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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione Ma come fanno i marinai. Storie di donne in quattro racconti di Conrad di Richard Ambrosini 9 Amy Foster 23 Domani 63 La locanda delle due streghe: una scoperta 103 Il piantatore di Malata 143 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Józef Teodor Konrad Korzeniowski nacque nel 1857 a Berdicev, una cittadina ucraina nota perché ospitava la seconda grande comunità ebraica dell'impero zarista. Entrambi i genitori appartenevano alla piccola nobiltà polacca ed erano impegnati nella lotta clandestina per l'indipendenza della Polonia; in seguito all'arresto del padre, nel 1861 l'intera famiglia dovette partire per l'esilio in un piccolo villaggio nella Russia più remota, dove contrassero la tubercolosi che li portò alla tomba, lasciando il figlio orfano all'età di undici anni. La nonna materna l'accolse nella sua casa a Cracovia, allora sotto il dominio asburgico, e lo zio divenne il suo tutore. Mandato a frequentare il miglior liceo cittadino, dove ricevette un'ottima istruzione, in parte in tedesco, il ragazzo decise però di abbandonare gli studi classici e chiese di poter andare in Francia, da sempre patria d'elezione di tanti giovani polacchi. A stupire i suoi familiari fu però l'intenzione manifestata dall'adolescente appena sedicenne di diventare marinaio, cosa assolutamente inconsueta in una nazione priva di una sua marina, ma realizzabile nel suo caso perché lo zio poteva disporre a Marsiglia di una rete di amicizie in grado di aiutare l'amato nipote. [...] Ecco perché, tra i tanti vantaggi dell'essere italiani, c'è la possibilità di tributare ammirazione e rispetto a quello che è uno dei nostri autori più amati (l'Italia è l'unico paese al mondo a poter vantare due edizioni complete delle sue opere, pubblicate da Bompiani e da Mursia), senza che nessuno senta il bisogno di sminuzzare la sua opera, creando ossessivamente classifiche e distinguendo tra opere maggiori e minori – quali i quattro racconti inclusi nella raccolta riproposta da Editori Riuniti. I lettori italiani sono quindi potenzialmente nella posizione di cogliere la lezione più importante della narrativa di Conrad, e cioè che non esistono una tematica, un'ambientazione, o anche una forma narrativa tipicamente conradiane, mentre di converso non c'è una pagina della sua opera di cui non sentiamo che l'avrebbe potuta scrivere solo lui, per tanti motivi diversi: la bellezza di una prosa unica perché, come notò Virginia Woolf, a sedurlo, della lingua inglese, non erano stati i monosillabi germanici privilegiati dai parlanti ma le sonorità magniloquenti proprie delle radici latine della lingua; il formalismo di una scrittura così poco idiomatica ma così precisa, che si articola in paragrafi che non si concludono mai senza che il pensiero non sia stato completato; quel distacco da conservatore pessimista sulle capacità di redenzione dell'animale a due gambe, puntualmente smentito dalla compassione di fronte a ogni manifestazione del tragico quale si rivela in vicende oscure, lontane dall'occhio del mondo, e di cui nessun altro si cura; oppure, il ripetersi di eventi inattesi di fronte ai quali, puntualmente, il personaggio si scopre impreparato, svuotando così ogni nostra certezza in noi stessi. O infine la scena su cui fa muovere gli uomini e le donne, spoglia di ogni orpello sentimentale, perché l'occhio dell'autore è concentrato su istinti e meccanismi primordiali. È quest'ultima la problematica più misteriosa della narrativa conradiana, perché nei romanzi l'autore la pone in ombra, incentrando le trame sui protagonisti maschili e lasciando invece sullo sfondo il sacrificio – il martirio – delle figure