Copertina
Autore Michela Comba
Titolo Un grattacielo per la Spina
SottotitoloTorino 6 progetti su una centralità urbana
EdizioneAllemandi, Torino, 2007 , pag. 176, ill., cop.ril., dim. 24,5x34x2 cm , Isbn 978-88-422-1499-1
CuratoreMichela Comba, Carlo Olmo, Manfredo di Robilant
LettoreGiorgia Pezzali, 2008
Classe architettura , urbanistica , citta': Torino
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Indice


    ENRICO SALZA
  7 Prefazione

    CARLO OLMO
  9 Un grattacielo urbano

    ANTONIO DE ROSSI
 13 Dalla cittadella dei servizi alla cittadella della conoscenza

    MICHELA COMBA
 19 Renzo Piano Building Workshop. Il vento della città

 33 Tavole a colori

    FRANCESCO MONTAGNANA
 65 Atelier &Fi; - Hiroshi Hara. Σ21 come progetto dell'aria

    MICHELE BONINO
 73 Estudio Lamela. L'organizzazione come progetto

    MANFREDO DI ROBILANT
 83 Studio Daniel Libeskind. Grattacielo come cristallo

    LUKA SKANSI
 93 MVRDV. Un gioco di sovvertimenti

    CATERINA PAGLIARA e EDOARDO PICCOLI
101 Dominiga Perrault Architecture. Dopo la torre di Cartesio

111 Tavole a colori


 

 

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Pagina 9

Un grattacielo urbano

Carlo Olmo


La consultazione a inviti ripropone il topos forse più antico della storia dell'architettura: l'incontro tra committenza e progettisti. Lo fa in maniera esplicita nel caso della nuova sede di Intesa Sanpaolo, perché la committenza ordina e definisce la sua domanda attraverso un Documento preliminare ricco di sfumature. È possibile, utilizzando in filigrana i materiali per la consultazione, provare così a leggere come alcuni studi di architettura internazionali hanno interpretato (o falsato) le singole questioni e l'insieme della domanda.

Indubbiamente è l'immagine il terreno su cui tutti, diversamente, rispondono. I sei gruppi selezionati lavorano (ad eccezione del RPBW) staccando immagine e architettura, sino all'ossimoro dello studio MVRDV, per il quale l'immagine è architettura. Una sovrapposizione che l'edificio alto vive in diverse stagioni della sua storia e che ha, in realtà, radici più generali. La grammatica degli immaginari metropolitani, di cui il grattacielo è l'icona più ricorrente, non è stata quasi mai approfondita storiograficamente. Le immagini sono ancora images-atomes, che misconoscono i contesti di argomentazione critica nei quali si costruisce la loro portata semantica. Anzi, l'edificio alto finisce con il connotare di per sé la metropoli. Ed è anche per questo che la migrazione dei simboli appare oggi tanto banale proprio sugli edifici alti, quanto diffusa e in grado di omologare luoghi e parti di città.

Una criticità che si legge in trasparenza nelle architetture proposte. I progetti, salvo quelli di RPBW e di Perrault, sono convenzionali nel rispondere alle domande sulla distribuzione, mentre riservano la ricerca (e la sorpresa, alle volte paradossale) alle scelte volumetriche. I progetti, proprio su questo terreno, non solo sono autoreferenziali (continuano il lavoro sugli edifici alti già portato avanti dagli studi), ma nell'ansia della novità (è il caso di Libeskind, oltre che di MVRDV) perdono la scala urbana e le invenzioni diventano plastiche o figurative. Una ricerca che porta a trascurare un'altra specificità della domanda.

Nel Documento preliminare si cerca e si crea una genealogia dell'edificio bancario a Torino. In realtà nessuno dei progetti presentati alla consultazione dialoga con questa tradizione. Sono progetti/contenitore, legati a una tradizione del grattacielo. L'ipotesi che possa esistere una forma possibile per un edificio alto sede di una banca, non è presa in considerazione. Ma non solo. Le forme che ha assunto oggi l'internazionalismo in architettura non omologano unicamente le tipologie ma anche le pratiche (progettuali come linguistiche), realizzando quasi - ed è una contraddizione non irrilevante nella congiuntura storica che stiamo vivendo - per questa strada l'autonomia tanto ricercata dell'architettura. Un'autonomia che si gioca tutta al di fuori del rapporto con la funzione, com'era invece nella tradizione modernista che ha attraversato tutto il Novecento.

L'elemento più interessante presente, ed esaltato nel progetto preliminare di RPBW, è però un altro. La costruzione di un edificio alto con le caratteristiche di sostenibilità richieste (e progettate) torna a proporre l'architettura come terreno primario dell'innovazione di processo e di prodotto, ma anche come occasione per una crescita della ricerca, del sistema delle imprese, delle professioni, volano che le Olimpiadi non sono riuscite a far decollare a Torino. Un'architettura diventa portatrice di innovazione quando una domanda sociale (in questo caso la sostenibilità ambientale) impone soluzioni costruttive, impiantistiche, distributive e urbane non codificate e ripetitive, aprendo la strada a sperimentazioni che coinvolgono anche la «forma» di quell'arichitettura. È un'innovazione che lega tecnologia e società, come pochi altri processi e prodotti sono in grado di fare.

