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| << | < | > | >> |IndiceRaffaello Bertieri Come nasce un libro 11 Gerolamo Boccardo Libri: industria e commercio 15 Matteo Cuomo I libri nel Duemila 23 Umberto Dorini La crisi del libro 33 Goffredo Fofi Il menabò 37 Carlo Linati Amico libro 41 Giovanni Papini Le disgrazie del libro in Italia 47 Mario Praz La borghesia e i libri 57 Americo Scarlatti I buoni libri 61 Niccolò Tommaseo De' libri da scegliere e da ristampare 71 Pensieri sul libro 79 Risposte al questionario 99 |
| << | < | > | >> |Pagina 15LIBRI (COMMERCIO DEI) — (Economia politico-industriale). – Sia che consideriamo l'immenso influsso che esercita sullo stato intellettuale delle nazioni e sopra il pubblico e privato costume, – sia che riguardiamo ai colossali valori che rappresenta e che pone in circolazione, non che agli interessi di autori, editori, librai, lavoranti che mette in azione, – sia che, finalmente, osserviamo alcuni peculiari caratteri che da tutte le altre industrie la distinguono, e ad alcuni speciali vizi che la infettano, l'arte libraria deve in peculiare modo cattivarsi l'attenzione dell'economista. Qualunque sia l'opinione che l'erudizione e la critica preferiscano di adottare circa all'origine della scrittura ed all'invenzione dell'alfabeto, certo è però che dal giorno in cui fu all'uomo possibile di concretare ed esprimere materialmente la parola ed il pensiero, nacque e si fece potente, negli intelletti curiosi e ricercatori, il bisogno di appropriarsi i concetti e le cognizioni altrui. E siccome ad ogni consumo abbastanza attivo corrisponde sempre una produzione acconcia ad appagarlo; siccome ogni domanda provoca un'offerta correlativa: così dovette tosto sorgere una classe d'uomini occupata a soddisfare il bisogno dei lettori. I benemeriti sforzi di alcuni editori e tipografi, fra i quali citeremo i sigg. Pomba, la Società Tipografica - Editrice Torinese oggi diretta da quel valente e benemerito che è il cav. Chiantore, i Fratelli Treves, i sigg. Lemonnier, Barbera, ecc., vanno da parecchi anni rialzando l'arte tipografica italiana dallo stato d'inferiorità, in cui era pur troppo caduta. E già notevolissimi sono i progressi. che dall'epoca, in cui pubblicavamo la prima edizione di questo Dizionario, siamo lieti di notare in questa grande industria. Pur tuttavolta ella è ancora lontana dall'alta meta, come apparve manifesto nella Esposizione mondiale di Vienna del 1873, i cui giurati si esprimono così nella loro Relazione: «L'arte della stampa, la cui origine è in grandissima parte, quasi fuori di dubbio, rivendicata all'Italia, sempre mantenne nel paese nostro gloriose tradizioni, ed oggi costituisce, oltre che uno dei più fiorenti commerci del mondo, anche uno dei principali fattori e dispensatori di civiltà. Ma come accadde di tutte le grandi invenzioni, alle quali la prima scintilla sia stata data dal genio italiano, anche quella che registra i nomi onorandi di Panfilo Castaldi, di Aldo Manuzio e di Giambattista Bodoni, ha valicato le Alpi ed il mare, e di là s'è fatta maggiore nel suo incremento a vantaggio del vivere comune, per opera delle altre nazioni. Così alla Mostra universale di Vienna ci è toccato cedere la palma della vittoria alla Francia, alla Germania, all'Austria, all'Inghilterra e alla Russia, e contentarci dello sterile e misero vanto delle nostre glorie passate.» Del quale doloroso fenomeno investigando le cagioni, noi ne troviamo quattro principali: 1. Condizioni economiche-politico-sociali del paese. — L'offerta accorre là dove è sollecitata il più energicamente dalla domanda. Ora in un paese dove i lettori scarseggiano, non possono essere né molti né buoni gli autori, né ricchi né intraprendenti né intelligenti gli editori ed i librai. E pur troppo, nella civile Europa, l'Italia è uno dei paesi ove meno si legga. L'ignoranza delle moltitudini non è, a gran pezza, la sola cagione, che mantenga sì scarso il numero dei lettori; ché le moltitudini leggono poco o nulla in tutti i paesi. Ma in Italia le classi ricche e medie non hanno per anco raggiunto, o forse meglio, hanno perduto quell'amore del libro e della lettura, che sollecita invece le classi culte ed agiate di Francia, d'Inghilterra e di Germania. Non vi ha palazzo né castello, anco nelle più remote contee della Gran Bretagna, il cui signore non vada superbo di ornare la sua library di numerose e scelte collezioni delle opere più pregiate. Domandate invece, in qualunque città dell'Italia, ai librai quanti volumi all'anno comprino presso di loro i più doviziosi patrizi, i banchieri e commercianti opulenti, e sentirete quale risposta!... Il giornale ha ucciso il vibro; in nessuna contrada ciò è tanto vero quanto in Italia, dove sciaguratamente i buoni giornali sono