Copertina
Autore Francisco Coloane
Titolo I conquistatori dell'Antartide
EdizioneGuanda, Parma, 2002, La frontiera scomparsa , pag. 120, dim. 135x205x12 mm , Isbn 978-88-8246-068-6
OriginaleLos conquistadores de la Antártida [1976]
TraduttorePino Cacucci
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe narrativa cilena , mare
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Indice


I.    S.O.S.                                  9
II.   Il naufragio del Flora                 17
III.  L'abbordaggio della Gaviota            29
IV.   La caverna dell'esiliato               39
V.    Il pinguino fantasma                   51
VI.   In memoria di un presidente            61
VII.  Le balene azzurre                      67
VIII. Lo stretto sull'abisso                 75
IX.   La valle misteriosa                    85
X.    La fine dell'Agamaca                   97
XI.   Due fantasmi che ritornano            105
XII.  Ultime tracce                         111

 

 

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Pagina 9

I
S.O.S.



I bagliori dei lampi rischiaravano la cabina della stazione radio di Walaia, mentre all'interno il sergente Ulloa passeggiava irrequieto davanti al tavolo delle trasmissioni, accanto al quale il radioperatore Alejandro Silva restava al proprio posto con gli auricolari e un'espressione disperata sul volto.

«Nient'altro che questo?» chiese il sergente.

«Nient'altro» rispose Silva, rimarcando con la matita blu, con cui era solito scrivere direttamente i messaggi radiotelegrafici, tre grandi e impressionanti lettere sul foglio: SOS.

Echeggiò un tuono come se dalla frontiera rotolasse rovinosamente una gigantesca catasta di tronchi, oltrepassandoli a distanza, con un rombare che si spegneva lentamente, diretto verso un'altra frontiera lontana.

«Esse o esse!» ripeté il sergente Ulloa quasi fosse un ultimo vagito del tuono.

«Esse o esse!» gli fece eco il radioperatore, premendo gli auricolari sulle orecchie con un'espressione accigliata, e aggiunse, riprendendo in mano la matita e ripassandola nervosamente sulle tre lettere già profondamente segnate di blu sul foglio: «Nient'altro! SOS!»

SOS, le tre lettere che a livello internazionale significano «Aiuto!», per tutte le orecchie del mondo senza distinzioni di razza o di lingua, costituivano l'unico messaggio che la stazione radio di Walaia era riuscita a ricevere, nel mezzo della tempesta, quando un fulmine, all'improvviso, aveva distrutto l'antenna, interrompendo l'angosciosa comunicazione.

La stazione radio di Walaia, della Marina militare cilena, è situata in uno dei punti più impervi, solitari e australi del mondo: allo sbocco dello stretto Murray, di fronte a Capo Horn.

Tale stretto o canale è un vero e proprio taglio netto tra le cordigliere, corto e profondo, che fornisce uno sbocco alle acque del canale Beagle verso Capo Horn. La natura in quella parte della fine del mondo è ostile e tempestosa. Le coste non offrono spiagge perché le montagne si precipitano a strapiombo nel mare; la vegetazione è costituita da roveri rattrappiti e qualche ciuffo d'erba e licheni che attecchiscono nelle zone più basse, mentre i picchi di roccia si innalzano privi di qualsiasi forma di vita, simili alla rugosa pelle di pachidermi colossali.

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Pagina 67

VII
LE BALENE AZZURRE



L'Agamaca era in navigazione da sei giorni attraverso il tratto di oceano tempestoso che costituisce il punto di congiunzione tra l'Atlantíco e il Pacifico a sud di Capo Horn. Avevano oltrepassato le isole Diego Ramírez, desolati scogli scaraventati da una mano capricciosa in mezzo a quell'immensità di acqua e cielo.