femminili, quasi esso fosse un effetto secondario dell'intreccio. Ma così non è, perché l'intento di Conrad non era di delineare la psicologia dei personaggi quanto invece di far sentire al lettore la loro umanità, come scrive nella nota introduttiva all' Agente segreto, riferendosi alla moglie dell'agente. Ecco perché i racconti qui contenuti, Amy Foster, Domani e Il piantatore di Malata, sono così interessanti: sono altrettante porte d'accesso a questo cuore misterioso dell'arte dello scrittore, uno spazio dove la sofferenza che uomini e donne sono destinati a infliggersi viene portata in primo piano. A rafforzare il loro carattere emblematico, poi, è il fatto che siano stati scritti in due momenti di svolta nella carriera dell'autore; e quindi possono essere assunti come punto di partenza per ulteriori percorsi di letture. (Tre su quattro, perché se anche il buon Omero di tanto in tanto sonnecchiava, anche a quell'anima tormentata di Conrad sarà permesso di scrivere un racconto come La locanda delle streghe, di puro, seppur fosco, intrattenimento. Magari il racconto piacerà ai lettori più degli altri tre, ma è difficile che ispiri in qualche modo l'estensore di un'introduzione). | << | < | > | >> |Pagina 63Il capitano Hagberd non era originario di Colebrook e tutto ciò che era dato sapere sul suo conto nella piccola città di mare non deponeva propriamente a suo favore. Le circostanze che lo avevano condotto a stabilirsi lì non erano un mistero per nessuno — all'epoca ne parlava volentieri con chiunque gli capitasse a tiro — ma non per questo apparivano meno anomale e insensate. A giudicare dal pezzo di terra che aveva comprato e dalle due casupole in mattoni gialli che aveva fatto costruire in stretta economia, doveva avere qualche risparmio da parte al suo arrivo. Una l'aveva tenuta per sé e aveva dato l'altra in affitto a Josiah Carvil, noto come "il cieco", ex costruttore di barche con una brutta nomea di padre padrone. Le due case avevano un muro in comune, i giardinetti all'ingresso erano separati da un'inferriata e i cortili sul retro da una balaustra di legno sulla quale la signorina Bessie Carvil era autorizzata, per diritto acquisito, a stendere tovaglioli da tè, strofinacci azzurri e grembiuli da asciugare. «Bessie, benedetta figliola, mi fai marcire il legno così» la riprendeva bonariamente il capitano dall'altro lato della palizzata ogni qualvolta la vedeva esercitare il suo privilegio. La recinzione era bassa e la ragazza, dall'alto della sua statura, ci poggiava i gomiti sopra e con le mani ancora arrossate dal bucato e gli avambracci bianchi e ben torniti guardava in silenzio il padrone di casa – un silenzio eloquente, carico di aspettative e desideri, tipico di chi sa il fatto suo. «S'infradicia tutto il legno» diceva il capitano Hagberd. «Non è da te sciupare le cose a questa maniera. Perché non stendi una corda per il bucato dalla tua parte?». Bessie non rispondeva, si limitava a fare cenno di no con la testa. Il suo cortile era punteggiato di piccole aiuole di terriccio nero circondate da sassi, e i fiorellini campestri che coltivava nel tempo libero sembravano crescere a dismisura in quei pochi palmi di terra e raggiungere dimensioni esorbitanti, come se venissero da un clima tropicale. Dall'altro lato della palizzata, il capitano Hagberd, rivestito da capo a piedi di olona verde di prima scelta, emergeva in tutta la sua imponenza da un intrico di erbacce e sterpi che gli arrivava fino al ginocchio. Insaccato in quella vela grezza, rigida e sbiadita da cui aveva avuto l'originale idea di ricavare un vestito – «in via provvisoria» borbottava di rimando a chiunque gli facesse osservazioni al riguardo – sembrava una statua scolpita nel granito e piantata in una selva non