eccezioni di eccezione, e dove pullulano con sì sciagurata fecondità i fogliami immondi, apostoli e propagatori dello scandalo e della immoralità. Il romanzo illustrato (cattiva traduzione, per lo più, dei peggiori racconti francesi) è venuto a far lega con le gazzette in questa guerra al libro. Finché l'Italia rimase divisa in più Stati, le censure preventive, le vessazioni doganali, le contraffazioni e le ruberie letterarie e librarie opponevano insormontabili ostacoli ad una industria tipografica, che rimaneva essenzialmente locale, e quindi tisica e stentata. E se oggimai queste difficoltà e queste sciagure sono fortunatamente, almeno per la massima parte, cessate, l'influenza loro fu troppo lunga e profonda, perché, nei brevi anni che sono trascorsi dacché scomparvero, abbiano potuto finora sanarsi le piaghe dell'industria libraria. [...] Gerolamo Boccardo, Dizionario universale di economia politica e di commercio. Milano, Treves, 1875-77 | << | < | > | >> |Pagina 37Che cos'è un menabò, parola stramba e misteriosa, da addetti ai lavori editoriali o da esperti di gerghi e dialetti? I dizionari ci spiegano trattarsi di una contrazione di «mena buoi», e far parte dei termini professionali dei tipografi lombardi, una parola nata chissà quando, e trasferita col tempo all'uso della categoria e delle categorie affini (oggi riunite nel sindacato dei poligrafici) in tutt'Italia. Si tratta dunque di qualcosa che deve servire a tirarsi dietro qualcos'altro: caratteri, parole, righe, pagine. Ma perché buoi? Forse, concretamente, perché i tipografi che hanno inventato questa suggestiva e musicale parola avevano alle loro spalle un solido passato contadino, e erano portati a paragonare le due diverse fatiche: la pesantezza del tirar buoi nel campo a tracciare solchi, la pesantezza dei materiali tipografici. Le parole viste non da chi le scrive ma da chi le compone, trasferendole dal manoscritto alla pagina stampata, viste dalla parte dell'indispensabile mediatore tecnico per il quale le parole non sono «tra noi leggere», e sono più che «pietre», sono piombo. La leggerezza fantastica che la parola menabò può suggerire ai profani, nasconde così un significato pesante e magari rozzo: come dire che la poesia e la teoria hanno comunque bisogno, nel loro sforzo di comunicazione, di una mediazione terrestre e materiale, che le riporta a una dimensione sociale, tecnica, industriale. Il menabò è però anche la prova, il libro e la pagina preparati e non scritti, lo spessore del volume e la qualità della carta, il taglio delle pagine e l'accuratezza della legatura: ancora cose concrete e materiali. Ed è anche - altra ontraddizione felice - il fascino della pagina bianca, dello spazio definito e pure aperto, da riempire. Un invito a riempirlo, a fare di una possibilità una realtà, a dar forma a pensieri e fantasie, a renderli visibili e comunicabili. È un'avventura, certo soprattutto privata ma che può anche non esserlo. Pensieri e aforismi; versi, articoli e saggi; racconti e romanzi; disegni figurativi e astratti, o scarabocchi; appunti di riunione o di biblioteca o di lezione; conti e cifre; parole e antiparole, significative o prive di senso, legate e sciolte, tristi o allegre: per ognuno a suo modo e secondo il momento. Si tratta, è evidente, di una comunicazione privata (anche se trasferibile, nella lettura che altri pochi ne possono fare se si ha voglia di fargliela fare); e quindi, soprattutto, di una sorta di diario, forse di sfogo. Ma chi impedisce di fare di questo brogliaccio, se si aspira a dare una forma a ciò che in esso vi si riversa, anche l'abbozzo, la prova, verso qualcosa di più definitivo? Oggi, la riappropriazione della scrittura è qualcosa di sentito da molti, da tanti: si diffonde il bisogno di esprimere le proprie angosce e le proprie fantasie, le proprie disperazioni e le proprie speranze, il proprio bisogno di comunicare a altri ciò che si pensa di essere e si pensa di aver capito, ciò che si è vissuto, o che si vorrebbe aver vissuto, o che si vorrebbe vivere. Perché dunque non ipotizzare che le parole di cui queste pagine bianche possono riempirsi non debbano anche essere interessanti per gli altri, e cercare con gli altri uno scambio, far diventare anche lo sfogo privato un momento di riflessione di tutti? So bene che qui cominciano le vere difficoltà. Ma, ne sono convinto, le strade si possono tracciare, le difficoltà possono essere non tutte insormontabili, le vie della comunicazione con gli altri, a volerle davvero cercare, possono essere trovate. Goffredo Fofi | << | < | > | >> |Pagina 61Ho sempre pensato, e ho avuto spesso l'occasione di constatare, che per farsi un'idea precisa del carattere e dell'anima di un individuo che non si conosce, nulla havvi di meglio che dare uno