L'infinita vastità di quell'orizzonte senza limiti, di quel mondo solitario di acque insondabili, non intimoriva gli intrepidi naviganti. Sapevano che il loro mondo era tutto sull'Agamaca, e che poteva scomparire sia a un miglio dalla terraferma che in mezzo all'oceano. Il loro carattere era temprato dall'abitudine al mare, e li preoccupava soltanto non essere perfettamente informati sull'esatta situazione in cui si trovavano, perché la piccola sagola con cui misuravano i nodi di velocità del cutter era stata inghiottita da qualcosa di più grosso di un pesce sega e con la pelle altrettanto liscia, dotato di denti così forti da essere riuscito a tranciare la corda.

A parte le due burrasche scatenatesi quando si stavano allontanando dalle coste di Capo Horn, il resto della navigazione era stato buono, e non avevano dovuto diminuire la velocità di otto miglia orarie, spinti dal vento dell'ovest che soffiava costante.

Nonostante l'attenzione posta sul timone, il Capo Bianco calcolava che la deriva aveva spostato leggermente la rotta verso est.

A bordo delle quattro assi dell'Agamaca la vita veniva scandita da ritmi particolari. Poco a poco era svanita dall'animo di quegli uomini l'inquietudine causata dalla scomparsa della terraferma, e si erano adattati come se il mare fosse sempre stato l'unico elemento delle loro esistenze.

I turni al timone divennero gradualmente più rilassati e basati sulla volontà di ciascuno. La navigazione con il vento in poppa non richiedeva cambiamenti di rotta, e la notte, che in quel periodo e a quella latitudine durava appena tre ore, restava di guardia soltanto uno su quattro.

Una notte in cui la luna saliva nel cielo limpido simile a una mongolfiera rossa, e l'Agamaca solcava il mare come un rasoio sulla seta, il Capo Bianco, al timone, rimase stupefatto dalla straordinaria visione apparsa sull'acqua.

Migliaia di lumini azzurri, rossi e verdi nuotavano in superficie, abbagliando la vista. All'inizio pensò si trattasse di microrganismi fosforescenti o dei riflessi della luna rossa che sull'acqua creavano diverse sfumature; ma poi capì che era in realtà un fitto banco di pesci e gamberetti.

Il Capo Bianco suppose che arrivassero dall'Atlantico inseguiti da un branco di balene, perché quel tipo di pesci non era solito frequentare quelle acque.

Guardandoli, cominciò ad accarezzare una certa idea e, giusto per distrarsi, decise di metterla in atto.

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Pagina 98

Durante quell'avventurosa spedizione erano rimasti sorpresi da tanti spettacoli, ma nessuno li aveva lasciati confusi e intrigati quanto ciò che stavano vedendo adesso.

Lo stupore si trasformò gradualmente in una sensazione di autoironia divertita, come se fossero stati ingannati da qualcosa che non potevano immaginare. Erano scoppiati a ridere di fronte a una foca che si grattava furiosamente la nuca con le pinne, o guardando un pinguino che tirava per le orecchie la compagna perché questa si rifiutava di seguirlo sulla scogliera; ma ciò che stavano vedendo superava tutti i limiti.

Quella specie di nastro trasportatore, che saliva e scendeva lungo i fianchi della montagna, era in realtà una fila di pinguini che tenendo le piccole ali rudimentali strette al corpo si gettavano bocconi sulla neve e, sollevando le zampette, scivolavano giù come sulle montagne russe, per poi tuffarsi in mare. Sul sentiero accanto, scavato nella parte meno ripida della montagna, i pinguini in fila salivano a passi lenti e incerti fino alla vetta.

Vedendoli salire e scendere in quel modo, con il loro aspetto comicamente umano, sembravano bambini in frac e pettorina bianca, che si dedicavano con grottesca serietà a fare un gioco divertente.

Ma per loro era qualcosa di più che un semplice gioco. Era la soluzione del più grave dei problemi: quello della conservazione della specie. Andavano a deporre le uova nella parte meno accessibile per impedire ai loro nemici marini di mangiarsele.

Avevano scavato un'unica pista per la discesa, e un solo sentiero di risalita che tenevano costantemente occupato, perché sulla spianata in cima alla montagna ce n'erano migliaia in attesa del proprio turno all'inizio della pista, e in mare altrettanti si accalcavano per accedere al primo gradino e intraprendere la salita verso i nidi, dopo essersi rifocillati.

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