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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE 7 CAPITOLO 1 Milano nel Seicento: una pentola alla quale è saltato il coperchio 21 CAPITOLO 2 Milano nel Settecento: verso il tramonto dell'oligarchia patrizia 31 CAPITOLO 3 Comune, signoria e patriziato nella Storia di Milano di Pietro Verri 45 CAPITOLO 4 La caduta del Ducato e la perdita della libertà italiana nell'opera di Federico Chabod 55 CAPITOLO 5 Prende forma il modello "ricchezza privata-miseria pubblica" 67 CAPITOLO 6 La tradizione laica viscontea alla prova di Riforma e Controriforma 77 CAPITOLO 7 La riforma del catasto: una pietra miliare nella storia della città e del pensiero economico 89 CAPITOLO 8 Cattaneo, Romagnosi e l'impegno per l'incivilimento 107 CAPITOLO 9 Dall'incivilimento al Risorgimento 119 CAPITOLO 10 Gli imprenditori stranieri e il lento decollo dell'industrializzazione 137 CAPITOLO 11 L'economia italiana tra liberoscambismo e protezionismo 153 CAPITOLO 12 I segni anticipatori della crisi europea del Novecento 169 CAPITOLO 13 La politica estera dei governi liberali 185 CAPITOLO 14 Le contraddizioni della Milano anti-crispina 207 CAPITOLO 15 I "perché?" di Giorgio Rumi 227 CAPITOLO 16 Ritorno al passato: l'integralismo postconciliare di CL 249 CAPITOLO 17 Federalismo in salsa separatista 265 CONCLUSIONE 293 BIBLIOGRAFIA 299 |
| << | < | > | >> |Pagina 7INTRODUZIONEQuesto volume è lo sviluppo di un lavoro condotto nell'ambito di IDOM, Associazione Impresa Domani ( www.idom.eu ), tra l'autunno del 2009 e la primavera del 2011, per celebrare il 150° anniversario dell'Unità d'Italia. L'idea di mettere a fuoco il rapporto di Milano con lo Stato è nata dal sospetto che Silvio Berlusconi, i suoi alleati e il consenso di cui ha goduto, abbiano in questa città radici profonde. Obiettivo della ricerca è stato pertanto verificare se la mancanza di senso dello Stato di cui Berlusconi ha dato un'interpretazione, per così dire, insuperabile, sia il carattere che ha distinto i ceti dirigenti milanesi dei secoli passati. In altre parole questo lavoro intende chiarire se dal punto di vista storico l'evento casuale, l'eccezione, sia Berlusconi, oppure il periodo riconosciuto comunemente come il più virtuoso della città, quello del Risorgimento e della "capitale morale". L'opportunità di conoscere meglio il passato della città ha trovato una prima conferma in uno storico del calibro di Rosario Romeo che, in un saggio sulla storiografia marxista del 1956, scriveva:
"La valutazione positiva del Risorgimento [...] non può non avere
il suo centro ideale nella funzione rivoluzionaria delle città del
Nord, che acquista sempre maggior vigore col passare dei decenni e
condiziona col suo sviluppo quello di tutto il paese. Non si tratta,
beninteso, di dar vita soltanto a storie di banche e d'industrie,
come già se ne possiedono, e come è augurabile che altre molte se
ne scrivano; ma di costruire una storia politica e civile, in cui le
realizzazioni pratiche e politiche vadano di pari passo con l'allargamento e
l'ammodernamento della coscienza civile e della cultura,
con l'instaurazione di un nuovo tipo di valori e di rapporti sociali.
E non si tratta neppure, come potrebbe sembrare, di contrapporre una storia di
classi dirigenti a quella delle classi subalterne,
e neanche una storia del Nord a quella del Sud, benché certo, e
la storia delle classi dirigenti, e quella del Nord, siano tuttora di
gran lunga le peggio studiate (sappiamo più di Caltanissetta che
di Milano, dopo il 1860!), proprio in conseguenza dei vari revisionismi; ma
piuttosto si tratta di riconquistare il nesso unitario di
tutta la storia nazionale, nel quale soltanto la storia di tutti i suoi
motivi, e quella delle classi subalterne, può acquistare il suo giusto
significato. Il concreto svolgimento di questi temi [...] gioverebbe
per di più a sciogliere nelle loro determinazioni specifiche taluni
concetti di importanza fondamentale, come quello di 'borghesia
settentrionale', che nella contemporanea storiografia minacciano di
acquistare un carattere pressoché mitologico. Si pensi, per far solo
l'esempio più ovvio, alla decisiva importanza che in tutte queste
direzioni avrebbe una storia dello sviluppo di Milano dopo l'Unità
(o di taluni suoi aspetti)."
Ma l'incoraggiamento decisivo è venuto da Tommaso Padoa-Schioppa che così scriveva in una lettera del 6 settembre 2009, indirizzata al sottoscritto: "Caro Franco, mi hai chiesto quale tema IDOM potrebbe scegliere per il suo lavoro nell'anno o biennio a venire e mi hai detto di aver pensato al 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Ti espongo le ragioni per cui, a mio giudizio, IDOM, proprio per la sua composizione, potrebbe essere una sede ideale, particolarmente adatta (anzi, direi quasi moralmente tenuta, proprio in nome del suo impegno civile) a lavorare sul tema del 150°. Che anniversario si celebra. Bisogna innanzi tutto individuare correttamente l'anniversario che sarà celebrato; finora il dibattito pubblico ha del tutto mancato di farlo. Nel 2011 si celebrerà non la nascita della nazione italiana, bensì la fondazione dello Stato italiano. La nazione italiana esiste dal medioevo, precede addirittura il formarsi della nazione tedesca, francese, spagnola, britannica. La lingua parlata oggi in Italia assomiglia a quella di Dante come nessuna lingua europea assomiglia al suo progenitore del XIII o XIV secolo. E ha secoli di storia non solo la nazione, ma anche la coscienza di essa da parte degli spiriti più illuminati: basta rileggere Dante, Petrarca, poi Machiavelli. La peculiarità della storia italiana non è la nascita recente della nazione, è la combinazione di una nazione precoce e di uno Stato tardivo; è il fatto che per tanti secoli si sia avuta l'una senza l'altro e che l'assenza dello Stato unitario non abbia impedito la presenza della nazione. Finalmente, nell'Ottocento, lo Stato italiano nasce e nel 2011 è dunque di questo che si deve parlare. Tanto più che c'è molto, molto su cui riflettere e c'è urgenza di una riflessione responsabile, soprattutto a Milano e in Lombardia. Tutte le celebrazioni del 150° dovrebbero ruotare, a mio giudizio, intorno a un solo tema: lo stato dello Stato italiano. È questo — oggi, ma in realtà da tempo — l'organo malato dell'Italia, quello la cui patologia sta facendo deperire l'intero corpo sociale, l'economia, la terra e le acque, la cultura, la scienza, il rapporto con la sfera religiosa. Non è un esagerazione a ermare che dei 150 anni trascorsi dal 1861 forse la metà sono stati consacrati alla costruzione dello Stato italiano; altrettanti a una vera opera di distruzione che si è fatta più intensa negli ultimi decenni e ancor più negli anni più recenti. È una dura affermazione che potrebbe essere documentata in modo specifico proprio all'avvicinarsi del 2011 al fine di contribuire a un riscatto. Sono ormai gravemente minacciati la democrazia, principi fondamentali dello stato di diritto, la preservazione del patrimonio artistico, l'ambiente naturale, il fatto stesso di essere uno Stato unitario. [...] Milanesi. La Lombardia è la regione più ricca dell'Italia; di questa, Milano è considerata la capitale economica e si considera la capitale morale. Erano 'milanesi', di nascita o di adozione, alcuni degli spiriti più illuminati del Sette e Ottocento: Romagnosi e Manzoni, Casati e Cattaneo, Verdi e Rosmini. Nello stesso tempo, la Lombardia è l'unica regione della penisola che, allorché si fece l'unità d'Italia, non era da secoli sede di uno Stato indipendente. Torino, Napoli, Venezia, Firenze, Roma erano capitali, Milano no. Essere capitale significa possedere e sviluppare nel territorio circostante una cultura e una coscienza dello Stato, ospitare istituzioni politiche e amministrative, formare classi dirigenti pubbliche e – per i privati – interagire con esse. Forse per questi motivi, l'atteggiamento di Milano verso lo Stato è da tempo ambivalente: nostalgia e desiderio di Stato, ma anche senso di estraneità e visione immatura della sua funzione. L'impegno civico si è rivolto più alle istituzioni municipali o regionali che a quelle nazionali. L'insofferenza per le carenze dello Stato, per l'inefficienza della sua amministrazione si è tradotta non in impegno riformatore, ma in ostilità allo Stato stesso o addirittura nell'idea semplicistica che 'se al volante ci fossimo noi' (noi milanesi, noi imprenditori) la macchina dello Stato allora sì che funzionerebbe. Per il vero, le tre 'marce su Roma' partite da Milano nel secolo passato per mettere un leader politico 'decisionista' alla guida del Paese hanno avuto