Copertina
Autore Furio Colombo
Titolo La fine di Israele
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2007, Pamphlet , pag. 128, cop.fle., dim. 14x21,3x1,2 cm , Isbn 978-88-4281-456-6
LettoreLuca Vita, 2007
Classe paesi: Israele , politica , guerra-pace , destra-sinistra
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Indice


Introduzione. Israele perché                  9


 1. Perché sto scrivendo queste pagine       13
 2. La fine di Israele                       24
 3. Guerra                                   42
 4. Pace senza pace                          46
 5. Bisogna decidere                         52
 6. I bambini di Cana                        57
 7. Come è successo                          60
 8. L'asimmetria del linguaggio              66
 9. Risate a Teheran                         70
10. La solitudine di Israele                 74
11. Dal lontano Medio Oriente                79
12. Babele                                   85
13. Le amicizie deboli                       91
14. Tre errori                               96
15. La sinistra se ne va                    102
16. Madre, moglie sorella
    (Voci delle famiglie degli ostaggi)     107
17. Carter e Israele                        111
18. La profezia di Benny Morris             115
19. La canzone proibita                     120
20. Due inquadrature                        124


 

 

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Pagina 9

Introduzione
Israele perché



Israele, parola di augurio e di promessa nei millenni di un popolo. Progetto politico nato dai Risorgimenti europei. Simbolo, forse il più netto e definitivo, della vittoria della libertà su fascismo e nazismo. Può diventare — all'improvviso — un soprassalto di paura? Può diventare la morsa di un angolo buio che può portarsi via — con Israele — ogni speranza di pace nel Medio Oriente e dunque nel mondo?

So di cominciare a raccontare una storia che a molti sembrerà rovesciata. Molti, che stanno nella destra ferma nel passato e nella sinistra con i piedi bloccati nei detriti della guerra fredda, pensano il contrario. Credono che Israele usurpi e occupi la terra d'altri e che lo faccia per due diverse, spregevoli ragioni. O perché gli ebrei spadroneggiano a nome dei bianchi ricchi e si sono inventati la Shoah come titolo di reclamo. O perché la Shoah adesso ha spinto le vittime di ieri a diventare i carnefici di oggi.

Israele — paese minacciato e solo — è sempre stato nella morsa del pregiudizio una sorta di immenso bagaglio che - unico nel mondo - questo stato, nato da appena quarantuno anni, è costretto a trascinare, giustificare, spiegare a ogni mossa, a ogni evento, a ogni aggressione. Israele adesso è minacciato fisicamente da una voglia diffusa di liquidazione del disordine nel Medio Oriente; un disordine diventato insopportabile, dopo il disastro americano in Iraq, la spinta della vendetta provocata da quel tremendo errore sul mondo arabo, i focolai di terrorismo che quella guerra ha tragicamente potenziato. E la paura di un mondo — Europa prima di tutto — che tende a tirarsi indietro, a non farsi cogliere nel mezzo. Lo stato dei fatti è disorientante. Israele, percepito come ricco e potente, è immerso nel mondo ostile della ricchezza petrolifera. Tutti sanno che l'Iran chiede la cancellazione di Israele. Ma non tutti sanno dell'Arabia Saudita, che diventa di giorno in giorno più ostile. Ha detto il re Abdullah, sovrano dell'immensa ricchezza saudita: «Io non sarò il Tony Blair dell'Arabia». La frase annuncia (lo dice il New York Times del 29 aprile 2007) molto più di un dissenso strategico. Nasconde, o meglio rivela, separazione netta dalla lunga striscia di sangue e di guerra che continua in Iraq; e indica i veri nemici: chi non sa finire la guerra, e chi ne resterà testimone. Gli americani, dopo lo spaventoso errore, torneranno a casa. Ma hanno agganciato Israele, che non può andarsene (se non lungo il percorso indicato dal presidente iraniano Ahmadinejad) e che resta il simbolo del nemico nel caos provocato da quella guerra.

C'erano due grandi obiezioni, quando è stata annunciata la guerra in Iraq. Una era fondata sul timore, poi tragicamente diventato realtà, della occupazione e del dopoguerra infinito e pieno di sangue. Ma un altro era il timore di rimuovere il più importante ostacolo alla spinta del nazionalismo fondamentalista iraniano. La guerra è stata una tremenda esplosione che ha fatto saltare ogni equilibrio e messo a nudo la solitudine di Israele. Non pochi, fra intellettuali e sinistra israeliana, lo avevano temuto e previsto. È facile ricordare che ciò che è accaduto in modo così errato e senza piani in Iraq, avrebbe dovuto essere il primo audace gesto per ridisegnare a colpi di forza tutto il Medio Oriente.