più grande di una sala da biliardo. Un uomo di dura roccia, con una bella faccia rubizza, due occhi azzurri e irrequieti e una lunga barba bianca che gli penzolava all'altezza della vita e che nessuno in paese gli aveva mai visto potare. Un sette anni prima il barbiere di Colebrook, rinomato buontempone locale, vedendolo entrare al New Inn, il bar del porto dove il capitano era andato a comprare un'oncia di tabacco, gli aveva lanciato dal bancone un ironico invito a entrare nel novero dei suoi clienti. «Il mese prossimo, forse» aveva risposto senza scomporsi il capitano Hagberd estraendo tre monetine da mezzo penny dal fazzoletto che portava infilato nella manica, prima di andarsene via. La porta non aveva fatto in tempo a richiudersi che il barbiere era scoppiato in una fragorosa risata. «Mi pare già di vederli, padre e figlio a braccetto che vengono a farsi radere, questione di giorni. Ci faranno lavorare sodo tutti quanti, sarto, fabbro e barbiere. Una vera pacchia per Colebrook. Affari d'oro, vedrete! All'inizio era la prossima settimana, ora è il prossimo mese, scommetto che tra un po' diventerà la prossima primavera». Notando che un forestiero lo ascoltava con un sorrisetto ebete stampato sulla faccia, il barbiere aveva disteso le gambe senza troppe cerimonie e aveva preso a spiegare che il vecchio Hagberd, un ex capitano di piccolo cabotaggio mezzo suonato, viveva nell'attesa di riabbracciare il figliolo che, vedi un po', era scappato di casa e se ne era andato per mare senza dare più sue notizie. Facilissimo che fosse finito già da un pezzo in pasto ai pesci. Il vecchio era piombato a Colebrook tre anni prima, tutto vestito di nero (aveva da poco perso la moglie), gettandosi fuori da uno scompartimento fumatori di terza classe come se avesse il diavolo alle calcagna. E tutto per via di una lettera – probabilmente uno scherzo. Qualcuno che voleva divertirsi gli aveva scritto di un marinaio con un nome pressappoco simile a quello del figlio che si diceva ronzasse intorno a una certa ragazza di Colebrook o dintorni. «Divertente, no?». Il vecchio aveva pubblicato la foto di Harry Hagberd su tutti i giornali di Londra, offrendo ricompense a chiunque avesse fornito informazioni utili. E il barbiere era andato avanti a raccontare con piglio beffardo di come il forestiero vestito a lutto avesse preso a perlustrare il circondario palmo a palmo, a piedi, sui barrocci, sbandierando i suoi fatti ai quattro venti, battendo tutte le locande e le taverne della zona, interrogando chiunque incontrasse per la strada e poco c'era mancato che ispezionasse uno ad uno tutti i fossi; con una smania febbrile sulle prime, poi con una sorta di meticolosa ostinazione che a lungo andare aveva perso il suo mordente, tanto che alla fine non sapeva dare più neppure i connotati del figlio. Nella lettera si diceva che il marinaio era sbarcato insieme a un compagno da un bastimento carico di legname e che era stato visto fare il filo a una non meglio precisata ragazza di Colebrook; ma il vecchio insisteva a descrivere suo figlio come un ragazzino sui quattordici anni «vivace e intelligente». E quando la gente gli rispondeva con un risolino, lui si grattava la fronte con aria perplessa prima di girare sui tacchi e andarsene risentito. Ovviamente non trovò mai nessuno, non una traccia del marinaio, non un indizio degno di fede; da allora però non riuscì più a staccarsi da Colebrook. «Forse è stata colpa di questa delusione, sommata alla morte della moglie, se ha finito con l'impazzire del tutto» aveva concluso il barbiere con ineccepibile acume psicologico. Di lì a poco il vecchio abbandonò le ricerche. Si convinse che il figlio era ripartito e rimase in paese ad aspettarlo. Doveva pur esserci un motivo se il ragazzo