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| << | < | > | >> |Indice7 Sala d'aspetto: dove ci si incontra, si condivide l'attesa, a volte si fa amicizia. E si possono moltiplicare i mondi SERGIO CONTI 15 Partenze e approdi 23 Vibrazioni dell'anima MILTON FORNARO 29 Peccati della terza età NADINE GORDIMER 41 Scarpe nere SILVANA GRASSO 47 Varicella a Torino MILJENKO JERGOVIC 55 Quel barbuto pirata del Piemonte MARIO DELGADO APARAÍN 61 I miei Piemonti PREDRAG MATVEJEVIC 69 Gli anni giovani GIANNI D'ELIA 73 Incontri e distacchi 81 Vezzolano, una notte ARNALDO COLASANTI 85 Un villaggio sulla collina TAHAR BEN JELLOUN 89 Un sogno con Cavour e Mussolini VASSILIS VASSILIKOS 93 Il gran piede della montagna NIYI OSUNDARE 99 Perfetti cubetti di cioccolato ALBEIRTO MANGUEL 103 Conversazioni con il fiume SENEL PAZ 111 Variazioni su Torino FRANCESCA SANVITALE 119 Come ssere piemontesi? BJÖRN LARSSON 125 Per chiudere il libro, accostare la soglia e ritornare nel mondo MERCEDES BRESSO 129 Biografie degli autori 133 Indice delle illustrazioni |
| << | < | > | >> |Pagina 7Sala d'aspetto: dove ci si incontra, si condivide l'attesa, a volte si fa amicizia. E si possono moltiplicare i mondi
SERGIO CONTI
Questo libro racconta alcuni grandi temi che si ripetono all infinito: il viaggio, l'emozione che regala ciò che si incontra, il ricordo di quanti si sono incontrati. A parlarcene sono dei narratori, il cui compito è un po' quello di interpretare i sogni, dare parole ai segni, preservare storie e luoghi che spesso non vediamo più. Accecati dalle immagini che ci passano davanti e abituati come siamo a rifiutare i simboli e le rappresentazioni, finiamo infatti col gettar via, insieme al tempo e ai luoghi vissuti, una buona parte della conoscenza. Quella conoscenza che comprende invece il ricordo, la visione, l'ascolto, l'immaginazione, tutte cose che ci fanno scorgere più nitidamente la finitezza del mondo, aiutandoci a distinguerne e separarne le componenti.
Un libro destinato a durare un attimo, forse ancor meno, ma che vuole
aiutarci a rivisitare le nostre certezze, confrontarle con quelle degli altri,
ripensare ai nostri sogni di viaggio con l'aiuto di chi questi viaggi li ha
fatti per davvero. Per ricordare le immagini e i luoghi che hanno
costruito il nostro modo di vivere e di pensare, che mai avremmo creduto di
perdere ma che rischiamo invece di non ricordare più: sono entrati nella storia,
ci si abitua a dire, mentre sarebbe forse più onesto confessare che si sono
trasferiti in una zona franca della rimozione collettiva.
Ma anche un libro complementare a tanti altri, che hanno affrontato il proprio
argomento con un metodo a mosaico, di trasformazione caleidoscopica: perché per
descrivere la realtà che abitiamo è necessario moltiplicarne le immagini. Da qui
una costellazione di eventi e di emozioni che prendono forma in rapporto con
l'ambiente, il Piemonte nel nostro caso, regalandoci a volte delle geografie
immediate, altre volte aprendoci la porta di una stanza delle meraviglie.
Sì, come quando si entra in una basilica paleocristiana, così ricca di
mosaici, o come quando si va al mercato, a contatto con gli odori e con i suoni,
dove ciascuno vi arriva con le proprie verità, che valgono quanto valgono un po'
tutte le verità, e vi narra il proprio racconto. Ma che in fondo non mente, o
per lo meno non vuole mentire.