È noto che la destra israeliana ha visto con favore e mal riposta fiducia la decisione americana, dando anche l'impressione di condividere il tremendo progetto, per fortuna in via di cancellazione, della guerra preventiva e perenne. È chiaro che il crollo di quel progetto colpisce Israele, così come lo avrebbe colpito l'eventualità inimmaginabile di successo della guerra perenne.

Ma ha portato anche a un clamoroso malinteso – purtroppo non in buona fede — di molte sinistre nel mondo, certo in Europa, certo in Italia. Il malinteso è questo: definire Israele punta avanzata e complice dell'invasione americana, dunque rilasciando implicitamente una autorizzazione alla guerra contro Israele come guerra di resistenza.

Intanto, il mondo sta cambiando politica. Gli americani se ne andranno, lasciando un immenso disordine, mille focolai di vendetta. Israele — nato per essere simbolo della liberazione dal fascismo e testimone della democrazia in tutta l'area — viene lasciato solo da chi lo ha sostenuto (gli Stati Uniti) o si è astenuto (l'Europa). E ha un nuovo nemico, dopo il conflitto esploso nel cuore del Medio Oriente, l'Arabia Saudita, che aggiunge la sua ostilità (per ora muta o raramente dichiarata) a quella dell'Iran, di Hamas e di Hezbollah. Ma Israele è stato lasciato solo anche da chi un tempo ha combattuto contro le dittature delle leggi razziali, per la nascita della libertà, per la fondazione del nuovo stato libero degli ebrei.

È stato lasciato solo di fronte alla vendicativa ricchezza del petrolio, che non vuole uno stato palestinese ma una vittoria totale uguale e contraria al fallito progetto americano. Quanto alla sinistra del mondo — e, in particolare, alla sinistra italiana — gran parte di essa si ritira o si fa nemica. La storia si confonde o viene negata. Dunque il pericolo per la prima volta è imminente. A questo pericolo — la fine di Israele — sono dedicate, con urgenza e ansia, le pagine di questo piccolo libro.

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Pagina 16

Che cosa c'è di diverso dalle guerre del Risorgimento italiano che — una dopo l'altra — hanno aggregato pezzi di territorio che non erano mai stati «italiani», se non nel sogno di Petrarca e Leopardi (un sogno sionista?), strappandoli con sangue, violenza, odio, a vicini europei (con cui oggi l'Italia forma l'Unione Europea)? Che cosa c'è di diverso rispetto alla conquista di Roma — la nostra celebrata «breccia di Porta Pia» — che per duemila anni, proprio come Gerusalemme, era stata capitale religiosa e sede di un altro stato e di un altro governo che ha dovuto cedere alla forza e si è barricato nell'isolamento, nel non riconoscimento del governo italiano, nella scomunica per cinquant'anni, prima di ricominciare a vivere accanto e insieme, in un incrocio di diritti reciproci con lo stato italiano?

Se una diversità c'è, è che il Risorgimento italiano ha conquistato e dichiarato italiani pezzi di territorio austriaci e balcanici (in una Europa in cui tutti i confini erano stati stabiliti arbitrariamente dal susseguirsi di diversi poteri). Israele ha bensì realizzato un proprio autonomo sogno risorgimentale (detto «sionismo» o ritorno alla terra degli ebrei), ma ha occupato e preso possesso di una piccola parte di quella terra solo dopo un voto e una autorizzazione — bilanciata da autorizzazione equivalente stabilita per gli abitanti della Palestina — delle Nazioni Unite. E non ha tolto terra a un altro stato più di quanto l'India o il Pakistan lo abbiano tolto all'Impero britannico. I risorgimenti, il sionismo, i grandi movimenti di liberazione dal colonialismo e dalle persecuzioni sono sempre fondati sul reclamo di un territorio, sulla presa di possesso fisica di quel territorio, sulla ricerca di riconoscimento internazionale per quell'evento. E — fatalmente — su molto sangue e continui spossessamenti. Come l'India e il Pakistan, Israele ha ottenuto il riconoscimento internazionale (con l'eccezione — durata decenni — del Vaticano). A differenza dell'India e del Pakistan, uno dei due stati non ha mai accettato di esistere. O non gli è stato permesso dalle potenze arabe dell'area. Ed è cominciata la guerra infinita.

