuta, usufruendo di cibo e alloggio per lui, i cavalli e i cani.

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Pagina 149

I BALENIERI DI QUINTAY



A sud del porto di Valparaiso si trova la caletta di Quintay. Tra i due punti si innalza un grande promontorio che cade in mare come un gigantesco muso di balena. È il Curauma, alto cinquecento metri. Tutto è grandioso e imponente tra quelle scogliere: i contrafforti della Cordigliera che arrivano fino al mare e la vastità dell'oceano più grande del pianeta. La piattaforma di Quintay scende in mare con un prolungamento roccioso di scogli e faraglioni che proteggono la caletta dai venti del sudovest. Al pari della corrente di Humboldt, questi sono attivi per la maggior parte dell'anno.

Nell'aprile del 1953 sono arrivato via terra in quel luogo per partecipare a una battuta di caccia alle balene a bordo di una nave della flotta baleniera dell'impresa Indus.

«Ci mette di più una massaia a preparare una gallina in umido che noi a smembrare una balena e sciogliere l'olio nei paioli», mi diceva il nostromo Carlos Aravena.

È un uomo corpulento, che da un posto soprannominato «pulpito» dirige tutte le manovre di attracco e di issaggio delle balene lungo una rampa di cemento fino al punto di lavorazione. Viene chiamato così anche il punto più alto di una nave, dove è situata la bussola esterna sul tetto del ponte di comando. Da lassù, come un dio tra la terra e il mare, il nostromo Aravena usa la mano destra per dirigere le manovre marittime e la sinistra per quelle terrestri.

Aravena si dedica da trentasei anni alla lavorazione delle balene ed è ormai un esperto in materia. Mi rendo conto subito delle sue conoscenze, non appena lo incontro sulla rampa e lui mi conduce all'alloggio del personale, parlando senza sosta mentre saliamo sull'altra piattaforma situata a un'altezza maggiore.

Ne approfitto per guardarmi intorno e scorgo una barca che traina una balena dalla nave fino al bordo della rampa. Lì viene presa per la coda dal granchio, una specie di grossa tenaglia d'acciaio fissata a un cavo anch'esso d'acciaio tirato da un argano lungo la rampa inclinata, e trascinata fino al punto dove viene smembrata.

«Dicono che la pesca sia abbondante quando c'è la luna; ma non è certo perché le balene sono lunatiche», mi dice con sarcasmo. «Il motivo è che quando aumentano le maree, le seppie che prediligono i capodogli e il krill di cui si nutrono le balene dotate di fanoni, si avvicinano alla costa e i cetacei gli vanno dietro.»

Un uomo che sa fare bene il proprio lavoro è sempre un maestro; e viene in mente Balzac: «Uno non si avvicina al maestro per imparare a dubitare».

Carlos Aravena, dal canto suo, è solito sbirciare dall'alto in basso, misurando le due stature di chi gli sta vicino, quella esteriore e quella interiore. Quando dico che sono giornalista e scrittore, commenta:

«Tempo fa è passato da queste parti uno di voi e poi ha scritto un romanzetto».

Il mattino seguente, verso le undici, arriva l'Indus 8 con quattro capodogli, due su ogni fiancata. Sembra poco più grande dei cetacei, verniciata di verde mare sbiadito e le cabine color crema. L'Indus 11 ha appena comunicato via radio che sta rimorchiando dieci esemplari dal nord e Aravena calcola che per domani arriveranno almeno venti balene.

Branchi di cabinzas accorrono quando inizia la lavorazione. Sono ghiotti della pelle sottile, la fine membrana che ricopre il cetaceo. Se ne vedono a migliaia, grossi quanto una mano, intenti a divorare i fianchi del grande animale oceanico, simili a spatole argentate che raschiano le fiancate di una nave prima di riverniciarla.

Nei pressi della baleniera, un gruppo di pescatori cattura vari tipi di pesci, compresi i branzini.

Mi metto all'opera e fin dal primo mattino osservo i lavori di smembramento delle balene. Sul dorso dell'animale si arrampicano uomini che impugnano coltelli dalla lama ricorva e il lungo manico di legno.

Aravena impartisce ordini facendo cenni con la mano destra verso la spiaggia, dove la tenaglia imprigiona tra le enormi pinze di ferro la balena morta, all'estremità della coda, sul moncone rimasto dopo che le pinne caudali sono state tagliate in alto mare, per facilitarne il traino. Contemporaneamente, con la sinistra invia segnali all'argano, che comincia a recuperare il cavo trascinando il cetaceo sulla rampa. Seguo attentamente il procedimento; ma intanto penso a questi uomini, al loro lavoro e agli animali che verranno squartati da quei grandi coltelli attaccati a lunghi manici. Le lame sono a forma di falce e li chiamano «norvegesi». Perché? Ricordo che i baschi sono stati i primi europei a cacciare le balene nei mari dell'emisfero settentrionale. I norvegesi prima hanno imparato da loro, e poi li hanno mandati via dai propri stabilimenti.

Il coltello è lo strumento con cui l'animale viene tagliato dalla testa alla coda, in strisce che i cavi dell'argano staccano tirandole da un'estremità, come fossero bucce di banana.

«Affondalo bene quel coltello, che il maestro lo ha affilato per questo!» grida a un tratto il caposquadra di turno a un lavorante.

L'uomo in questione affonda con maggior forza il coltello dal lungo manico, tenendosi saldo sul dorso del cetaceo grazie agli scarponi chiodati, e la lama ricurva penetra nel grasso con uno strano rumore sordo. A un certo punto noto che dal fianco del capodoglio spunta l'arpione che lo ha ucciso. Si è piegato come una spilla da balia, nonostante sia una sorta di fiocina di ferro che pesa ottanta chili. Ammutolisco. L'arpione ha colpito le ossa delle vertebre dorsali, così grandi che, nella nostra casa di Tubildad, ne usavamo alcune come sgabelli da giardino.

Lo strato di grasso è spesso più di trenta centimetri e da ciascun animale si possono ricavare da otto a nove tonnellate di olio. Le gigantesche strisce vengono trascinate a pezzi, simili a fette di pancetta, fino ai boccaporti che si aprono sulla superficie della rampa e conducono ai paioli sotterranei.

La testa di un capodoglio rimane scoperchiata e assomiglia a una caverna da cui scendono innumerevoli stalattiti trasparenti, che a me sembrano grandi lacrime. È ambra grigia, chiamata anche cetina o bianco di balena, tanto apprezzata fin dall'antichità, e la testa di un capodoglio ne contiene mezza tonnellata. Il cervello è il più grande, in base al suo peso, dell'intero regno animale, mentre la sacca di ambra pare serva a mantenere l'equilibrio nelle manovre in profondità.

Penso che se vi fosse qualche rapporto scientifico tra il peso del cervello e l'intelligenza, il capodoglio dovrebbe essere il genio assoluto del pianeta. Tuttavia, l'uomo ha cominciato a dargli la caccia usando una semplice lancia da una piccola imbarcazione, e oggi siamo arrivati al punto che bisogna promuovere campagne per evitarne l'estinzione.

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