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| << | < | > | >> |IndiceI. In rotta verso sud 11 II. La prima notte 21 III. L'ultimo mozzo! 27 IV. Tre sagome a tribordo! 33 V. Il fantasma del Leonora 41 VI. Tempesta in alto mare 53 VII. La caccia alle balene 69 VIII. Gli Alacalufe 79 IX. Da Punta Arenas alla «Tomba del Diavolo» 87 X. «Dietro gli iceberg» 95 XI. «Il Paradiso delle Lontre» 101 XII. «Lo Struzzo di Mare» 109 XIII. Il ritorno 113 XIV. La follia di Escobedo 115 |
| << | < | > | >> |Pagina 11«Venti gradi a babordo!» gridò il tenente di guardia sul ponte di comando della corvetta General Baquedano. «Venti gradi a babordo!» ripeté, come un'eco, il timoniere, mentre le mani callose facevano girare vigorosamente la ruota del timone. Una raffica del vento di nordovest inclinò la nave fino a immergere la mura di babordo tra le grandi onde, i cui dorsi neri passavano rotolando verso l'oscurità della notte; l'ululato del vento aumentò d'intensità tra il sartiame, le vele fecero scricchiolare l'alberatura e la snella nave scuola della marina militare cilena, bianca come un albatro, mise la prua a sud, spinta a dodici miglia orarie dal vento di nordovest che soffiava sulla fiancata di tribordo. Era l'ultimo viaggio di quello splendido vascello. Dopo aver addestrato a bordo numerose generazioni di ufficiali, sottufficialí e marinai della marina cílena, l'alto comando navale aveva disposto che portasse a termine quell'ultima traversata fino a Capo Horn, per poi procedere, al ritorno, alla messa in disarmo della nave, che ormai, invecchiata nell'incessante lotta contro i mari di ogni latitudine, non offriva più le garanzie di sicurezza per navigare sulle pericolose rotte che devono solcare le navi da guerra. Con trecento uomini di equipaggio, dal comandante ai mozzi, in una sera d'autunno aveva levato le ancore nella baia del porto militare di Talcahuano, per superare con il motore ausiliario l'isola Quiriquina e, una volta in mare aperto, aveva spiegato le vele mettendo la prua a sud, in ottemperanza agli ordini ricevuti. Il diario di bordo, quel giorno, annotava la presenza di trecento uomini di equipaggio; ma in realtà erano trecentouno: di quest'ultimo, nessuno sapeva che fosse imbarcato. Nella cambusa di prua, nascosto sotto una cesta, rannicchiato tra rotoli di cordami e mucchi di catene, un ragazzino di circa quindici anni restava in attesa, tremando nell'ombra, del suo incerto destino. Si trovava in quel nascondiglio da almeno tre ore, sicuro che nessuno avrebbe sospettato la sua presenza a bordo, poiché il marinaio di guardia al portellone doveva essere certo che nessun estraneo fosse passato da quell'unica entrata della corvetta nelle ore precedenti la partenza. Tale sicurezza gli dava una vaga tranquillità; ma poi cominciò a pensare alla notte da affrontare nello spazio ridotto della cambusa, che un marinaio aveva chiuso con catena e lucchetto senza accorgersi di lui. Ogni tanto il beccheggio lo costringeva ad aggrapparsi ai rotoli di corde per non essere scaraventato contro le pareti di ferro, e quando la nave sembrava recuperare la posizione orizzontale, sentiva chiaramente i colpi delle onde contro lo scafo, quasi al di sopra della sua testa. «Accidenti» si disse, «sono sott'acqua!» In effetti era cosi: la cambusa restava al di sotto della linea di galleggiamento e quando la prua si inerpicava su un'onda per poi ricadere sul fondo, nel vuoto che rimane tra una e l'altra, la spallata d'acqua risuonava spaventosamente all'interno dello scafo. Ben presto avverti un leggero malessere alla testa e allo stomaco, come se gli mancasse l'aria; il malessere aumentò e violenti conati di vomito presero a scuotergli il corpo, già in preda al freddo. Si aggrappò ai bordi di un rotolo di funi e ci vomitò dentro fino a svuotare quasi del tutto lo stomaco. Il mal di testa diminuì e riacquistò una certa calma; la sua fibra di ragazzo robusto aveva fatto si che la nausea, di cui resta vittima chiunque si imbarchi per la prima