aveva preferito fermarsi a Colebrook invece di passare per casa, e il richiamo irresistibile che lo aveva attratto lì una volta avrebbe finito per farvelo tornare di nuovo. Questo almeno era quanto credeva il vecchio. «Ma certo, Colebrook!» sghignazzò il barbiere. «E dove altrimenti? Se cerchi un figlio scomparso, in tutto il Regno Unito non c'è luogo migliore per ritrovarlo. Così ha venduto la casa di famiglia a Colchester e è venuto a stare qui. Be', una fisima come un'altra. A me non potrebbe mai succedere di impazzire se mi scappasse un figlio. Ne ho otto a casa». Il barbiere si compiacque della propria presenza di spirito, salutata da uno scroscio di risate che fece tremare tutto il locale. Però, con l'imparzialità propria delle menti superiori dovette ammettere che, fatto strano, quella pazzia aveva un che di contagioso. Che dire di lui, ad esempio: la sua bottega era nei pressi del porto e ogni volta che un marinaio entrava a farsi barba o capelli, a meno che non fosse una faccia conosciuta, la prima cosa che gli veniva in mente era: «Magari è il figlio di Hagberd». Un'idea ridicola, lo sapeva bene. Fatto sta, la follia del capitano non risparmiava nessuno. Ricordava ancora i giorni in cui la città ne era pervasa. Ma con la sua cura a base di ironia e buonsenso sperava di riportare il povero vecchio alla ragione. Aveva già fatto progressi: dalla «prossima settimana» si era passati al «prossimo mese», ora bastava che posticipasse la data del ritorno al «prossimo anno» e da lì a dimenticare del tutto la cosa, il passo sarebbe stato breve. Su tutto il resto sapeva essere perfettamente assennato, ragion per cui era ferma convinzione del barbiere che anche questo equivoco si sarebbe chiarito. | << | < | > | >> |Pagina 103Questa storia, episodio, esperienza, chiamatela come volete, fu riferita verso la metà del secolo scorso da un uomo che, per sua stessa ammissione, aveva all'epoca sessant'anni. Sessant'anni non sono una brutta età, se non quando se ne contempla la prospettiva: in tal caso, nessun dubbio che la maggior parte di noi la consideri con sentimenti ambivalenti. È un'età calma; di fatto la partita è ormai al termine e, facendosi da parte, ciascuno è preso dal ricordo piuttosto vivido di che brava persona è stato. Ho osservato che, per una squisita premura della provvidenza, a sessant'anni la maggior parte delle persone comincia a formarsi un'opinione romantica di sé. Persino i fallimenti emanano un fascino di singolare intensità. S'intende che le speranze del futuro sono ottime compagne di vita, forme mirabili e affascinanti, se volete, ma svestite, per così dire, e senza orpelli che ne intralcino la corsa. Fortuna vuole che i paramenti magici siano prerogativa dell'immutabile passato, che altrimenti rimarrebbe seduto a rabbrividire derelitto sotto l'addensarsi delle tenebre. Suppongo sia stato il romanticismo proprio dell'età che avanza a indurre il nostro uomo a rendere nota la sua esperienza, per autocompiacimento o per lo stupore dei posteri. Non di certo per gloria personale, dato che la sua fu un'esperienza vissuta all'insegna della più folle paura: terrore, così ebbe a definirlo. Avrete già compreso che la storia cui si allude nelle prime righe fu riportata per iscritto. A questo scritto fa riferimento la «scoperta» citata nel sottotitolo. E mia è l'idea (non voglio dire l'invenzione) del titolo stesso, che ha il merito dell'obiettività. Avremo a che fare con una locanda. In quanto alle streghe, si tratta di un'espressione puramente convenzionale e starà al nostro uomo dimostrarci quanto sia appropriata al caso. La scoperta avvenne all'interno di una cassa di libri acquistata a Londra, in una via che non esiste più, nella bottega di un venditore di libri usati giunto