Le risposte dei progettisti sono diverse. C'è chi, come Perrault, lega sostenibilità e sicurezza o chi come Hara arriva a radicalizzare questo item, sino a far diventare la naturalità, la regola univoca del progetto. Di fondo, e un po' paradossalmente, vista la scala dell'intervento, proprio un grattacielo diventa così l'architettura che meglio materializza la criticità di ogni progetto urbano, l'impossibilità di continuare a declinarne la storia come produzione di artefatti, in qualche misura indipendenti dalle regole (oggi drammaticamente riferite a l'ambiente) del contesto in cui va a inserirsi.

Molto più complesse da leggere sono le risposte dei progettisti alle domande più ricche e documentate che il Documento preliminare propone: la possibile genealogia degli edifici alti a Torino e il contesto urbano. Sono due domande «costruite» attraverso la storia della città. Un approccio difficile, se non quasi estraneo a culture sincroniche nei modelli culturali, non solo operativi.

Il percorso che porta a legittimare la scelta di un grattacielo a Torino, ha topoi riconosciuti, la Mole Antonelliana o la Torre Littoria, ma poi, anche senza renderlo esplicito, disegna quasi una vocazione del luogo, scelto per la sede della Banca. Una vocazione fatta di architetture - da quella di BBPR in piazza Statuto, al palazzo Rai di Porta Susa, al vicino edificio alto di Ottorino Aloisio -, di progetti (la seconda torre che dovrebbe fronteggiare quella della Banca), di immaginari (quello del piano del 1946 di Astengo, del concorso per il Centro direzionale del 1963), di grandi lotti, come quelli delle Carceri Nuove, delle Officine Grandi Riparazioni, del Politecnico.

Una genealogia complessa che il viale della Spina ordina e rende allo stesso tempo più problematica: quasi una sequenza di tasselli in un domino che manterrebbe le regole della città di fine Ottocento che quel jeu d'échelle costruì. I progetti, salvo quelli di RPBW e di Estudio Lamela, non si pongono il problema di interpretare né quella domanda né il problema fondamentale della densificazione urbana che ne consegue. Tutti i progetti rispondono infatti alla domanda, espressa soprattutto dalla città, di rendere pubblica la parte a terra della torre, ma solo Piano e Lamela, in realtà, si propongono di fare dell'architettura un'occasione di arricchimento di funzioni pubbliche e non la ratifica di una parte di città che vive di luoghi difesi, protetti e autoreferenziali.

Un problema che la storia dei luoghi enfatizza. Il Documento preliminare ricostruisce una minima storia urbanistica della città, per arrivare a coglierne il valore strategico nella trasformazione di quell'area di Torino, che il Piano regolatore di Gregotti e Cagnardi sanciva. I processi di trasformazione urbana si stanno in realtà compiendo in forme e tempi diversi da quelli immaginati, rendendo ancor più importante non il tipo architettonico (il grattacielo) ma la sua capacità di accelerare il processo di rottura delle grandi parcelle e l'integrazione urbana che ne dovrebbe conseguire. Un'esigenza che appare ancor più evidente, se lo sguardo va al di là del viale della Spina. Dietro il grattacielo vi è la zona certamente più interessante e delicata di isolati liberty di Torino. Davanti, la città eclettica, al di là della sua maglia urbana, costruisce alcuni dei blocks più sofisticati, sia per distribuzione sia per apparati decorativi di tutta la città di tardo Ottocento. Un tessuto urbano ricco di architetture rese anonime da una storia dell'architettura costruita sulle eccezioni, che rende questo progetto ancor più delicato e interessante, dal punto di vista urbano.

Problemi complessi che solo un dialogo aperto tra progetto che si precisa, città e cittadini potrà affrontare e risolvere. Il RPBW teorizza da sempre la densificazione attraverso edifici che sappiano svolgere ruoli urbani. E il Lingotto testimonia, proprio a Torino, come questo possa avvenire. La scommessa in questo caso è più ardua. La zona è per ora un domino di architetture monofunzionali, rette da una rete infrastrutturale: quasi una citazione della ville contemporaine di Le Corbusier. La città densa, intreccio e rete di relazioni, funzioni, incontri, tempi e culture, è davvero da realizzare. Ma se il progetto dello studio RPBW procederà com'è delineato nel preliminare, questa sarà un'occasione per «costruire» la città, in una zona la cui deriva sembra essere un'altra.

Ma questa è la storia dei processi, dei cantieri, delle decisioni, dei sogni e delle fattibilità insieme, la storia più affascinante da vivere (ancor prima che da raccontare), e di cui la Consultazione è un primo, necessario atto.

La committenza ora dovrà, al di là della scelta operata, «denudare il progettista», perché l'architettura realizzata materializzi al meglio i valori tratteggiati nel Documento preliminare. E con la committenza, la città. Sperimentare un'architettura che si propone come luogo di un'innovazione insieme tecnologica e sociale, decisionale e urbana, è davvero una sfida da accettare e, possibilmente, da portare a termine.

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