effetti piuttosto distruttivi che costruttivi per lo Stato. L'affermarsi del federalismo come tema di dibattito nazionale e la sua iscrizione nel programma di riforme della Repubblica sono stati finora una grande occasione mancata per le élites del Nord. Il federalismo era per la classe dirigente e imprenditoriale milanese una via naturale per assumere la guida di un'azione di riforma e rafforzamento dello Stato e della nazione, e per esercitare una responsabilità nazionale. Poteva rianimare la grande tradizione di Carlo Cattaneo, saldarsi col disegno di una federazione europea, trasformarsi in un vero progetto di riforma dello Stato nazionale, promuovere un impegno delle classi dirigenti meridionali coerente con gli ingenti trasferimenti dal Nord di risorse operati dalla politica meridionalistica. Invece, il federalismo è divenuto la parola d'ordine di una formazione politica abile ma rozza, che fa appello senza alcuno scrupolo, incoraggiandoli, agli atteggiamenti anti-Stato, anti-nazione, xenofobi, tribali della parte più incolta di alcune regioni del Nord, particolarmente quelle prive di storia e tradizione di tipo statuale. Le patologie dell'Italia come Stato e l'atteggiamento verso lo Stato della sua città più ricca, più evoluta e più aperta internazionalmente, sono due fenomeni complementari. Le influenze negative sono andate nei due sensi e invece di correggersi vicendevolmente si sono purtroppo rafforzate l'una con l'altra. È perciò del tutto impensabile che lo Stato italiano possa guarire dei suoi mali senza il contributo determinante di Milano. | << | < | > | >> |Pagina 14Lo studio ha preso pertanto in considerazione il periodo che va dal Comune alla nascita della Repubblica italiana, ma si è concentrato sul Cinquecento — l'avvio della dominazione straniera —, sul Settecento — i caratteri del particolare "ancien régime" milanese e il suo tramonto con le riforme teresiane —, sul Risorgimento, sul periodo della "capitale morale", e sulla fine dello Stato liberale. Il risultato è una narrazione che si sviluppa attraverso la lettura delle opere degli storici maggiori, da Pietro Verri a Carlo Capra, da Benedetto Croce a Federico Chabod, da Rosario Romeo a Franco Della Peruta, da Fausto Fonzi a Giorgio Rumi, a Claudio Pavone. Il Seicento è stato illuminato dalle pagine immortali di Alessandro Manzoni.
L'immersione nella storia milanese dimostra come i mali del
berlusconismo — il disprezzo propagandistico della politica,
l'evasione fiscale, l'alleanza con le gerarchie ecclesiastiche, un
governo che favorisce l'interesse privato, l'illegalità e l'ingiustizia — siano
i caratteri che distinguono il regime patrizio dalla
perdita dell'indipendenza alle riforme teresiane. In particolare,
gli studi di Carlo Capra approfondiscono ed aggravano la denuncia indignata che
emerge dal romanzo storico del Manzoni
e aiutano a capire l'immagine di una città che era come una
pentola alla quale è saltato il coperchio, ovvero dove le cosiddette classi
dirigenti nei momenti critici erano solite eclissarsi.
L'"ancien régime" milanese prevedeva infatti che alla potenza
occupante competessero il monopolio della violenza e l'approvazione del
bilancio — in pratica la determinazione del prelievo
fiscale. Alle gerarchie locali, ossia al patriziato, competevano
invece la distribuzione del carico sui sudditi, nonché l'amministrazione della
giustizia. Grazie a questo sistema di governo,
al quale era funzionale la giustizia pasticciona e corrotta degli
azzeccagarbugli — la figura tipica del giurista milanese dell'epoca — il ceto
dominante aveva carta bianca nella difesa dei propri privilegi senza sopportarne
i costi politici che venivano scaricati sull'occupante.
Con le riforme attuate dall'assolutismo illuminato austriaco, e poi da Napoleone, il quadro comincia a cambiare e riaffiora la passione politica: Vincenzo De Miro, Gian Luca Pallavicini, Pompeo Neri, Giuseppe Cicognini, Pietro Verri, Cesare Beccaria, Alessandro Manzoni, Gian Domenico Romagnosi e Carlo Cattaneo sono gli artefici del risveglio culturale e civile di Milano. L'ideale che li unisce non è la rivoluzione, ma l'incivilimento. Anche il vecchio ceto patrizio subisce finalmente il fascino della modernità, e dopo le Cinque giornate abbraccia la causa di Cavour. Il progresso economico, culturale e civile di Milano continua nei primi decenni dopo l'Unità — è il periodo della "capitale morale" — parallelamente alla costruzione del nuovo Stato; ma verso la fine del secolo si delinea una sorta di restaurazione. A Roma le imprese coloniali rafforzano il militarismo della dinastia sabauda, a Milano prende corpo l'ipotesi clerico-moderata, geneticamente antirisorgimentale, che si realizzerà pienamente con il fascismo e con la Conciliazione. Il vecchio patriziato cede il campo a un nuovo ceto di industriali arricchitisi con il protezionismo e con le commesse militari: non è tutta la classe imprenditoriale, ma una componente sufficientemente influente da portare il Corriere della Sera su posizioni anti-giolittiane e successivamente interventiste. Lo spartiacque che segna l'inizio della nuova restaurazione viene localizzato nel maggio 1898 — il massacro condotto agli ordini di Bava Beccaris. Da allora frequenti sono stati i tentativi congiunti di distruzione dello Stato ad opera del governo romano e della destra reazionaria e clericale milanese. | << | < | > | >> |Pagina 27Quando Manzoni nasce, il Senato, bastione dell'ingiustizia milanese, è ancora in attività – verrà soppresso l'anno dopo, nel 1786. Illuminano gli elementi di continuità fra le due epoche – la spagnola e l'austriaca della Restaurazione post-napoleonica – gli studi di Carlo Capra sulla Milano del Settecento, di cui si dirà tra poco. Completa l'interpretazione di Sapegno l'essenziale ritratto politico del Manzoni. L'immagine, più somigliante a un Cattaneo che a un patrizio filo-piemontese, rafforza l'idea che nel romanzo si realizzi la missione civile dello scrittore: la città era posta davanti a uno specchio che non lasciava dubbi sulla necessità di interventi radicali. Quasi due secoli dopo, l'identificazione è meno immediata, perché le gerarchie non sono più le stesse, e perché arbitrarietà di governo, anarchia popolare e legislazione sbalorditiva sembrano oggi vizi dello Stato nazionale più che della città. Guardando con attenzione, si può però notare che le gerarchie di ieri e di oggi hanno un tratto in comune: non sono classe dirigente. Il patriziato, oltre ad anteporre i propri interessi a quelli pubblici, mancava di un carattere fondamentale che Pompeo Neri, uno degli artefici del catasto teresiano, citato da Capra, definiva così: "quella parte di autorità, che è direttiva, e che tende a prevenire il male innanzi che segua, e che procede da quel diritto di tutore e di padre, che il Principe ha sopra il patrimonio delle comunità sue suddite". La lungimiranza è ritenuta carattere fondamentale della classe dirigente anche da Benedetto Croce, le cui parole riflettono il mutato clima politico e culturale: "La classe colta e dirigente non merita tal nome, se non supplisce con la propria coscienza alla coscienza ancora manchevole e non ancora formolata delle classi inferiori e non ne anticipa in qualche modo le richieste suscitandone persino i bisogni, né, in ogni caso, dà prova di avvedimento politico, se aspetta di essere sforzata alle riforme". Dopo l'Unità, a giudicare dal contributo di Milano alla classe dirigente del Paese, che, come noterà Giorgio Rumi, è stato episodico e tendente a zero, si deve dedurre che le gerarchie milanesi abbiano cambiato il pelo – da agricolo-commerciale a industriale-terziario-finanziario –, ma non il vizio di occuparsi esclusivamente del proprio "particulare". Dello stesso Rumi è anche l'osservazione che "già Napoleone aveva deprecato la vincente propensione dei milanesi per la famiglia e il patrimonio"Scrive Sapegno:
"[Manzoni] respinse sempre ogni pretesa ecclesiastica di governo
temporale, nonostante i cedimenti e le propensioni al compromesso
di molti fra i suoi stessi amici e familiari; rimase a lungo ostinatamente
fedele alle sue convinzioni repubblicane e soltanto tardi,
e con molte riserve, si piegò ad accettare la soluzione monarchica
e piemontese in omaggio a un'esigenza unitaria; non rinnegò mai,
in sede politica, il suo anticlericalismo e, sul piano della lotta delle
idee, il suo criterio di liberale tolleranza; perfino il suo sentimento
della storia, pessimistico e ironico, è più volterriano che romantico,
e il suo concetto della politica, antidemagogico e paternalistico,
nazionale senza nazionalismo, è di schietta ascendenza illuministica."