all'ultimo stadio della rovina. In quanto ai libri, erano non di seconda ma almeno di ventesima mano e, una volta passati al vaglio, dimostrarono di non valere l'irrisoria cifra che mi erano costati. Forse fu il fatto di averne già avuto un vago presentimento a spingermi a dire: «Però, dovete darmi anche la cassa». Il libraio in rovina acconsentì con il fare tragico e incurante di un uomo condannato all'estinzione. Un mazzo di pagine sparse sul fondo della cassa attirò a malapena la mia curiosità. La scrittura fitta, ordinata e regolare non era tale da conquistare a un primo sguardo. Ma la frase in cui lessi che nel 1813 lo scrittore aveva ventidue anni catturò la mia attenzione. Ventidue anni sono un'età interessante, di facili imprudenze e facili paure, debole com'è la facoltà di giudizio e accesa l'immaginazione. In un altro punto mi soffermai distrattamente sulla frase: «Di notte riprendemmo terra», perché era un'espressione marinara. «Vediamo un po' di che si tratta» mi dissi senza convinzione. Ma che aria noiosa aveva quel manoscritto! Le righe si succedevano una identica all'altra nel loro corso minuto e regolare. Si sarebbe detta la cantilena di una voce monotona. Un trattato sul raffinamento dello zucchero (l'argomento più scialbo che mi venga in mente) avrebbe avuto un aspetto più invitante. «Nel 1813 d.C. avevo ventidue anni» inizia diligentemente l'autore, e prosegue con tutta l'aria di voler rispettare un'accuratezza inflessibile e funesta. Con ciò non si creda che la mia scoperta abbia alcunché di arcaico. Quella di aguzzare l'ingegno diabolico nel campo dell'invenzione è un'arte vecchia quanto il mondo ma tutt'altro che defunta. Si pensi a come i telefoni riescano a distruggere quel poco di tranquillità che ci è concessa su questa terra o alla rapidità con cui le mitragliatrici ci sfilano la vita dal corpo. Oggi come oggi basterebbe che una vecchia strega cisposa avesse la forza necessaria a girare un'innocua manovella per stendere in un batter d'occhio un centinaio di giovanotti di vent'anni. Se non è progresso questo! A dir poco portentoso! E dato che ci siamo evoluti, non ci sarà da stupirsi se in questa storia troveremo quel tanto di ingenuità di stile e semplicità di intenti propri delle epoche remote. Va da sé che un turista a bordo della sua automobile non ha speranza alcuna di imbattersi oggi in una locanda simile. La locanda, quella del titolo, si trovava in Spagna. Questo è quanto ho potuto dedurre dal contesto, dato che al racconto mancava un buon numero di pagine, fatto che, tutto sommato, non costituisce forse una gran perdita. A quanto pare l'autore aveva intrapreso una minuziosa e dettagliata analisi del perché e del percome si trovasse su quella costa, presumibilmente la costa settentrionale della Spagna. Ciò malgrado la sua esperienza non ha nulla a che vedere con il mare. A quel che ho potuto capire, era un ufficiale a bordo di una corvetta. E fin qui nulla di strano. Per tutta la durata della "campagna peninsulare" molte delle nostre navi da guerra più piccole si trovarono a pattugliare le coste settentrionali della Spagna, compito che ben possiamo immaginare rischioso e ingrato. Mi è parso di intendere che la sua nave avesse ricevuto un incarico speciale da portare a termine. Dal nostro uomo c'era da attendersi una doviziosa spiegazione di tutte le circostanze, non fosse che, come ho già detto, alcune pagine (per giunta di carta resistente) erano andate perse, finite a fare da involucro ai barattoli di marmellata o da imballaggio ai fucili dei posteri irriverenti. Ma si capisce che l'incarico prevedeva rapporti di comunicazione con la costa e l'invio di messaggeri nell'entroterra, vuoi per raccogliere informazioni dai patrioti spagnoli, dai guerilleros