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Pagina 18

Nel mondo gli stati che si sono autoproclamati con la caduta o il ritiro del potere coloniale, o che sono stati riconosciuti o proclamati dalle Nazioni Unite sono quarantanove. Uno dei più piccoli è Israele. Occupa il 2 per cento di tutto il territorio del Medio Oriente e rappresenta l'1.3 per cento della popolazione del l'area. È il solo che non sia nato sovrapponendosi a uno stato già esistente, ma come uno dei due stati progettati e disegnati dalle Nazioni Unite su una ex provincia dell'Impero ottomano, ambita da Siria, Giordania ed Egitto, sotto l'amministrazione coloniale inglese e sotto il controllo di truppe inglesi. La creazione di uno «stato palestinese» è stata proposta per la prima volta dalle Nazioni Unite. Sarebbe stato il solo, insieme allo stato ebraico, a nascere in quell'area sotto l'egida delle Nazioni Unite e per voto dell'Assemblea generale, e non come decisione arbitraria degli ex dominatori coloniali (Inghilterra e Francia), come era accaduto per Egitto, Giordania, Siria, Libano, Iraq e Kuwait.

È difficile contestare le affermazioni che seguono: quando è nato lo stato di Israele non c'era uno stato palestinese. Uno stato palestinese è stato proposto per la prima volta contestualmente dalle Nazioni Unite nelle stesse dimensioni e con le stesse risorse di Israele e con la stessa data di nascita (1948). Ma è stato rifiutato dalle potenze arabe dell'area, che avevano voci e mezzi per fare la guerra e hanno deciso di farla usando i palestinesi.

Nessun paese arabo ha mai proposto la creazione di uno stato palestinese prima che ci fosse lo stato di Israele. E infatti, subito dopo la prima guerra di tutti i paesi arabi contro Israele, nel 1948, l'Egitto ha occupato per sé la striscia di Gaza, e la Giordania ha annesso tutta la parte a ovest del fiume Giordano, facendo diventare giordana una parte della popolazione palestinese e reprimendo – anche con violente azioni di guerra (Settembre nero) – ogni tentativo di affermazione nazionalista palestinese all'interno della Giordania. Se ci sarà – come desidera tutto il mondo democratico uno stato di Palestina, ciò avverrà perché c'è – e finché ci sarà – uno stato di Israele. La storia dell'area suggerisce che, senza lo stato di Israele, la Palestina sarebbe già stata dispersa da decenni (territori e popolazioni) fra tutti gli stati arabi confinanti.

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Pagina 29

Per sessant'anni Israele e il vicino non-stato palestinese sono stati quasi sempre in guerra. Ma quello stato di guerra, che ha conosciuto momenti di rischio estremo e uno spaventoso spargimento di sangue, – specialmente sangue di civili, sangue di famiglie e di bambini israeliani (con le ondate successive di stragi e di terrorismo) e di famiglie e bambini palestinesi (con rappresaglie, incursioni e azioni di guerra di Israele) – è stato anche segnato da improvvise schiarite di pace, a cui di volta in volta si è arrivati in tanti modi diversi, dallo sforzo dei politici all'intervento dei mediatori. Grandi mediatori sono stati gli Stati Uniti di Kennedy, di Carter, di Clinton, ma anche eventi come la Conferenza di Madrid del 1991 e gli Accordi di Oslo del 1993 (riunioni collegiali a cui erano presenti le due parti insieme agli stati ospiti in funzione di mediatori garanti) e anche tentativi di persone autorevoli ma senza potere, sia di parte palestinese sia di parte israeliana, come il gruppo di lavoro misto che ha portato agli Accordi di Ginevra nel 2003, forse il più dettagliato progetto di pace mai disegnato da parti interessate che non governano. Tutto ciò ha mantenuto viva, nonostante la guerra e le stragi, non solo la speranza, ma anche la percezione di una realistica via d'uscita.

Una volta esplosa la guerra dei mondi (lo hanno chiamato scontro di civiltà; ovvero tutto il mondo cristiano contro tutto il mondo islamico) quella via d'uscita non esiste più, si è spenta una luce, in qualche punto a metà strada, tra israeliani e palestinesi. Era una luce fioca, ma non c'è più.