Pietro Lorenzetti precisa ulteriormente la posizione politica del Manzoni – l'obiettivo della lotta è un'ltalia libera, non la sostituzione dell'Austria con il Piemonte: "La visione unitaria di Manzoni non è da confondere con una posizione filo piemontese. Egli infatti, fin dai primi giorni dell'insurrezione [le Cinque giornate], firmò l'appello alla guerra federale redatto da Cattaneo (che pure invocava in particolare l'aiuto del Piemonte) e affermò che voleva un Italia libera, non un Piemonte allargato." | << | < | > | >> |Pagina 207CAPITOLO 14
Le contraddizioni della Milano anti-crispina
Più solidi sono gli argomenti di Croce contro l'ipotesi regionalista o federalista, in difesa della decisione di accentrare l'amministrazione dello Stato: "In Italia, allora, assai si trattò delle autonomie amministrative e dell'autogoverno all'inglese o all'americana, e parve che in ciò fosse una grande nostra manchevolezza e insieme l'aspettazione di un sommo beneficio. Ma lo storico deve dire che, se di tali istituzioni ci fosse stato bisogno, l'Italia se le sarebbe create, e le voci dei richiedenti e proponenti non sarebbero rimaste, come rimasero, lodate e inascoltate, perché sarebbero venute in aiuto di un processo già in corso; e che, d'altra parte, l'ammirazione suscitata da quelle istituzioni di altri paesi (non perpetue, del resto, ma anch'esse transeunti) non deve nascondere agli occhi tutto l'autogoverno che ci è sempre nelle intraprese economiche e sociali e nelle opere della cultura e della scienza e dell'arte e simili, e che allora, in Italia, con la vita libera, crebbe e non diminuì. [...] Nei due anni, tra il 1859 e il '61, le varie parti del nuovo stato furono saldate fra loro con una vera rivoluzione, che non solo sovvertiva totalmente i trattati del 1815, ma sforzava la volontà dell'Inghilterra e più ancora della Francia, che avrebbero voluto la federazione e non l'unità, o almeno due regni, dell'alta Italia e della meridionale; eppure tutto ciò fu condotto con tanta avvedutezza che parve come se si facesse così risolutamente e in fretta per la sollecitudine di impedire il dilagare dello spirito rivoluzionario e contribuire all'ordine in Europa. [...] Il regionalismo, ossia i contrasti d'interessi, che già allora si accennarono tra alcune regioni, specie tra mezzogiorno e settentrione, e riceverono maggiore rilievo più tardi, non divenne mai contrasto politico, neppure come vago desiderio di separazione o di diversa unione. L'idea repubblicana, del resto, aveva avuto la sua forza in Italia nella concezione rigidamente unitaria, sorta nel crollo delle Repubbliche cisalpina, cispadana e partenopea, e continuata precipuamente dal Mazzini con la Giovine Italia; e, per avere riposto il punto saliente nell'unità, rese agevole il passaggio di molti dei suoi uomini principali e della maggioranza dei seguaci all'unità attuata per mezzo della monarchia. [...] E le parole 'decentramento' e 'autonomia' riecheggiarono nei programmi dei vari partiti come un ritornello che si ripeteva senza che vi si prestasse fede e al quale nessuna dava un senso determinato. [...] Ma una vita sociale e culturale comune non è veramente effettiva senza la base dell'unità statale, con comuni interessi politici, comuni fortune e sfortune, con la collaborazione delle varie parti agli stessi fini." | << | < | > | >> |Pagina 213Sulla stessa lunghezza d'onda è Fausto Fonzi che alla Milano del periodo crispino ha dedicato un intero volume. Scrive infatti Fonzi:
"Credo che ci si avvicini di più alla verità considerando la conclusione
della crisi del 1896 [caduta del governo Crispi] come
una vittoria di Milano e di ciò che la grande città lombarda in
quel momento rappresentava. Anzitutto di Milano come capitale
del Nord, ma pure come centro di un fronte antigovernativo, che
al programma di Crispi opponeva una richiesta di libertà e di
autonomia, di economie e di pace, di raccoglimento e di lavoro.
[...] Proprio la borghesia più matura e avanzata, là dove tutto
il popolo aveva raggiunto un alto grado di consapevolezza e di
partecipazione alla vita pubblica, contrappose al programma stoltamente
avventuroso di Crispi una linea politica seria e concreta, di
pace e di libertà, cioè di vero progresso. E solo in questo senso si può
dire che nel marzo del 1896 si ebbero una sconfitta della reazione
e una vittoria della democrazia. La disfatta di Crispi aprì la via
ad un più libero sviluppo e ad una maggiore influenza politica dei
più coraggiosi gruppi capitalistici e industriali lombardi e ridiede
l'ossigeno della libertà alle forze politiche di opposizione ancora
estranee all' 'Italia legale', ma ben vive nella società milanese e già
mature, almeno a Milano, per l'immissione entro l'alveo della legalità
costituzionale."
Sono giudizi forti, per così dire, quelli di Fonzi. Quanto siano fondati, lo si vedrà nel seguito. I dubbi non nascono, come si può immaginare, dalla critica dell'operato di Crispi, ma dalle motivazioni degli oppositori. L'autore può parlare di vittoria di Milano, perché qui l'arco delle forze anticrispine era molto ampio, andando dai liberali di Colombo, il personaggio intorno al quale si riuniva la borghesia industriale, ai socialisti di Turati; in mezzo stavano democratici, repubblicani e radicali, ossia i gruppi che formavano la Sinistra parlamentare. I primi dubbi sulle virtù milanesi sono sollevati da questa affermazione:
"In realtà i milanesi preferiscono subire nuove accuse di tradimento
dei valori patriottici, dell'unità e indipendenza della patria, pur di
non cedere, attraverso le declamazioni ghibelline e neopagane organizzate
nell'urbe, alle lusinghe della dittatura e del colonialismo."