o dalle juntas segrete della provincia, vuoi per dispensare loro ordini e consigli. Qualcosa del genere. È quanto si può desumere da quel che rimane della sua scrupolosa relazione. Segue il panegirico di un eccellente marinaio, un membro dell'equipaggio che ricopriva il grado di capotimoniere. Era noto a bordo con il nome di Cuba Tom, e non perché fosse cubano, ché anzi era un perfetto esemplare di lupo di mare inglese dell'epoca, con alle spalle lunghi anni di servizio sulle navi da guerra. Il nome gli proveniva da alcune mirabolanti avventure vissute in gioventù su quell'isola, avventure che costituivano il soggetto privilegiato dei racconti che al calar della sera era solito narrare ai suoi compagni riuniti sotto il castello di prua. Era intelligente, forte e aveva fama di uomo coraggioso. Il nostro narratore, a tanto arriva la sua pignoleria, apre un inciso per informarci che Tom aveva una coda di capelli così folta e lunga che non se ne sarebbe trovata una più bella in tutta la Marina. Questa appendice, tenuta in gran conto e fasciata in una stretta guaina di pelle di marsuino, gli arrivava a metà schiena, per la grande ammirazione di tutti e la grande invidia di qualcuno. Il nostro giovane ufficiale indugia con una sorta di tenerezza sulle doti virili di Cuba Tom. Questo genere di relazione tra ufficiale e marinaio non era una rarità a quei tempi. Quando un giovane si arruolava, veniva affidato alle cure di un marinaio di lungo corso che gli preparava la sua prima amaca e diventava con il tempo una sorta di compagno devoto. Dopo anni di separazione, il narratore aveva ritrovato questo marinaio a bordo della nave su cui aveva preso servizio. C'è un che di commovente nell'intenso piacere con cui ricorda e registra questo incontro con il mentore dei suoi anni di apprendistato giovanile. Scopriamo quindi che, in mancanza di uno spagnolo disposto ad accettare l'incarico, questo valoroso marinaio con il suo impareggiabile codino e la sua reputazione di uomo impavido e risoluto fu scelto come messaggero per una delle missioni sulla terraferma di cui si diceva. | << | < | > | >> |Pagina 143Due uomini conversavano nella redazione del principale giornale di una grande città coloniale. Tutt'e due giovani: quello più robusto, con i capelli biondi e un tocco più cittadino nel vestire, era editore e socio proprietario del noto giornale. L'altro si chiamava Renouard. Il bel viso abbronzato tradiva tutta la sua preoccupazione. Era magro, irrequieto e trasandato. Il giornalista riprese il discorso: «E così ieri sei stato a cena dal vecchio Dunster?». Non usò la parola vecchio con la connotazione affettiva che le attribuisce chi parla di un amico intimo, ma per esprimere un mero dato di fatto. Dunster era vecchio. Era stato uno degli uomini politici più in vista della colonia e si era ritirato dalla vita pubblica dopo un viaggio in Europa e un prolungato soggiorno in Inghilterra, dove aveva riscosso un ottimo successo di stampa. La colonia era orgogliosa di lui. «Sì» rispose Renouard. «Il giovane Dunster mi ha invitato per cena un attimo prima che lasciassi il suo ufficio. Sembrava un'idea nata sul momento. Eppure non riesco a liberarmi del sospetto che avesse un secondo fine. Ha insistito molto. Mi ha assicurato che suo zio sarebbe stato felicissimo di vedermi. A quanto mi ha detto, gli aveva da poco confidato che l'ultimo atto della sua vita pubblica era stato farmi avere la concessione di Malata». «Davvero commovente. Alle volte il vecchietto gioca a fare il sentimentale con il passato». «Non so perché ho accettato» proseguì l'altro. «Con me i sentimentalismi non attaccano. Intendiamoci, il vecchio Dunster è stato gentile, ma non mi ha fatto mezza domanda sulle piante da seta. Magari neppure si