E quando ascoliamo il nuovo vice primo ministro israeliano Lieberman parlare di «metodo ceceno» per risolvere la questione di Israele in pericolo, dobbiamo renderci conto realisticamente di due fatti altrettanto drammatici. Uno: Israele rischia di spostarsi su una destra di nazionalismo esclusivo, simile e simmetrica al nazionalismo irriducibile di Hamas. Due: Lieberman prende atto che i due (tremendi) modelli del mondo sono Putin e Bush, il cui insegnamento è fronteggiare ogni distruzione con più distruzione, in un'escalation che non conosce limiti. Compaiono sul fondo gli edifici scheletrici e svuotati di Grozny, già capitale della Cecenia, i bambini di Beslan, le donne stroncate dal gas misterioso nel teatro Dubrovka di Mosca. Il futuro si popola di una danza di scheletri che veniamo invitati a considerare come garanzia di salvezza, la strada giusta. Su quella strada Israele dovrà versare tutte le sue energie per un tremendo progetto: salvare la vita attraverso la guerra perenne. Israele come destra del mondo non può sopravvivere.

Ma in quella destra Putin-George W. Bush, Israele è stato spinto brutalmente e con forza da tre mosse tragiche: la decisione americana di spaccare il mondo in due parti (la faglia passa — esattamente — attraverso Israele); la decisione di una parte del mondo arabo — tra cui i palestinesi di Hamas — di votarsi al terrorismo, cioè di essere coprotagonisti dello scenario di guerra totale; l'abbandono e la repulsione della sinistra del mondo, soprattutto della sinistra europea. Quest'ultima è forse la mossa cruciale, quella che ha sbalzato Israele fuori e lontano dalla sua natura originaria di paese del sionismo socialista, patria degli ebrei senza patria, periodicamente scacciati da ogni altra parte del mondo, luogo di nascita della prima democrazia in Medio Oriente, un innesto delicato e difficile che aveva cominciato subito a dare frutti. Basti pensare al quasi immediato insediarsi e moltiplicarsi di missioni del giovanissimo stato di Israele in Africa (anni cinquanta, anni sessanta), ovvero alla scelta istintiva di essere il nuovo venuto del Terzo Mondo, non l'avamposto dei ricchi e dei potenti. Era il tempo narrato da David Grossman nel suo indimenticabile Vedi alla voce: amore, quando a tutte le famiglie dei giovani cittadini-pionieri veniva assegnato dal nuovo stato un «nonno» o una «nonna» fra gli scampati anziani giunti in quella terra senza nessuno. E i bambini, ascoltando le strane storie di quei «nonni» sconosciuti e assegnati dallo stato, fantasticavano intorno al senso della parola «campi».

Israele era tutto ciò che apparteneva alla sinistra antifascista e liberazionista del mondo. E quando si è verificato lo scontro durissimo tra gli arabi ricchi di tutto il petrolio del mondo e il nuovo fragile paese dei sopravvissuti allo sterminio, è bastato l'espediente, da parte degli arabi ricchi, di usare i palestinesi poveri e profughi come carne da macello, un antico espediente di tutte le guerre, che però ha funzionato. Ha fatto apparire la serie di conflitti — il cui vero scopo era la cancellazione di Israele — come guerre dei poveri contro la colonia dei ricchi. È stata una catena di guerre mediatiche fortunate che dura ancora, perché il cliché dell'ebreo ricco che dissangua la vittima povera veniva dagli zar di Russia e dalle polizie segrete polacche, per organizzare i pogrom ogni volta che occorreva offrire alla miseria un capro espiatorio. Quello stesso cliché — e l'invenzione odiosa della lobby ebraica che domina il mondo e fomenta le guerre — era stato seminato, raccolto e distribuito con cura dal fascismo e razzismo di tutta Europa, penetrando a fondo soprattutto gli strati popolari meno raggiunti dalla conoscenza della storia. E così gli ebrei italiani, per esempio, hanno partecipato alla Resistenza uno per uno, in quanto antifascisti e partigiani (dall'eroe tredicenne Franco Cesana a Primo Levi), ma la Resistenza non ha partecipato al sogno della nascita dello stato libero e democratico degli ebrei. E ancora oggi difensori tenaci della Resistenza italiana (tutti militanti della sinistra del nostro paese) non sanno e non vogliono sapere della brigata ebraica che — a nome del non ancora nato stato di Israele — ha combattuto per liberare l'Italia occupata dal nazismo.