volta, fosse solo un attacco passeggero. Stanco, si accomodò alla meglio sul pavimento e, all'improvvíso, gli tornò in mente l'immagine della madre e dell'accogliente casa di Talcahuano; una morsa, una sorta di nodo duro e amaro, gli risalì in gola e un dolore acuto gli fece aggrottare la fronte e... non ce la fece più; come da un grappolo d'uva spremuto tra le mani, sgorgarono dai suoi occhi grosse lacrime; ma scosse subito la testa, strinse con tutte le forze una grossa fune e l'ondata di angoscia passò, al pari della nausea. Poi ricordò il liceo, i compagni di giochi, la sua classe, la terza B, e i professori, quelli cattivi e quelli buoni; ma tutti erano buoni, adesso che quel mondo gli appariva così lontano. Il pensiero della madre afflitta era la cosa che lo commuoveva più d'ogni altra. Cosa faceva in quel momento, senza il suo unico figlio? Ricordò quando stirava i panni dei marinai, mentre lui faceva i compiti su un tavolino in un angolo dello stanzino o sventolava il braciere con un pezzo di cartone e il pesante ferro da stiro, caricato a carbone di legno di pruno, simile a uno strano vascello, avanzava su quel mare ondulato di camicie e colli inamidati, che i capitani avrebbero indossato durante le licenze domenicali. Sua madre, doña María, vedova di un marinaio, godeva fama di essere la migliore lavandaia del porto. Era del tutto inutile che le moderne lavanderie a secco installate a Talcahuano tentassero di farle concorrenza in materia di biancheria; la novità le portava via qualche cliente, ma nel giro di poco tempo i vecchi capitani tornavano da lei, perché il suo bucato era più bianco della neve e non logorava i tessuti. Ricordò, con amarezza, le piovose giornate d'inverno in cui la vedeva china sulle tinozze, a lavare e rilavare. «Da quando è morto tuo padre nel naufragio dell'Angamos» era solita dirgli «non abbiamo avuto altra ricchezza che le mie buone mani!» «Siete rimasti orfani» continuava «tu e tuo fratello. Manuel un giorno, vedendomi lavorare troppo, mi ha detto: 'Mamma, non voglio più studiare; noi poveri non possiamo arrivare tanto lontano con gli studi. Tu lavori troppo; io ho già quindici anni; ho trovato un imbarco su una nave carboniera, lavorerò per pagarmi il viaggio fino alla regione magellanica, una terra lontana dove si dice si guadagni molto denaro cacciando lontre, foche, volpi e altri animali dal pellame pregiato. Me ne vado, mamma; da laggiù tornerò con soldi a sufficienza perché tu non debba lavorare mai più, e con una bella coperta in pelle di guanaco da metterti sulle gambe in inverno'.» «Così, un giorno se n'è andato e non è più tornato, né ho avuto notizie di lui. Sarà sicuramente morto in quei mari, perché altrimenti avrebbe scritto, era un ragazzo molto diligente.» | << | < | > | >> |Pagina 60A un tratto la sottocoperta si innalzò fino a un livello mai raggiunto prima, e quindi ridiscese vertiginosamente e un colpo sordo fece vibrare fragorosamente l'intera nave; poi questa sembrò fermarsi, oscillando, palpitando tutta, come se si trovasse sul ciglio di un abisso.Le amache sbatterono contro il soffitto, un paio di uomini caddero al suolo e qualcosa che assomigliava a un urlo di terrore risuonò in un angolo. Alejandro rimase con il cuore in gola, quasi dovesse uscirgli dalla bocca; strinse i pugni fino ad affondare le unghie nella carne e spalancò smisuratamente gli occhi, aspettando, aspettando la morte, ma non faccia a faccia, come gli aveva detto quel marinaio... Però la Chancha continuò a dare segni di vita tra uno scossone e l'altro, più decisa che mai a lottare con il mare. In realtà, tre grandi ondate l'avevano colta di sorpresa durante una delicata manovra di viraggio e si era ritrovata nella situazione in cui una nave può colare a picco per l'eccessivo carico d'acqua. «È stata una virata di prua; sembra proprio che la faccenda stia diventando seria!» disse un marinaio, dopo un certo tempo. «Sicuramente i fiocchi e le trinchette non hanno cazzato bene il vento nella virata e la nave