Queste parole si riferiscono alla celebrazione del 25° anniversario della breccia di Porta Pia, cui Milano assiste con fastidio. È in particolare l'atteggiamento di repubblicani e socialisti a sorprendere:
"Se i moderati son trattenuti dal partecipare con entusiasmo alle
celebrazioni romane dalla repugnanza per tal genere di manifestazioni
anticlericali e dal desiderio di conservare legami almeno
amministrativi con i cattolici, anche all'Estrema Sinistra e soprattutto fra
repubblicani e socialisti la celebrazione del 20 settembre
è denunciata come un nuovo tentativo, come una nuova manovra
monarchica e crispina, diretta a creare il clima per una ripresa militarista e
per il varo di pericolose avventure mediterranee e africane. [...] La
popolazione milanese rimane indifferente ed estranea,
quasi ostile all'iniziativa del governo, che appare tipicamente meridionale e
romana, lontana dalla sensibilità del popolo milanese.
[...] La repubblicana Italia del popolo esalta l'indifferenza dei
milanesi, chiedendo retoricamente: 'Milano, città sodamente liberale, che per la
libertà ha dato in ogni tempo il suo miglior sangue,
poteva in siffatto momento e sotto tali auspici, unirsi alla gazzarra
settembrina di Roma?' [...] Ancor più insensibili all'appello anticlericale del
governo crispino erano certo i socialisti milanesi. Nelle
feste di Roma essi non riconoscono un momento della lotta per
la libertà della coscienza e per la distruzione del Papato (perché
Crispi ha sempre dei rapporti segreti coi clericali e sul Gianicolo
giunge a esaltare l'autorità dei Papi), ma soltanto un tripudio della
borghesia monarchica e unitaria, che opprime il popolo italiano,
un trionfo della prepotenza meridionale, uno stimolo e un invito
a pazzesche e ingiuste imprese coloniali nel nome dell'antica Roma
imperiale. [...] 'Il 20 settembre, simbolo del compimento dell'unità che ci ha
disuniti, che ha sovrapposto un minuscolo sciame d'arpie all'immenso popolo
degli squallidi lavoratori italiani, non può essere per questi che giorno di
raccoglimento e di protesta'.
[da La Critica Sociale]"
Si potrebbe già concludere che questi brani raccontano, né più né meno del leghismo di oggi, la storia di una provincia, non di una capitale morale. Anche senza anticipare le conclusioni, non si può tuttavia ridurre la portata dell'impressione negativa: le forze che dovrebbero contrastare i vizi storici del conservatorismo lombardo – il clericalismo e un autonomismo antistatale – sembrano esserne diventate le alfiere. Il disprezzo per i simboli della lotta per la laicità dello Stato è infatti aggravato da un inquietante spirito antiunitario. Di questo si ha conferma a più riprese nel volume di Fonzi – ecco, ad esempio, come l'organo dei repubblicani milanesi, ossia di quelli che avrebbero dovuto essere gli eredi di Cattaneo, ma anche di Mazzini, commentava la decisione di Crispi di sciogliere organizzazioni anarchiche e circoli socialisti: "La reazione, salita dal medioevo siciliano, dal regno del feudo e del latifondo, da quella che ancora pur troppo potrebbe chiamarsi la Africa italiana, e che, organizzata poderosamente in Parlamento, tiene vassallo a sé qualunque ministero, veniva investendo a poco a poco tutto quanto il paese, per le vie che le spianava il nostro dispotico e asfissiante unitarismo accentratore, e, dopo essersi indugiata nell'Italia centrale, invadeva la Liguria, il Veneto, il Cremonese cogli scioglimenti parziali e le assegnazioni scellerate al domicilio coatto, e, benché attenuata qua e là dall'influsso degli ambienti, non risparmiava più il resto dell' Alta Italia."
"Nel numero dell'Italia del Popolo dell'8-9 gennaio [1895] appare
infatti l'articolo 'Morale nord e morale sud', che sarà al centro della
campagna antimeridionalista delle sinistre milanesi. Così scriveva
l'articolista repubblicano: 'Anche a parte la quistione individualizzata in
Crispi, c'è, in fatto di criteri morali, tra il nord e il
sud dell'Italia, un enorme distacco, un abisso insormontabile. Il
mal raffazzonato unitarismo politico, nel quale la nazione da 35
anni si dibatte, nonché attenuare questo distacco, e colmare questo
abisso, l'ha reso ancora più profondo ed evidente'."
Alla faccia dell'impegno per l'incivilimento! I socialisti milanesi dal canto loro, oltre ad anticipare quello che sarà un vizio della sinistra italiana — la tendenza a mettere in secondo piano il principio di laicità — teorizzano la priorità dell'alleanza con la borghesia industriale del Nord sulla lotta di classe. In altre parole, i proletari del Sud sono considerati un intralcio sulla via del progresso:
"Alla campagna antimeridionalista dava subito il suo apporto anche la
Critica Sociale, che il 16 gennaio [1895] così definiva i
caratteri della lotta politica, che allora si svolgeva in Italia: 'È la
lotta fra il medio-evo feudale, che domina nel meridione e spande
le sue propaggini in tutta la campagna italiana, e gli inizi dell'età
moderna, della fase industriale, che albeggia nelle plaghe più civili
e più colte specialmente del settentrione. Fra queste due civiltà, o
piuttosto fra questa incipiente civiltà e quella putrefatta barbarie,
la lotta è disegnata ormai: sono due nazioni nella nazione, due
Italie nell'Italia, che si disputano il sopravvento. Bene avvertiva
giorni sono l'Italia del Popolo che, fra queste due nazioni, diverso
ed opposto è financo il concetto e il sentimento della morale.' [...]
Per Turati e i suoi amici tutti i mali non provengono più dalla borghesia, ma
'dal forzato e antifisiologico accoppiamento del decrepito
mezzodì coll'acerbo settentrione', 'dall'onda putrida di medioevo
che vien su dal meridionale': 'La borghesia, la vera borghesia (...)
non ha nulla o ha poco a che vedere con le ribalderie e le briganterie
dei cafoni e dei guappi, che hanno fatto del Crispi il loro picciotto
di sgarro' e che, impostisi con ogni frode più lercia a una vasta
parte del paese, ove gli analfabeti sono l'80% e gli elettori il 3%
dei vivi, s'impongono di rimbalzo, con la forza bruta del numero,
all'Italia civile e vi menano ogni disastro. Egli è che, nel nostro paese, per
vicende storiche speciali e per differenze demografiche mal
vinte dalla camicia di forza unitario-monarchica, abbiamo una
fusione, anzi un mescuglio, del vecchio col nuovo, nel quale i vizii
di quello si servono degli artigli e della potenza di questo. Laggiù,
dove non erano industrie, né cultura diffusa, né iniziativa e vigoria
di razza e tradizioni operose per fondar quelle e conquistar questa, è venuta
su, dall'emulazione dei rapidi guadagni, dall'invidia
delle ricchezze dell'Italia superiore, una razza di avventurieri e
ciurmadori rifatti, i quali, senza professione economica, né voglia,
né potere di abbracciarne una pur che sia, per sbarcare il lunario
splendidamente, al modo dei borghesi inciviliti, s'appigliarono alla
vita politica'."
"I socialisti non approvavano soltanto, in quel difficile momento, la
lotta di Colombo in difesa della libertà, ma pure la sua campagna
per lo sviluppo di una moderna borghesia capitalistica e per l'egemonia sulla
penisola di una Milano progredita e industriale. [...]