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Vorrei fare un esempio clamoroso del vuoto che esiste nella sinistra italiana, quanto a percezione, conoscenza, giudizio sulla realtà, sulla vita e sulla politica israeliana. Sono i cosiddetti Accordi di Ginevra (2003), un tentativo di giungere alla pace e alla proclamazione di uno stato palestinese organizzato e condotto da non politici o ex politici di parte israeliana e di parte palestinese. Sono anni roventi, sta nascendo la seconda Intifada. Benché alla fine il tentativo sia risultato privo di sbocchi, la sua conoscenza ha una importanza cruciale per capire di che mondo stiamo parlando. Da un lato alcune delle migliori intelligenze israeliane, dal romanziere Meir Shalev al parlamentare di sinistra Yossi Beilin, da ex generali a ex capi del Mossad. Dall'altra, persona per persona, il meglio di una società palestinese nascente, arte, cinema, scienza. E anche personaggi che hanno avuto in passato rilevanti ruoli politici, ma che ora sono decisi a vivere in pace, stato palestinese accanto a stato ebraico.

È un evento che – se fosse stato conosciuto e discusso – avrebbe portato a sinistra notizie volta a volta sconvolgenti e destinate a cancellare i cliché. La prima è il dover riconoscere quanto esteso e autorevole sia lo sforzo di pace in un paese assediato da decenni come Israele. Una parte davvero importante della classe dirigente di quel paese non ha mai smesso di cercare la pace, anche quando le stragi sugli autobus erano eventi quotidiani.

Ma gli Accordi di Ginevra raccontano anche di una classe dirigente palestinese che non vuole combattere, non vuole kamikaze, non vuole governi corrotti come era quello di Arafat, né governi fondati sul terrorismo come quello di Hamas.

Sono stati in tanti, da una parte e dall'altra, a tentare la pace, fino al punto di disegnare insieme confini condivisi e zone «problema» da risolvere col tempo. Il fatto che i due governi si siano sottratti al confronto non sminuisce l'importanza che esista tra le due parti una volontà di pace. Su tutto ciò c'è sempre stato buio, a destra e a sinistra, dentro e fuori Israele.

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Ci si imbatte continuamente in fenomeni curiosi e non facili da spiegare. Per esempio è frequente la domanda-accusa contro Israele: come può essere democratico uno stato fondato sulla identità religiosa e la discendenza provata da un gruppo etnico? La domanda trova una interessante e intelligente risposta nel recente studio della giurista italiana Tania Groppi (università di Siena), dal titolo «L'assetto costituzionale dello stato di Israele» (2004). Dimostra la sostanziale laicità di fatto delle strutture giuridiche di quel paese, dove è sempre ammessa, per regolare la vita di ciascuno, la scelta fra la giurisdizione civile e quella religiosa (oltre al mantenimento in vigore di parti della legislazione anglo-araba che precede la fondazione dello stato di Israele). Però come non chiedersi perché le voci cattoliche, che si interrogano sulla democracità dello stato degli ebrei (messa in dubbio in quanto stato di una sola religione e di un solo popolo), non si pongono la stessa domanda per i paesi islamici, ma anzi invitano continuamente a un fervido dialogo che raramente interessa intrattenere con lo stato di Israele? Perché chiedono a Israele di non essere ebreo, pena il dubbio di democraticità, ma esigono che l'Europa «riconosca le sue radici cristiane», pena il non riconoscimento e la delegittimazione dell'Unione Europea? Perché dubitano della laicità-democraticità di Israele ma sono ostili alla laicità-democraticità della Repubblica italiana, che vorrebbero più aderente a un unico magistero religioso.

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In questa visione, che mette paura, si vede bene che Israele è solo (non c'è alcun gruppo di paesi, alle Nazioni Unite, di cui Israele sia parte), o male accompagnato. Gli fanno da scorta l'America di Bush che, con la dottrina dello scontro di civiltà ha divelto tutti i pur precari punti di equilibrio precedenti, e con la strategia della guerra preventiva liquida ogni progetto e persino speranza di pace. E offre al mondo islamico, anche il più moderato, ragione di ostilità, rancore, vendetta e reazione generalizzata che impediscono ogni gesto di buona volontà, da qualsiasi parte.