sguardo ai pochi o molti libri da esso posseduti. Dimmi ciò che leggi e ti dirò chi sei... E se uno mi viene a dire che dei libri non si cura affatto, e non sa che farsene, e non ne tiene, io rispondo senz'altro con la massima sicurezza che è una bestia, a meno che, caso rarissimo, ma che può qualche volta accadere, egli non sia un santo, poiché se è vero che scopo essenziale della nostra vita terrena è la nostra ascensione intellettuale e il nostro spirituale perfezionamento, essendo i libri principalissimo strumento per potere a ciò riuscire, soltanto i santi possono farne senza, avendo essi scelto per raggiungere lo stesso scopo una via più aspra e difficile, ma forse più sicura. Tuttavia capita molto sovente di imbattersi in persone che, o per ignoranza o per snobismo, non si vergognano affatto di rivelarsi dispregiatori del libro al quale imputano mille mali, tanto che l'antico Callimaco, che pure fu bibliotecario in Alessandria, soleva dire: «Un libro piccolo vale molto più di un grosso volume, perché contiene minor numero di sciocchezze!». A siffatti spregiatori del libro io auguro semplicemente che capiti qualche cosa di analogo a ciò che avvenne a Benvenuto Cellini, il quale non solamente sbeffeggiava i bibliofili, ma persino si meravigliava che vi fosse chi prendesse diletto a qualsiasi lettura. Quando a Benvenuto capitò di essere imprigionato e rinchiuso in Castel Sant'Angelo, e quando dopo parecchi interminabili giorni di terribile noia poté avere dei libri si immerse nella loro lettura. Erano quei libri le Cronache dei fratelli Villani e la Bibbia, libri in verità non divertentissimi, ma dalla cui lettura, alla quale si diede col massimo fervore, ricavò tale svago e tanto sollievo e conforto da doversi ricredere e convertire anche lui al culto del libro. [...] Ma quali sono dunque i migliori criteri per poter scegliere quei pochi libri di cui nessuno dovrebbe mancare di provvedersi? Prima consiglio: guardarsi anzitutto dall'acquistare troppi libri. Vi sono molti i quali, credendo di figurare quali studiosi e dotti tengono più alla quantità che alla qualità senza neppure accorgersi che gli estremi si toccano e che il troppo e il nulla si equivalgono. Essi ignorano ciò che a questo proposito lasciò scritto Seneca nel trattato che dedicò alla Tranquillità dell'anima (IX, 9): «Nessuna spesa è più nobile di quella che si fa per l'acquisto dei libri, ma nessuna spesa è meno giudiziosa di quella fatta per l'acquisto di troppi libri. A che serve una enorme quantità di volumi, dei quali, nella brevità della vita, si abbia appena il tempo di leggere i titoli? Meglio leggere e rileggere pochi autori eccellenti che leggicchiarne migliaia». E nella seconda delle sue Lettere a Lucilio raccomanda all'amico: «Fa una scelta di buoni autori e contentati di essi per nutrirti del loro genio se vuoi ricavarne insegnamenti che ti rimangano. Voler essere dappertutto e come essere in nessun luogo. Non potendo quindi leggere tutti i libri che puoi avere, contentati di avere quelli che puoi leggere». Questi consigli furono ripetuti in tutte le età da tutti i savi. [...] Americo Scarlatti (Carlo Mascaretti), Et ab hic et ab hoc: Curiosità bibliografiche. Torino, Utet, 1932 | << | < | > | >> |Pagina 79ANONIMO
Grosso libro, gran male.
ARTAUD
Tutta la scrittura è
cochonnerie.
AUDEN
Alcuni libri sono immeritatamente dimenticati; nessuno è ricordato
immeritatamente.
BACONE
Alcuni libri vanno assaggiati, altri inghiottiti, pochi masticati e
digeriti.
BENJAMIN
Il Rinascimento esplorava l'universo, il barocco le biblioteche.
La sua riflessione si risolve nella forma del libro: «Il mondo
non conosce libro più grande di se medesimo; la cui parte più
nobile è però l'uomo, al quale Dio, invece che un bel frontespizio,
ha messo in testa la propria incomparabile effigie, rendendolo,
oltre a ciò, compendio, nucleo e pietra preziosa delle altre parti
di questo grande libro dei mondo» (Samuel von Butschky). Il
«libro della natura» e il «libro dei tempi» sono oggetto della
riflessione barocca. In essi questa riflessione trova ciò che è riparato e
coperto.
BENJAMIN
«Perché colleziona libri?» Nessuno ha mai esortato i bibliofili
a riflettere su se stessi, con una domanda del genere? Come
sarebbero interessanti le risposte, almeno quelle sincere! Poiché
soltanto i non iniziati possono credere che anche qui non ci sia
qualcosa da nascondere e mascherare. Orgoglio, solitudine, inasprimento — è
questo il lato negativo di certe nature di collezionisti così coltivate e
felici. Di quando in quando ogni passione rivela i suoi tratti demoniaci; la
storia della bibliofilia può testimoniarlo più di ogni altra.
BORGES
Il libro è un'estensione della memoria e dell'immaginazione.
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