Secondo Turati tutti i socialisti italiani devono prendere posizione
e combattere per Cavallotti contro Crispi, per il Nord progredito e
borghese contro il Sud arretrato e feudale. [...] 'Stimiamo — scriveva
Turati — che, tra una borghesia illuminata, industriale, laboriosa,
moderna, e una pseudo-borghesia affarista, corrotta, medioevale,
usuraia, convenga meglio a noi, al nostro partito, all'avvenire del
paese, aver da subire e da combattere quella che questa'. Si tratta
insomma di favorire e affrettare il successo dell'avversario di domani. E
accanto al motivo democratico, dell'opposizione anticrispina e
antimeridionale sulla base di principi morali e politici, per l'onestà
e per la libertà, è qui presente una giustificazione economica e
marxista per l'adesione dei socialisti a un fronte settentrionale (ma
legato a Rudinì) contro la pseudo-borghesia meridionale crispina. [...] Turati
accusava invece i suoi contraddittori di retorico
patriottismo, là dove s'imponeva invece una realistica diagnosi,
non dettata certo da 'sciovinismo regionalistico', ma dalla considerazione
d'interessi collettivi economici, che dovevano indirizzare
i socialisti o verso un regime unitario sotto l'egemonia lombarda
(cioè dell'Italia superiore e civile) o verso il riconoscimento della
già evidente separazione fra le due Italie: 'Quando le differenze fra
regione e regione rimbalzano sul terreno politico, per modo che si
imponga all'Alta Italia la camicia di forza necessaria alla legittima
difesa degli usurai di Sicilia, allora il problema cambia aspetto. Si
capisce una unità che aiuti il debole e lo civilizzi, ma un'unità che
imbarbarisca tutti quanti è meno preziosa. La ribellione allora
è inevitabile e sarà vincitrice, perché non è soltanto ribellione di
sentimenti morali, ma è soprattutto di interessi collettivi economici
(...). Noi non pretendiamo di promuovere un movimento separatista od affine;
diciamo che il movimento esiste già, benché allo
stato latente, nella natura dei rapporti economici: molto strame di
retorica patriottica lo dissimula agli occhi disattenti; ma esso fa la
sua via. Ed è ufficio di buoni semafori il segnalarlo."
Parole inequivocabili quanto rivelatrici di improvvisazione, in sintonia con la filosofia del tempo, il pragmatismo. L'antagonista di Turati nel partito era Antonio Labriola, il quale pure era anticrispino, ma sosteneva anche che se Crispi aveva scelto Milano come banco di prova voleva dire che la città non era poi quella punta avanzata del progresso e della morale che Turati immaginava. Milano ancora una volta "clef d'Italie", dunque, e terreno propizio per un tentativo di restaurazione: "Il trionfo crispino e clerico-moderato avrebbe confermato, secondo Labriola, il carattere semifeudale di quella Milano, che Turati osava esaltare come città precorritrice, come città guida per l'intera penisola: 'Le elezioni milanesi confermano come Milano sia la più bella Napoli di tutte le Spagne di questo mondo'." Il riferimento di Labriola è alle elezioni amministrative del febbraio 1895, quando un'inedita alleanza tra conservatori e cattolici, promossa da Crispi, aveva avuto la meglio sull'ampio schieramento anticrispino. | << | < | > | >> |Pagina 249CAPITOLO 16
Ritorno al passato: l'integralismo postconciliare di CL
[...] Ma Montini e i suoi successori Colombo e Martini non hanno la tempra di san Carlo, così l'integralismo di Ratti e Gemelli rialza la testa, e con Comunione e Liberazione assume le vesti postconciliari di un'organizzazione laicale che imita i movimenti fondamentalisti nordamericani, tende al settarismo, è determinata a tradurre la disciplina interna in forza elettorale. Scrive Enrico De Alessandri:
"In CL c'è la pretesa, osserva il professor Enzo Pace, di essere
'l'avanguardia dei puri', gli annunciatori di un messaggio di riforma
che nessun altro gruppo di cattolici è oggi in grado di proporre...
Il tratto che abbiamo appena detto, unito alla sindrome da accerchiamento che
sta all'origine del movimento, producono inevitabilmente una concezione di
'ecclesia' che presenta molti aspetti del
tipo setta: a CL si aderisce volontariamente, ci si converte alla sua
teologia, si milita nelle comunità da essa disegnate, ci si serve dei
servizi sociali che essa offre, si leggono le riviste, i giornali e i libri
da essa pubblicate nei circuiti controllati dal movimento...'. [...]
Il noto studioso evidenzia numerose analogie tra CL e i movimenti
fondamentalisti evangelici statunitensi: dalla lotta contro il
comune Nemico (secolarismo e modernità) alla comune tendenza a
considerare l'arena politica come luogo 'decisivo' per l'affermazione
del loro messaggio salvifico, alla capacità di entrambi di impressionare i media
e di usarli per aumentare il loro potere in quanto lobby di pressione politica.
[...] Ottaviano Franco evidenzia
chiaramente questa impostazione mentale settaria: 'CL non lascia
mai solo il suo militante. Dalla scuola lo segue all'università, nel
lavoro, nella famiglia. (...) A ogni tappa della vita umana il confronto con
l'esterno si riproporrà ma, nel mutarsi delle situazioni,
la risposta di CL sarà analoga: costruire il proprio pezzo di società
autoregolata e difesa, anche economicamente, dal resto del mondo'.
Questa tendenza a considerare il resto del mondo come qualcosa di
estraneo, ha un suo immediato riflesso nel modo di intendere e di
gestire la cosa pubblica e sfocia, inevitabilmente, in una gestione
del potere che non trova riscontro in nessun altro sistema politico
del continente europeo. [...] 'L'enfasi posta sul momento comunitario, l'assenza
di chiare e pubbliche architetture organizzative,
l'esaltazione della natura 'movimentista' del gruppo consentono ai
leader di CL di evitare ( ..) l'adozione di procedure democratiche
per l'assunzione delle decisioni e per la selezione della leadership.
(...) CL può pertanto essere visto, in una prospettiva orizzontale,
come un insieme di comunità religiose di base, alle quali tuttavia
non viene riconosciuta nessuna autonomia ideologica. L'imperativo
funzionale di ciascuna di esse consiste nella diffusione di un identico
messaggio ideologico, nell'applicazione di un comune e rigido
metodo pedagogico e financo di una marcata omogeneizzazione
linguistica'. [M. Marzano, Il cattolico e il suo doppio] [...] Come
molte altre sette, CL si caratterizza per un profondo atteggiamento
di chiusura nei confronti del mondo edificando quel 'sistema protettivo' che la
separa, anche economicamente, dal resto del mondo.
Sulle questioni di affari CL si dimostra viceversa aperta a 360
gradi verso qualsiasi interlocutore prescindendo totalmente dalla
sua collocazione politica e dalla sua stessa fede o appartenenza religiosa.
[...] Al pari di molte altre sette, CL è dunque organizzata
secondo un modello piramidale; la circolazione delle informazioni
è rigidamente selezionata; le decisioni appaiono ai militanti 'il
prodotto di organismi impersonali, dei quali si ignora addirittura la
composizione' e l'unica risorsa per progredire all'interno del
movimento è la fedeltà acritica, l'obbedienza da 'cadavere'. [...]
Ritengo ancora opportuno adattare a CL le considerazioni espresse
da Maria Luisa Maniscalco sulle sette: '[...] Ipnotizzati dalla luce
del loro ideale, immobilizzati nei confini della propria cerchia, sotto lo
sguardo indagatore dei propri 'fratelli' e sotto il loro pressante
invito a rinnovare il patto che li lega, i settari si sentono svincolati
da ogni precedente dovere di lealtà, da ogni norma morale che non
sia quella del gruppo'."