Gli fanno da scorta destre postfasciste di cui non è in discussione il passato ma un cruciale punto di autoidentificazione nel presente. Queste destre negano che abbia senso la contrapposizione fascismo-antifascismo e dunque cancellano la vera memoria della Shoah, trasformandola in rito e attribuendo tutto, anche il passato, ai nuovi nemici islamici. Gli fanno scorta opportunistica e utile personaggi, partiti e politiche che scelgono la guerra alla pace, le operazioni militari in luogo della politica e ammirano gli israeliani in quanto bravi soldati, senza alcuna percezione o visione o piano sul come arrivare a meno violenza, meno minaccia, meno pericolo, meno sangue, meno dolore in Israele e intorno a Israele. E nessun interesse, o ammirazione, per ciò che Israele riesce a essere nonostante la guerra.

A queste alleanze Israele è costretto dalla solitudine. La solitudine allarga gli spazi della destra — anche la destra più distruttiva e pericolosa — dentro Israele.

Questa solitudine è ciò che la sinistra europea della Resistenza e dell'antifascismo ha offerto alla nuova patria, all'unica patria degli ebrei dopo la Shoah.

Solitudine, ostilità, pregiudizio, accusa, sospetto, spesso giunti anche prima, anche senza rapporto con fatti condannabili. La guerra del Libano, dopo il rapimento dei soldati israeliani e migliaia di missili Hezbollah già pronti e predisposti prima del conflitto, era già un «crimine» prima dei bombardamenti e delle tragiche conseguenze.

La sinistra senza Israele è priva di un pezzo del suo valore, della sua originalità, della sua storia.

Israele senza la sinistra è spinto verso una destra di distruzione che porta più distruzione. E tutte le voci di passione e di civiltà dentro quel paese non basteranno a fermare la corsa tragica nella solitudine. A meno che intorno a noi e intorno a Israele non si trasformi il mondo, non finisca l'atteggiamento assenteista europeo, non cambi la strategia americana che sbatte nel vuoto e produce morti e prigioni credendo di colpire il terrorismo. A meno che la sinistra — in Italia e non solo in Italia — non abbia un sussulto, un risveglio, una rivelazione di ciò che è stata, di ciò che dovrebbe essere: testimone e garante di sopravvivenza e convivenza, per Israele e la Palestina democratica.

Questo, per ora, non accade. Mancano poche ore.

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7. Come è successo



David Grossman, l'uomo che ha appena perduto nella guerra in Libano il figlio ventenne, parla a una folla di israeliani che nessuno conosce nel mondo. Sono coloro che alzano muri, scatenano guerre e controllano una potenza invincibile. Essi hanno amici che ne esaltano la grandezza (che è soprattutto grandezza di forza) e nemici che raccontano continuamente le sofferenze di altri. Dunque la folla – quasi centomila persone, a cui in una piazza di Tel Aviv David Grossman parla il 4 novembre 2006, data dell'anniversario di una grande pena per Israele, l'uccisione di Rabin – non c'è nella realtà con cui ogni giorno, dopo ogni vicenda, fa i conti il mondo.

Le sue parole sono belle – diranno molti, per poter archiviare la pratica – però di un grande professionista della parola. Qualche espressione un po' disperata gliela hanno rimproverata anche i governanti del suo paese. David Grossman tiene conto di questo rimprovero brutale e risponde: «La tragedia che ha colpito me e la mia famiglia non mi concede privilegi nel dibattito politico. Ma ho l'impressione, che affrontare la morte di una persona cara comporti anche una certa lucidità. Riguarda la distinzione tra realtà e miraggio». Il miraggio è il nostro, che ci immaginiamo di essere presenti in quella piazza, di ammirare il coraggio e di piangere il dolore, di vivere la tragedia e di buttarci in mezzo la vita – o la ragione di vita – di Israele.

Siamo noi, siamo loro, siamo insieme intorno al dolore più grande. Sappiamo che cosa vuol dire convivere e condividere. Stiamo dicendo che siamo uniti e che siamo vicini. Stiamo dicendo a chi? Non c'è quella folla. Quell'evento nella piazza di Tel Aviv non è mai accaduto; David Grossman, pur celebrato, apprezzato e criticamente lodato, non ha mai parlato. Non fuori da quella piazza e non nel mondo. Il mondo era impegnato a sapere quel giorno (e il giorno prima, e il giorno dopo) dei carri armati israeliani che entravano senza pietà dentro Gaza. Nel mirino di potenti armi automatiche entravano e cadevano donne e bambini, indicati uno per uno e per nome, e visti dentro inquadrature televisive pronte per un tribunale internazionale del bene e del male, un tribunale che ha già deciso: condanna di un solo imputato, Israele.