ricorda che esistono. Va detto che c'erano più invitati di quanto non avessi previsto. Un ricevimento in grande stile». «Ero invitato anch'io» ci tenne a precisare il giornalista. «Ma non sono potuto andare. Tu piuttosto, quando sei arrivato da Malata?». «Ieri mattina all'alba. Ho la barca ormeggiata giù alla baia, sotto il Garden Point. Ero nell'ufficio del giovane Dunster prima ancora che finisse di leggere la corrispondenza. Hai mai visto il giovane Dunster che legge la corrispondenza? Io l'ho spiato da dietro la porta socchiusa. Tiene il foglio con tutt'e due le mani, inarca le spalle fin sopra le orecchie e ci si tuffa dentro con il suo naso lungo e le labbra sottili, come una pompa d'aspirazione. Un mostro con il senso degli affari». «Qui nessuno lo considera un mostro» disse il giornalista, scrutando il suo ospite con sguardo indagatore. «Certo che no. Siete abituati alla sua faccia, come alle facce di tutti gli altri. Non so perché, ma ogni volta che vengo in città l'aspetto della gente per strada mi lascia di sasso. Trovo tutti così terribilmente espressivi...». «E non proprio attraenti». «A essere sincero, no. Non sempre. L'effetto è potente e insieme ambiguo... So cosa pensi, pensi che sia colpa della vita solitaria che faccio laggiù». «Sì. È quello che penso. È deprimente. Stare mesi e mesi senza vedere nessuno. Tu conduci un'esistenza malsana». L'altro abbozzò un sorriso e ammise con un fil di voce che, se non andava errato, erano passati almeno undici mesi dall'ultima volta che era stato in città. «Lo vedi,» insisté il giornalista «la solitudine agisce come una specie di veleno. E poi mi vieni a dire che noti segni misteriosi e potenti sui volti, cose che a un uomo sano non verrebbero neanche in mente. Chiaro che li noti!». Geoffrey Renouard si guardò bene dal dire all'amico giornalista che i segni presenti sul suo viso, un viso che gli era familiare, lo disturbavano quanto tutti gli altri. Ravvisava una forma di degrado nelle tracce che il tempo, giorno dopo giorno, lasciava impresse sul volto degli uomini. Era una cosa che lo muoveva a compassione e lo turbava, la prova di uno straziante travaglio interiore che al suo sguardo limpido, abituato alla solitudine di Malata, dove si era installato dopo cinque lunghi anni di avventure e viaggi di esplorazione, risaltava in tutta la sua evidenza. «Bisogna dire che quando sono giù a Malata non vedo mai nessuno. A parte i ragazzi della piantagione, ma a loro ho fatto l'abitudine». «E noi qui abbiamo fatto l'abitudine alla gente per strada. Il che è salutare». | << | < | > | >> |Pagina 178Le condizioni particolari del loro soggiorno imponevano che la signorina Moorsom uscisse di rado. Viveva reclusa nella villa dei Dunster come in un eremo, sorvegliata da un gruppo di vecchi, con l'altera condiscendenza di una divinità paziente e ostinata. Era impossibile dire se soffrisse, e per che cosa, o se la sua imperturbabilità fosse il risultato di una grande passione ripiegata su di sé, di un perfetto contegno o di una superiorità così assoluta da bastare a se stessa. A Renouard, d'altronde, non sfuggiva il piacere con cui alle volte si intratteneva a parlare con lui. Forse perché era il solo ad avere su per giù la sua età? Era dunque questo il motivo segreto della sua ammissione in quel circolo?Ammirava la sua voce pacata, così come i gesti e i comportamenti. Anche lui era sempre stato un uomo dai modi tranquilli. Ma la forza dell'infatuazione lo aveva estraniato dalla sua vera natura al punto che gli costava un terribile sforzo mantenere la calma abituale. Dopo essere stato da lei, tornava al suo brigantino esausto, scosso e avvilito, come se fosse stato sottoposto a una tortura straziante. Ogni volta che la vedeva avvicinarsi, cadeva in