De Alessandri sottolinea giustamente il carattere antimodernista di CL: laicità dello Stato e libertà di coscienza sono infatti errori da combattere per i seguaci di don Giussani. Ciò non toglie che anche loro siano figli del Novecento, in particolare di quell'irrazionalismo che, come ha osservato Croce, conquistò all'inizio del secolo la scena culturale e politica. La modernità di CL è visibile nell'uso della propaganda, e nell'aver compreso l'insegnamento di Gaetano Mosca che in un libretto pubblicato nel 1900, dal titolo Che cosa è la mafia, metteva in luce il peso che in una democrazia hanno le minoranze organizzate:
"Già il sistema rappresentativo, benemerito per altri rapporti,
sotto colore di attuare un governo di maggioranza, dappertutto
dà una prevalenza alle minoranze organizzate. Or si comprende
agevolmente che nei paesi dove erano già organizzate le minoranze
composte da coloro che usano rasentare il delitto, e qualche volta
delinquono addirittura, questi abbiano acquistato una importanza
elettorale assai superiore alla loro forza numerica."
Scrive De Alessandri:
"Una minoranza attiva 'perfettamente addestrata' e organizzata
che pensa e crede in modo 'dogmatico' e fortemente determinata nel trasferire i
suoi 'dogmi' nella sfera della politica, prevarrà
sempre su una moltitudine infinitamente più numerosa ma non
altrettanto coordinata sul fronte dell'azione resistenziale. [...] La
debolezza intellettuale di una certa classe politica lombarda ha
indubbiamente contribuito a consolidare il potere monopolistico di
CL nelle pubbliche istituzioni. Ma il punto che si vuole evidenziare
è questo: la conquista del potere da parte di CL è opera di una
minoranza attiva, organizzata e disciplinata. [...] 'Mi sembra
che numerose siano le analogie culturali tra il pensiero vitalista e
volontarista degli anni venti che offrì il supporto ideologico all'affermazione
dei movimenti totalitari e la 'filosofia dell'azione' di
Giussani'. [M. Marzano, op.cit] 'È un'immagine da macchietta
quella che Giussani offre del mondo moderno (...) L'armamentario
ideologico di Giussani è, in realtà, nel migliore dei casi, terribilmente
datato, privo di qualunque attenzione alla complessità dei
problemi e all'ambivalenza delle soluzioni, culturalmente attestato
sulle posizioni del Sillabo e dell'antimodernismo ottocentesco'
[M. Marzano, op.cit]."
Una politica ispirata dal settarismo non può che risolversi in un regime clientelare a beneficio di amici e amici degli amici. Diversamente da altri regimi clientelari, quello instaurato da CL in Lombardia mostra però anche gravi aspetti di oppressione ideologica. La vernice propagandistica che maschera questa realtà è uno pseudo-liberalismo, al centro del quale ci sono la cosiddetta sussidiarietà e la formula pubblico/privato. De Alessandri spiega come funziona:
"L'aspetto più preoccupante di CL risiede nella sua spietata tendenza ad
imporre un 'pensiero unico' all'interno delle pubbliche
istituzioni; è fin troppo noto il clima opprimente che si respira nelle
pubbliche aziende ospedaliere dove comanda CL. A cominciare da
un grande ospedale come il Niguarda di Milano, dove il Direttore
Generale, Cannatelli, ostenta enfaticamente la sua appartenenza
a questo movimento. [...] Gli effetti dell'avanzata dell'integralismo
cattolico sono documentati anche dalla difficoltà di applicare la
legge sull'aborto, che l'anno scorso hanno innescato un durissimo
scontro sindacale. I ginecologi assunti negli ultimi dieci anni sono
tutti obiettori. [...] Se all'interno del Niguarda 'chi parla teme ritorsioni e
chiede la garanzia dell'anonimato', ancor più minaccioso
è il clima che si respira all'interno delle sedi della Regione Lombardia. [...]
Corre un detto negli ospedali pubblici: se non si è ciellini
non si diventa primari. [...] Un'occupazione militare ciellina della
struttura dirigenziale regionale (dai Direttori Generali ai dirigenti
delle Unità Organizzative nei più importanti assessorati) consente
al Governatore lombardo di esercitare un potere incontrollato e, come tale,
assoluto, su una Regione che gestisce un bilancio di oltre 20
miliardi di euro. [...] Formigoni ha costruito un'immensa gestione
clientelare della cosa pubblica: amministratori di società a capitale
pubblico nominati direttamente dalla Regione, super-consulenti
non necessari e dalle retribuzioni altissime, enti regionali assolutamente
inutili per la collettività ma decisamente utili per premiare
gli affiliati a CL. [...] Negli ultimi sette anni la Regione Lombardia
ha versato un milione di euro nelle casse dei Meeting di CL! [...]
L'inganno che caratterizza il modello formigoniano è del tutto evidente: in nome
di una presunta sussidiarietà si toglie al pubblico
per dare al privato ma, nel contempo, si destinano i finanziamenti
pubblici a tutto vantaggio di pochi. I ciellini bruciano incenso
sull'altare del 'privato' ma prosperano sul 'pubblico' in nome del
'privato'. [...] Esternalizzando i servizi sociali in favore di certe
imprese private e organizzazioni non profit, e legando strettamente
le stesse all'Amministrazione, certo mondo 'cattolico' vive della gestione dei
servizi (ex) pubblici: un colossale affare che porta entrate
sia dal versante della stessa Pubblica Amministrazione che paga,
cospicuamente, ciò che non può più fare in proprio, sia dal versante
dell'utenza che si vede costretta a 'contribuire', con le proprie rette,
alla gestione privatistica dei predetti servizi pubblici. [...] Un dossier del
ministero dell'Economia mette in luce l'intreccio di interessi
economici, con uso improprio di soldi pubblici, che si nasconde
dietro la riqualificazione di uno dei più importanti ospedali del
Nord Italia, il Niguarda."
È però Ferruccio Pinotti, in un altro libro-inchiesta, a cogliere la sostanza della politica ciellina. Questa ha infatti lo stesso obiettivo della Lega (e, andrebbe aggiunto, di Berlusconi che con la sua azione eversiva è stato il motore dell'alleanza): l'indebolimento dello Stato, il suo assoggettamento agli interessi particolari – l'autore usa il termine destrutturazione che è abbastanza comune in psicologia e psichiatria, per esempio nell'espressione "la destrutturazione della personalità". In questo senso, tutti tre i movimenti hanno evidenti radici nella tradizione dell'autonomismo lombardo, della "società senza Stato". Pinotti prende spunto da un discorso di Vittorio Messori che al Meeting di Rimini del 1990 disse: "Questo, se ci pensate, non fu solo il dramma, ma il crimine del Risorgimento, quello di lottare contro la sola cosa che in fondo univa gli italiani. Dalle Alpi all'Illibeo, cosa univa gli italiani? La cucina? La cultura? La lingua? Le istituzioni? No. Nulla ci univa se non il solo legame dato da una fede che non a caso si chiama cattolica, cioè universale. Eppure fu proprio questo il legame che le logge, le minoranze che ci imposero quel tipo di unità, cercarono di distruggere'. Così il noto vaticanista arrivò alla conclusione: 'Ci vuole un'alleanza tra il movimento di Comunione e liberazione, la Liga veneta e la Lega lombarda al fine di riparare i guasti del suddetto Risorgimento'." L'autore commenta così queste parole: "Una proposta choc, che lì per lì non venne raccolta. [...] Ma quella previsione, a distanza di anni, sembra essersi configurata in pieno. Nella sostanza, infatti, essa definiva uno dei futuri punti di incontro tra Lega e Cl, ossia la destrutturazione dello Stato, attuata tramite il federalismo o la secessione per gli uni; e tramite il principio della sussidiarietà per gli altri, con la delega al sistema di potere di Cl e Cdo [Compagnia delle opere] di vasti pezzi della sanità e dell'assistenza sociale. [...] Comunione e liberazione si è convinta così che la Lega, sulla base di un comune sostrato culturale volto alla destrutturazione dello Stato centralista e all'affermazione di certi integralismi, poteva incarnare il vero orizzonte politico post-berlusconiano; la Lega, da canto suo, ha capito al volo che per 'ambire a diventare quello che trent'anni fa era la Democrazia cristiana' non poteva prescindere dal rapporto con un ambiente cattolico come quello di Cl, che 'continua a rappresentare un considerevole blocco sociale e, perché no, di voti'. Tutto questo alla faccia della coerenza, delle idiosincrasie storiche tra i due movimenti e anche degli insulti."