David Grossman ha parlato come in quei sogni in cui la voce esce gridata, ma non si sente. Nessuno sa, nessuno si volta. Dice: «La morte dei giovani è uno spreco terribile, lancinante. Ma non meno terribile è che Israele sprechi non solo le vite dei suoi figli, ma anche il miracolo di cui è stato protagonista, l'opportunità rara offertagli dalla storia: quella di creare uno stato illuminato, civile, democratico, uno stato governato da valori ebraici universali. Uno stato che sia dimora nazionale, rifugio e nuovo senso dell'esistenza ebraica. Uno stato in cui parte essenziale dell'identità ebraica sia la completa uguaglianza con i suoi cittadini non ebrei». Nessuno commenta, nessuno ascolta. Non c'è nessuno in quella piazza di Tel Aviv e del mondo per riflettere, dividere il bene dal male, il giusto dall'ingiusto, l'errore dal gesto virtuoso della politica, la difesa dall'aggressione. Nessuno per stare accanto all'umanità ferita e confusa per dire: «Ascoltiamo una voce da Israele».

Colpi di mortaio e di missili continuano a cadere sulle case, le strade, i campi da gioco delle scuole dove c'è il paese chiamato Israele. Nel gesto di rivoltarsi e di spingersi avanti a cercare di bloccare quella continua pioggia di colpi, improvvisamente, come in una fiaba misteriosa e inspiegata, i cittadini e i soldati di Israele smettono di essere protagonisti infelici (infelici come i loro assalitori) di una delle settantanove guerre che insanguinano il mondo (alcune divenute genocidio che non è mai finito, come il destino delle donne e dei bambini del Darfur, per mano del Sudan, a quota ottocentomila morti). Quei soldati si spingono avanti per fermare un focolaio o catturare un comandante nemico, e questo non è mai una allegra avventura. Altrove si chiama «combattere per la patria», e si celebra con inni e monumenti, che tutti gli altri rispettano. Qui il misterioso evento è questo: giusto o sbagliato che sia il gesto che compiono, quei sette carri armati e quei cento soldati israeliani non sono più israeliani, una delle nazionalità che compongono lo strano e squilibrato luogo di convivenza detto «Nazioni Unite». Diventano ebrei. E tutto ritorna alla storia universale del mondo, non a un luogo ma a un destino, non a un conflitto locale, che ha il sangue, le crudeltà, gli errori e le sue lente, difficili, negoziate soluzioni. Diventa «ebrei contro tutti».

Una volta diventati ebrei della Storia, una storia vissuta e narrata tutta dalla parte cristiana, una volta che cala dai secoli il peso immenso e mai dissolto del giudizio che in epoche successive li ha scacciati dal mondo, del pregiudizio che — anche poco fa — ha creato discriminazioni tremende, come fanno i soldati israeliani, con le loro responsabilità, la loro missione, i loro limiti e i loro errori (e la loro vulnerabilità che diventa, nell'opinione pubblica, persino esilarante, quando non vincono tutto e subito), come fanno a muoversi? Per esempio, le truppe pakistane fanno strage di una madrassa, scuola coranica, uccidendo tutti i bambini di quella scuola. Per la stampa del mondo sono soldati in guerra. Per esempio, eserciti di bambini di dieci o dodici anni infestano le giungle di Birmania-Myanmar, un paese che è da vent'anni sotto una crudele dittatura militare e tiene un premio Nobel reclusa da decenni. Chiamiamo tutto ciò «vicende politiche del mondo». Per esempio, elezioni africane finiscono nel sangue (che vuol dire decine di villaggi sterminati, donne, bambini, vecchi, a opera di eserciti professionali e ben armati). Si tratta di «scontri fra i presidenti rivali», dovuti al fatto che entrambi reclamano la vittoria. Ma ogni passo di un soldato israeliano verso la sua missione di sopravvivenza (o la sua guerra sbagliata, o il suo errore) diventa simbolo immenso di qualcosa che non si può perdonare: gli ebrei uccidono.