Sono quindici scrittori di fama e un fotografo che ha scelto di vivere dalle nostre parti. Provenienti un po' da tutto il mondo e che si incontrano nell'unico luogo che essi hanno in comune, un libro. Non già piemontesi, perché volevamo ritrovare nei loro racconti stimoli nuovi, quelli che soltanto altre culture possono fornire. Narratori che in Piemonte hanno visto luoghi e incontrato gente diversa, uomini e donne che questo territorio lo hanno fatto, padroneggiando le proprie sicurezze e l'arte del dolore. E ci sono rimati, a volte per poche ore, altre volte per giorni, altre volte ancora ci sono ritornati. Per ritrovarvi i colori, le campagne, i giardini. E le città, quelle vere, che hanno una storia da raccontare che per questo si concedono soltanto facendosi percorrere, attraversare, penetrare. E hanno viaggiato per il nostro Piemonte, ridisegnandolo. [...] | << | < | > | >> |Pagina 29Peccati della terza età
NADINE GORDIMER
Venivano da due diversi paesi e si erano conosciuti in un terzo durante la guerra. Finita quest'ultima, vissero in un quarto paese, si sposarono ed ebbero figli che crebbero con una nazionalità e con una bandiera. La guerra era stata ufficialmente battezzata «seconda guerra mondiale», ma Peter e Mania la chiamavano «la nostra guerra», evidentemente per distinguerla da quelle venute dopo. Ciò serviva anche per dare nome al territorio in cui era cominciata la loro vita insieme. Sotto il polsino sinistro della camicia fresca di bucato che cambiava ogni giorno, Peter portava un numero marchiato sulla pelle. Le mani di lei, con le unghie curate e verniciate ogni settimana da una professionista con Dusty Rose numero i, non conservavano tracce di quando, screpolate dal freddo e sanguinanti, avevano scavato dalla terra quelle rape gelate che le avevano permesso di sopravvivere. Nessuno dei due aveva più una famiglia che non fosse quella che avevano procreato. E ognuno aveva, naturalmente, l'altro. Lo aveva sempre avuto nella sua vita definitiva, dopo un'infanzia che non avevano vissuto crescendo, ma che era esplosa nel fuoco incrociato degli eserciti. Esplosa come lo era stata, per loro, la teoria dell'infanzia quale fondamento al quale una personalità adulta si richiama in continuazione. La distruzione dei luoghi e delle case era stata anche la distruzione dei loro punti di riferimento. Non era rimasta in piedi né una casa né una scuola né una pianta cui Peter e Mania potessero tornare in pellegrinaggio. Non c'era più un viso in cui scoprire un giovane volto rimasto nella memoria. Restava soltanto la loro vita insieme, non arredata né popolata del passato. Era una vita ben organizzata, e non per caso. Era stata costruita con cura sin dall'inizio, quando non avevano denaro e dovevano imparare una nuova lingua in quel quarto paese che avevano scelto come dimora. E decisero di non lasciarsi mai sfuggire il controllo della loro esistenza, come invece avevano dovuto necessariamente fare durante la guerra. Erano entusiasti, energici, attivi, moderatamente ambiziosi, e tutto questo era parte integrante del loro amarsi. Lavorarono l'uno con l'altro e l'uno per l'altro. Migliorarono la loro padronanza delle lingue mentre parlavano e mentre si accarezzavano facendo insieme da mangiare o lavando i piatti, oppure sussurrando tranquillizzanti bugie nel confessarsi - le voci attutite dai cuscini, tra l'amore e il sonno - le difficoltà e la solitudine incontrate nei rispettivi luoghi di lavoro. [...] | << | < | > | >> |Pagina 61I miei Piemonti
PREDRAG MATVEJEVIC
Sognavo il Piemonte ancor prima di vederlo. Abitavo la piccola città di Mostar, che andava orgogliosa del suo grande Ponte Vecchio, distrutto nell'ultima guerra balcanica. Nella scuola frequentata da scolari delle diverse nazionalità, croati, serbi, bosniaci di fede musulmana, avevamo uno straordinario professore di storia, capace di concepire e insegnare la storia del mio paese senza fare di questa un'ideologia della nazione. Parlando dell'unificazione degli slavi del sud, si fermava e faceva riferimento al Piemonte: «Il Piemonte è stato il modello in forza del quale ci siamo uniti nella Iugoslavia dopo la prima guerra mondiale. Ecco, gli italiani sono stati più fortunati di noi». E ci offriva diversi dati per comprovarlo. A Belgrado usciva, fra il 1911 e 1915, una pubblicazione intitolata Pijemont. Predicava l'unificazione, raccogliendo il pensiero di numerosi collaboratori non soltanto di nazionalità serba: fra questi lo scultore croato Ivan Mestrovic, affine a quel richiamo e che seppe manifestarlo così bene nelle sue opere giovanili, e il grande poeta croato Tin Ujevic, che fece altrettanto, e molti altri. Grazie a quel periodico si formarono altresì i rappresentanti della «Giovane Bosnia» (creata sul modello della «Giovine Italia»): fra loro c'era altresì Gavrilo Princip che, con l'attentato di Sarajevo, compiuto contro l'erede al trono austriaco nell'estate 1914, avrebbe acceso la scintilla della prima guerra mondiale, con il suo carico di vittime... Da studente liceale, mi immaginavo il Piemonte come fatto di una sola città, grande, fortificata, imprendibile. E ripetevo dei nomi strani, lontani, che avevo ascoltato a scuola: Mazzini, Cavour, D'Azeglio e tanti altri ancora. Davanti ai miei palazzi piemontesi passeggiavano giovani donne eleganti, le stesse che avevo visto riprodotte dai maestri italiani dei secoli precedenti. Tutt'intorno crescevano alberi di arance e filari di vite coi grappoli enormi. Era il mito slavo di un'Italia piena di sole, risplendente, cantante (Puskin, Gogo'l, Cajkovskij. Ma col tempo quelle immagini mentali si avvicinarono poco a poco alla realtà, e mi domandavo dove abitasse Garibaldi, quando partì con i suoi Mille, che aspetto avessero i giovani che lo seguirono. E ancora, il Po sarà più grande del Danubio? Come saranno le Alpi in quella regione e quanta neve ci cadrà sopra? Venne poi il periodo in cui la Iugoslavia si contrappose all'Unione Sovietica e il mio «piemontismo» iniziò a volgersi in un'altra direzione. Speravo che i genitori di mio padre, che erano rimasti in Russia, venissero liberati, di poterli finalmente rivedere, e che insieme potessimo fare un viaggio, perché no, magari a Torino. Mi iscrissi all'Università di Sarajevo, appena istituita, iniziando a studiare l'italiano e a seguire con grande passione i film neorealisti: veniva rappresentata la miseria dell'Italia postbellica, così simile alla nostra... ma che i registi italiani sapevano rappresentare assai meglio di quegli «ingegneri delle anime» sovietici assai propensi a rendere la realtà più dolce, più vivibile. [...] | << | < | |