"Nell'affollatissimo auditorium [del Meeting] si sigla così, già
nell'estate 2009, un patto epocale, quello tra Cl e Lega Nord: insieme per
destrutturare lo Stato, per sminuzzarne le competenze e
gestirle a livello locale attraverso il braccio operativo di Comunione
e liberazione, la Compagnia delle opere. Le parole d'ordine sono
sussidiarietà e federalismo, ma la traduzione concreta di questi
concetti si articola nell'affidamento progressivo della sanità ai privati, nella
scelta dei docenti su base regionale, in lucrosi business
come quello dei trasporti e dell'energia, in trasferimenti di soldi a
società private che gestiscono pezzi sempre più ampi del pubblico.
[...] Finanza, affari e potere, quindi, più che grandi valori: 'È nel
linguaggio di un conservatorismo moderno che si esprime questa
strana indulgenza ciellina per i malfattori, contrapposta alla severità con cui
additano i moralisti'."
Nel caso di CL, il piede di porco per scardinare lo Stato è dunque la sussidiarietà, una parola che in diritto pubblico attiene alla distribuzione dei poteri fra governo centrale e amministrazioni locali, ma che nella dottrina cattolica diventa l'ambigua chiave di volta dell'artificiosa contrapposizione fra società e Stato. La sussidiarietà compie anche il miracolo di resuscitare i "corpi":
[Sussidiarietà] è la parola chiave di Cl. È l'anima della Compagnia delle
opere e il principio fondante di un network che unisce
imprese, banche, parrocchie, consultori, scuole, università, agenzie
di servizi, strutture sanitarie e decine di altre realtà — quelli che
all'interno di Comunione e liberazione sono chiamati 'corpi intermedi' — che
operano sul territorio, dalla Lombardia alla Calabria,
con un obiettivo ufficiale: il benessere del cittadino; e un fine nascosto: la
confessionalizzazione della società attraverso il controllo del
potere. [...] Comunione e liberazione è una macchina generatrice
di corpi intermedi. Privato sociale cattolico, parrocchie, consultori
confessionali, centri di aiuto alla vita, imprese legate alla Cdo,
ospedali guidati da ciellini: ecco i corpi intermedi, le esperienze
associative che dovrebbero educare e correggere l'uomo. Quello promosso da Cl è
però un privato tutt'altro che privato: un privato
assistito, controllato, favorito e selezionato. Come funziona? Quando Cl assume
il potere, come per esempio in Lombardia, i 'corpi intermedi' spesso si formano
e crescono non per libera iniziativa di
individui che si mettono insieme con obiettivi comuni, ma a seguito
di provvedimenti di spesa e legislativi della Regione. Parte da lì la
costruzione o ristrutturazione di oratori e di scuole private cielline,
di consultori privati accreditati, di aziende pubbliche o a partecipazione
pubblica, di strutture sanitarie accreditate e così via.
[...] Molte formazioni sociali, sostenute dal pubblico, diventano
strumenti ideali di raccolta di consensi, voti e preferenze. [...] La
sussidiarietà 'orizzontale', che è quella più sponsorizzata da Cl, prevede che
Stato e regioni sostengano i corpi intermedi rinunciando a
gestire direttamente molti servizi: gli individui in questa ottica si
aggregano dando vita a realtà associative intermedie (società miste,
consultori, scuole, università, agenzie, strutture sanitarie private o
parificate, partiti, ecc.). La sussidiarietà orizzontale contribuisce a
connotare le modalità dell'intervento pubblico tramite un coinvolgimento del
privato, che può anche sostituirsi all'amministrazione.
[...] Nell'interpretazione ciellina della sussidiarietà, l'iniziativa
privata non è solo indirizzata: i soggetti in campo sono scelti dalla
politica. Il privato viene selezionato sulla base dell'impronta confessionale
che può apportare alla società o sulla base della fedeltà
alla regia del movimento. Il privato viene dunque scelto, assistito
e perfino creato attraverso le nomine, l'impostazione dei bandi, gli
accreditamenti, i contratti, le convenzioni e la distribuzione della
spesa pubblica. [...] Per ogni struttura che eroga un servizio, specie
se finanziata con soldi pubblici, cioè dei cittadini, si dovrebbe essere
in grado di misurare il rendimento in termini di qualità. Questo
monitoraggio romperebbe il sistema delle clientele. Nel modello
della 'sussidiarietà ciellina' mancano però gli indicatori di qualità,
non sono definiti í risultati attesi e gli standard di prestazione cui
fare riferimento per poter apportare correzioni e migliorare la qualità dei
servizi. [...] Per gli amici del movimento, la libertà vera ha
sempre un solo contenuto e una sola direzione. Lo Stato è nemico
quando ha l'ambizione di essere l'unico portatore del bene comune,
diventa 'amico' quando lascia questo compito ai corpi intermedi,
al privato garantito, sostenendolo con fiumi di soldi. Il mercato è
nemico perché portatore dell'egoismo individualista, diventa amico quando si fa
strumentalmente riferimento alla bellezza della
libertà di iniziativa privata."
"Soltanto la sezione milanese della Cdo conta più di seimila aziende di
tutti i comparti e di tutte le tipologie, ma con una prevalenza
di quelle che operano nel campo dei servizi e con meno di dieci
dipendenti. [...] La Compagnia delle opere non ama il 'libero mercato', anzi lo
rifiuta, lo combatte apertamente: tutto deve muoversi
in un'ottica chiusa, estranea alla competizione, nell'ambito di una
'fratellanza' che paradossalmente somiglia molto a quella massonica, pur essendo
vestita di cattolicesimo integralista. [...] L'Europa
suggerisce di non creare inutilmente società 'pubbliche' e riarma
dunque la prevalenza della gara come metodo per l'attribuzione
della gestione dei servizi pubblici locali. In Lombardia, negli anni
della presidenza Formigoni, 8 dei 16 miliardi di euro di spesa sanitaria sono
passati ai privati. Di questi 8 miliardi, una buona metà
è confluita nella galassia ciellina, attiva anche in altri settori come
formazione, istruzione, volontariato e servizi alla persona di vario
tipo. [...] Alla sua [della Cdo] base sta la più antica delle tentazioni
imprenditoriali: proteggersi dall'aggressività del libero mercato
creando dei trust, dei cartelli. Stato e mercato, i due nemici della
'terza via' di Giovanni Paolo II sono gli stessi nemici della Cdo.