si è piegata sul fianco» aggiunse un altro. «È preferibile la virata di prua, altrimenti si rischia di perdere il vantaggio guadagnato nella manovra; il comandante Calderón è un buon marinaio, e non virerebbe mai dando il dídietro al vento!» concluse un vecchio. «Cambio della guardia!» urlò un nostromo, aprendo il coperchio del boccaporto. Erano circa le quattro del mattino. I marinai e i mozzi a cui toccava sostituire i compagni indossarono la tenuta di tela cerata e salirono in coperta a piccoli gruppi. Tra quelli addetti all'albero di trinchetto c'era anche Alejandro. Aspettarono che passasse una grande onda e poi corsero raggruppati ai propri posti di manovra; al ragazzino, assieme a due compagni, spettava una delle scotte. Lo spettacolo in coperta non era meno tremendo rispetto a sotto. La nave risaliva vere e proprie montagne d'acqua; il Pacifico del sud era in una delle sue notti di furia scatenata, e soltanto dei grandi marinai potevano permettersi di sfidarlo a quel modo. Le mareggiate minori le superava velocemente e con facilità; ma quando arrivava la famigerata sequenza di tre onde grandi, la velocità diminuiva, si manovrava mettendo la prua di tre quarti alle onde e si superavano ricevendo lo schianto di una di queste sulla coperta, spazzata dall'acqua da prora a poppa. Era il momento di massimo pericolo; i mozzi si aggrappavano al pavimento per non venire trascinati via dalla mareggiata. Una nottata orrenda. L'essere umano si riduceva a un fragile giocattolo in balla degli elementi. «Ancora tre virate e credo che riusciremo a doppiare capo Tres Montes!» disse il comandante, guardando l'orologio. «È ormai passata l'ora in cui doveva placarsi, e invece è addirittura peggio!» esclamò l'ufficiale di guardia. «La direzione del vento non cambia!» osservò l'ufficiale di rotta. La corvetta navigava di bolina dirigendosi verso il mare aperto, manovrando sicura malgrado il pericolo che stava affrontando. Alejandro, ormai bagnato fradicio, ebbe la conferma che era meglio stare fuori a rendersi conto del rischio che chiuso nella trappola per topi della sottocoperta. A un tratto si udi un fischio che attraversò gli scrosci d'acqua e le raffìche di vento, poi un ordine urlato: «Prepararsi alla virata di prua!» gridò il nostromo che comandava la squadra del trinchetto. Gli uomini agli alberi si misero in all'erta. «Virare di prua!» urlò una voce. «Cazzare le scotte di tribordo!» E altri ordini seguirono a questi. L'equipaggio schierato ai propri posti di manovra cominciò ad allentare e a raccogliere le cime delle scotte. La corvetta espose la poppa al vento e au- mentò la velocità. Quando la corsa in avanti raggiunse il culmine, il comandante, sul ponte di comando, urlò: «Barra a babordo!» E due timonieri si misero a girare con forza le caviglie della ruota, e la nave cominciò a virare. «Cazzare le scotte di babordo!» venne ordinato agli alberi. La Baquedano mise la prua al vento, diminuì di colpo l'andatura e le vele presero a sventolare come stracci appesi, con tale forza che sembrava si dovessero strappare. La nave si dibatteva tra le onde priva di spinta, senza una direzione. Erano istanti terribili; il momento più pericoloso della navigazione. Ben presto fiocco, controfiocco e trinchetta smisero di agitarsi e cominciarono a prendere il vento da tribordo, la corvetta virò a babordo, il resto della velatura si gonfiò gradualmente e la spinse di nuovo con vigore, inclinata, a mezzo controvento. I marinai e i mozzi, dopo aver teso e legato le scotte, tornarono a raggomitolarsi sul pavimento della coperta in attesa che quel supplizio finisse.
Ben presto Alejandro cambiò idea e pensò fosse
meglio morire riposandosi sottocoperta che patire il
flagello di quella nottata orrenda in coperta. Inzuppato
com'era, il freddo cominciò a impossessarsi del suo corpo di
quindicenne, e poco a poco scivolò in quello stato di
torpore che può sgretolare una volontà eroica e uno spirito
risoluto.
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