un temporaneo stato di allucinazione. Era una creatura splendida ed eterea, fatta per musiche invisibili, per le ombre dell'amore, per il fruscio delle acque. Dopo qualche istante (certo non poteva tenere sempre lo sguardo chino a terra) raccoglieva il coraggio e la guardava. C'era uno scintillio nella limpida oscurità dei suoi occhi che, quando si posavano su di lui, investivano la vita di nuovi significati. Era certo che qualunque altro uomo al suo posto sarebbe già uscito di senno, fulminato da tanto fulgore, e avrebbe conosciuto il conforto di una beata follia. Ma lui non aveva quella fortuna: la sua ragione era uscita indenne dalle fornaci del sol leone, dai deserti abbacinanti, dai suoi accessi d'ira contro i limiti dell'uomo e l'inflessibile crudeltà della natura ostile. Essere sano di mente voleva dire stare continuamente in guardia per non cadere in silenzi estatici o prorompere in discorsi farneticanti. Doveva tenere a freno gli occhi, le braccia, le gambe, ogni singolo muscolo del viso. Il tenore delle loro conversazioni era tale e quale ci si poteva aspettare da una ragazza arrivata lì di fresco da una città di quattro milioni di anime sulla via del tramonto, con alle spalle numerose stagioni mondane londinesi, e un uomo votato alla conquista, abituato a vasti orizzonti, che anche nei momenti di svago si teneva alla larga dagli agglomerati umani in cui il singolo individuo perde di valore, anche ai propri occhi. Non avevano un solo interesse in comune di cui parlare. Dovevano mantenersi su discorsi generali, che affrontavano senza troppo impegno. Non c'era fra loro un vero e proprio scambio di opinioni. Forse lei non aveva molto da dire, e quello che diceva era senza pretese. Non sembrava che il rapporto con la realtà esterna suscitasse in lei impressioni personali distinte da quelle delle altre donne. Il suo fascino stava tutto nella posatezza dei gesti e nel fulgore della sua femminilità, che riluceva anche nelle pose più gravi. Renouard non sapeva cosa si nascondesse dietro quella splendida fronte d'avorio, aureolata di regalità. Non avrebbe saputo dire quali fossero i suoi pensieri, i suoi sentimenti. Le risposte che dava erano sempre assennate, precedute da brevi silenzi durante i quali lui pendeva ansiosamente dalle sue labbra. Si sentiva alla presenza di una creatura misteriosa, in cui parlava una voce sconosciuta che, simile a quella di un oracolo, gli faceva balzare il cuore in petto. Gli bastava rimanere seduto in silenzio, a denti stretti, divorato dalla gelosia. Nessuno avrebbe potuto immaginare che il suo contegno tranquillo e ossequioso al cospetto di quelle teste grigie fosse frutto di una estrema prova di stoicismo, di una faticoso e sinistro esercizio di dominio sui suoi tormenti, nel timore che le forze lo abbandonassero. Anche in passato, alle prese con altre forze della natura, aveva trovato il coraggio di fare qualsiasi cosa, tranne fuggire.
Forse era per mancanza di argomenti in comune che la
signorina Moorsom gli chiedeva così spesso della sua vita. Renouard non era
restio a parlare di sé, perché andava immune
dalla presunzione timida e spropositata che sigilla tante bocche vanagloriose.
Con tono sobrio, guardandosi la punta delle
scarpe, raccontava la sua storia e intanto pensava che sarebbe
presto giunto il momento in cui lei non lo avrebbe degnato
più neanche della sua disattenzione. E allora, lanciandole uno
sguardo furtivo, l'avrebbe vista in tutta la sua abbagliante perfezione, con gli
occhi vaghi, persi in una fissità dolente e la
testa reclinata, simile a una Venere tragica emersa non dalla
spuma marina, ma da una più distante, più informe, più misteriosa e immensa
profondità del genere umano.
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