[...] Nell'ottica della Cdo, se il privato può occuparsi dell'assistenza
sociale, lo Stato deve restarne fuori: poco importa poi che in questo
modo la solidarietà divenga monopolio di un singolo ente, o di
una rete di enti collegati. [...] Le trasformazioni intervenute nella
rete ospedaliera vanno ricondotte alla 'rivoluzione' introdotta nel
luglio 1996 da Formigoni, quando la giunta regionale 'afferma il
principio di una piena parità pubblico privato, liberalizza l'erogazione delle
prestazioni di ricovero, accreditando tutta l'offerta
ospedaliera privata'. "
La testimonianza di Alessandro Cè, medico ed ex assessore leghista, conferma i mali della sanità lombarda: "Un bilancio amaro, quello di Cè; ma anche la rivendicazione della battaglia combattuta. 'Come assessore alla Sanità ho fatto una guerra vera, due anni di passione. [...] È tutto il sistema della sanità lombarda a essere inquinato: bisognerebbe cambiarlo completamente, non è sufficiente bloccare la singola delibera, o il finanziamento aggiuntivo alla clinica privata. Io l'ho fatto, ma se dietro non hai più il partito, se non hai le spalle coperte, c'è anche da avere paura. Ho cominciato a tagliare 10 milioni di euro qua, 10 milioni là, ma era un po' un'utopia: perché ha un senso restare in quella linea politica se hai dietro un movimento riformatore, non se sei un ostaggio e ti devi adeguare'. [...] L'abilità sta nel fare le regole giuste, in un ipertecnicismo giuridico finalizzato a favorire gli interessi di pochi. 'Tu fai un sistema nel quale i principi cardine sono: libertà di scelta (in sanità che vuol dire?), separazione acquirente-erogatore, parità pubblico privato (una barzelletta perché il privato tende a occupare i settori più redditizi, e al pubblico restano quelli più costosi), competizione (un'altra barzelletta, non c'è nessuna competizione). La libera scelta ha senso quando c'è un mercato vero. La sanità non è un mercato, è un quasi-mercato: che conoscenza ha il paziente della qualità delle cure? Zero. Cosa fa la Regione Lombardia per certificare la qualità delle cure? Zero. La Regione Lombardia ha un contratto di cinque o sei anni con ente di certificazione internazionale che però non valuta la qualità, ma soltanto i processi.' Si arriva così a situazioni paradossali, con 25 cardiochirurghi in Lombardia, mentre ce ne sono 23 in tutta la Francia. [...] Se tu in Regione non controlli, o fai finta di controllare, ecco che nascono i problemi. Formigoni si vanta di fare più controlli di tutte le altre regioni. Può essere vero, ma prima del caso Santa Rita le cliniche da ispezionare dovevano essere avvertite con quarantott'ore di anticipo. In secondo luogo, il controllo è formale: se ci si basa soltanto sulle cartelle, come fai ad accorgerti se è tutto sbagliato? E poi manca il confronto sul numero di interventi eseguiti nelle varie province, che è essenziale per scoprire le eventuali irregolarità'." | << | < | > | >> |Pagina 265CAPITOLO 17
Federalismo in salsa separatista
L'osservazione dello stato in cui è ridotto l'istituto regionale in Lombardia porta Franco D'Alfonso, assessore al Commercio del Comune di Milano, a emettere, in un articolo apparso su Arcipelago Milano nel gennaio 2012, un giudizio definitivo:
"La Regione Lombardia è un ente inutile che sta diventando dannoso e va
abolito! [...] Legittimo tentativo, ma tentativo fallito: prendiamone atto. Con
tanti rimpianti, ma con necessario realismo."
Rimpianti, perché D'Alfonso crede nelle autonomie locali.
Proprio per questo, per ritenere che
"il vero tappo all'efficienza, efficacia e autonomia del governo del territorio
stia proprio là, più che non tra le quasi abbandonate rovine istituzionali della
Provincia,"
ossia che la regione sia divenuta un impedimento all'esercizio del governo
locale per eccellenza, il comune, egli ne chiede l'abolizione.
Il giudizio di D'Alfonso, che trova fondamento anche in ciò che accade in altre regioni, è rafforzato dall'analisi di Sergio Rizzo che in un editoriale del Corriere della Sera del 23 agosto 2012 scriveva:
"La vera spending review decisiva per tagliare seriamente una spesa
pubblica capace di divorare metà della ricchezza prodotta nel Paese
è quella che dovrebbero fare le Regioni. Tutte: dal Sud al Nord. [...]
Nei dieci anni fra il 2000 e il 2009 la spesa pubblica regionale è
lievitata da 119 a 209 miliardi. L'aumento, per metà imputabile
alla sanità, è stato del 75,6 per cento. Tre volte e mezzo l'inflazione,
ma soprattutto il doppio rispetto alla crescita del 37,8 per cento
registrata da tutta la spesa pubblica italiana nel suo complesso. La
conclusione è semplice. Senza il contributo devastante delle Regioni
il rapporto fra spesa pubblica e Prodotto interno lordo sarebbe, al
netto degli interessi, più o meno lo stesso di una decina d'anni fa."
Nella conclusione del suo articolo, D'Alfonso si lascia però sfuggire una nota di provincialismo:
"In un'epoca di necessario ripensamento dell'architettura istituzionale
forse dobbiamo ricordarci che l'Italia è il paese dei campanili e
che le regioni, macro o micro, sono una sovrastruttura istituzionale
aggiunta ed estranea alla tradizione."
Parlare di campanili significa infatti rappresentare in modo caricaturale una storia di cui l'Italia può essere orgogliosa. È stato Carlo Cattaneo più di un secolo e mezzo fa, con il fulminante saggio La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, a spiegare che quella d'Italia è storia di città, e che il senso di appartenenza ad esse si estende dal cittadino al popolo delle campagne. L'artificiosità della regione viene affermata da Cattaneo in modo inequivocabile: l'identità lombarda non esiste. Scrive l'autore: "Fin dai primordii la città è altra cosa in Italia da ciò ch'ella è nell'oriente o nel settentrione. L'imperio romano comincia entro una città; è il governo d'una città dilatato a comprendere tutte le nazioni che circondano il Mediterraneo. La fede popolare derivò la città di Roma dalla città dAlba; Alba da Lavinio, Lavinio dalla lontana Troia; le generazioni dei popoli apparvero alla loro mente generazioni di città. Non così nascono, né così si rappresentano alle menti dei popoli, i regni di Ciro, di Gemscid, d'Attila, di Maometto, di Cinghiz-Khan, di Timur-Leng. Figli di tribù pastoreccie, vissuti sotto le tende, i conquistatori dell'Asia solo dopo le vittorie si fondano una sede di gloria e di voluttà in Babilonia, in Bagdad, in Delhi; le quali, come nota Herder, altro non sono che grandi accampamenti murati, ove l'orda conquistatrice raccoglie le prede della guerra e i tributi della pace." "Ai nostri dì ancora, per tutto il settentrione, la famiglia possidente ama stanziar solitaria in mezzo alla sua terra: suam quisque domum spatio circumdat (Tac.). Quivi ha la sua casa paterna, non una villa di temporario diporto; non tiene palazzo nella città più vicina; non cura aver consorzio e parentela cogli abitanti di questa. Le città sono mercati stabili, vaste officine, porti alimentati da lontani commerci; non hanno altro vincolo colle terre circostanti che quello d'un prossimo scambio delle cose necessarie alla vita, non altrimenti che navi ancorate sopra lido straniero. In Italia il recinto murato fu in antico la sede comune delle famiglie che possedevano il più vicino territorio. La città formò col suo territorio un corpo inseparabile. Per immemorial tradizione, il popolo delle campagne, benché oggi pervenuto a larga parte della possidenza, prende tuttora il nome della sua città, sino al confine d'altro popolo che prende nome d'altra città. In molte provincie è quella la sola patria che il volgo conosce e sente. Il nostro popolo, nell'uso domestico e spontaneo, mai non diede a sé medesimo il nome geografico e istorico di lombardo; mai non adottò famigliarmente quelle variabili divisioni amministrative di dipartimenti e di provincie, che trascendevano gli antichi limiti municipali. Il pastore di Val Camonica, aggregato ora ad uno ora ad altro compartimento, rimase sempre bresciano. Il pastore di Val Sàssina si dà sempre il nome d'una lontana città che non ha mai veduta, e chiama bergamasco il pastore dell'alpe attigua, mentre nessun agricultore si chiama parigino, nemmen quasi a vista di Parigi.
Questa adesione del contado alla città, ove dimorano i più autorevoli, i più
opulenti, i più industri, costituisce una persona politica,
uno stato elementare, permanente e indissolubile. Esso può venir
dominato da estranee attrazioni, compresso dalla forza di altro
simile stato, aggregato ora ad una ora ad altra signoria, denudato
d'ogni facoltà legislativa o amministrativa. Ma quando quell'attrazione o
compressione per qualsiasi vicenda vien meno, la nativa
elasticità risorge, e il tessuto municipale ripiglia l'antica vitalità.
Talora il territorio rigenera la città distrutta.
La permanenza
del municipio è un altro fatto fondamentale e quasi comune a tutte le
istorie italiane."
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