Questo sfasamento produce una vertigine di comprensione e anche di informazione. Spiega il modo in cui sappiamo gli eventi. Dunque David Grossman — l'uomo che ha perduto il figlio di vent'anni in una guerra improvvisa, che gli israeliani spiegano come sopravvivenza, ma in cui gli ebrei hanno ucciso (a quel che ci dicono) solo bambini — non ha parlato, e la folla non c'era. Eppure ha detto: «Com'è successo? Quando abbiamo perso la speranza di poter vivere un giorno una vita migliore? E come è possibile che oggi noi rimaniamo a guardare come ipnotizzati il dilagare di una follia, della violenza, del razzismo in casa nostra?». Eppure ha detto: «Signor Olmert, si rivolga ai palestinesi sopra le teste di Hamas, si appelli ai moderati, a chi si oppone — come lei e me — ad Hamas e alla sua strada. Si appelli al popolo palestinese. Non si ritragga davanti a una ferita profonda, riconosca la sofferenza. Lei non perderà nulla, soprattutto non perderà Israele in un negoziato. La semplice compassione umana possiede la forza di un cataclisma naturale. Per una volta guardi i palestinesi non attraverso il mirino di un fucile o da dietro le sbarre chiuse di un check-point. Vedrà un popolo martoriato non meno di noi. Un popolo oppresso e senza speranza. È ovvio che anche i palestinesi sono responsabili del fallito processo di pace. Ma li guardi per un momento con occhi diversi. Non solo gli estremisti fra loro. Guardi la maggior parte di questo povero popolo il cui destino è legato al nostro, lo si voglia o no». Eppure ha detto: «Sappiamo tutti quante cose non dipendono da noi. Ci sono forze grandi e potenti che agiscono in questa regione e nel mondo — come l'Iran e come l'Islam radicale. Dipende da come agiremo noi, da chò che saremo. Qui non esiste destra o sinistra. Gli israeliani capiscono ormai quale sarà la conclusione del conflitto: questa terra verrà divisa, sorgerà uno stato palestinese. Perché la dirigenza politica non lo vede subito, adesso? Forse per questo la maggioranza di noi ha accettato con indifferenza il rozzo calcio sferrato alla democrazia con la nomina di Avigdor Lieberman a ministro. Un potenziale piromane a capo dei servizi antincendio».

Eppure David Grossman, padre di un ventenne morto in guerra, ha detto: «Mi appello a tutti, ai reduci della guerra che sanno il prezzo del prossimo scontro armato, ai sostenitori della destra, della sinistra, ai religiosi e ai laici. Fermatevi un momento sull'orlo del baratro, pensate a quanto siamo vicini a perdere tutto quello che abbiamo creato». Ma Israele è solo, lontano come se fosse in un contenitore stagno, abbandonato in un'altra parte del mondo. Può colpire ed essere colpito. Ma non può essere raggiunto da alcuna solidarietà, non ha vicini, non ha alleati. L'America, con Bush, è un alleato di guerra, non di pace. Israele ha un triplo cerchio di nemici. Un primo cerchio sono i palestinesi militanti, non tutti e forse non tanti. Ma il secondo cerchio è il mondo arabo della ricchezza del petrolio, che va e viene nei suoi rapporti cordiali e d'affari con il mondo che chiamiamo «occidentale», e soprattutto con gli Stati Uniti. Il terzo cerchio è il nuovo terrorismo islamico, che la guerra in Iraq e la politica di Bush ha reso più virulento e più imprendibile. In apparenza ha come obiettivo il mondo. In apparenza combatte l'America anche nel suolo americano. In realtà, come ci guida a pensare il presidente iraniano Ahmadinejad, il vero nemico — forse il solo nemico — è Israele.

Ma chi è amico di Israele? Chi è disposto a sostenere il suo diritto a esistere? David Grossman ha parlato a una piazza vuota, in un mondo vuoto di attenzione e di simpatia. I media hanno già dimenticato le sue parole, per quanto severe e impegnate e «di sinistra». Anzi, è la sinistra che le ha dimenticate per prima. Forse non le ha mai sentite. Ma sa tutto di ogni battaglia e di ogni checkpoint e di ogni punto del muro, ed è pronta a citarli al primo dibattito, come prova che i criminali nazisti sono tornati. Israele è in pericolo.

David Grossman vede il pericolo e supplica il suo popolo, i suoi governanti, elenca gli errori, si batte da uomo libero per i suoi nemici. Nessuno dei suoi nemici si batte per lui. E gli astanti osservano con malanimo il paese degli ebrei che sparano. Per sopravvivere? Importa di più l'elenco dei crimini. Quasi ognuno di noi ne possiede la lista. L'elenco dei pericoli di Israele (il più grande è scomparire) a quanto pare non ci riguarda.

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