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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 9 I. L'eredità babilonese 17 II. Il disfacimento dell'impero ottomano 37 III. Operazione «Ezra e Neemia»: fuga agrodolce verso Sion 61 IV. L'ingresso dell'Iraq sulla scena palestinese 87 V. Ménage à quatre: USA, Israele, Iran e curdi iracheni 109 VI. La CIA dà una spinta a Saddam 133 VII. Il regno di Saddam (atto I): affari con gli USA, 155 guerra con Israele VIII. Il regno di Saddam (atto II): giochi di potere e guerra 185 IX. Il regno di Saddam (atto III): sconfitta e sfida, 1980-90 213 X. Gerusalemme-Washington: un'alleanza più stabile e forte 241 XI. Finale di partita: democrazia o smembramento dell'Iraq? 277 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Le esperienze di vita, di riflessione, di ricerca e infine di scrittura che portano alla realizzazione di un libro non sono tanto dissimili dai processi naturali che determinano la crescita e la fioritura di una pianta. Dopo oltre quarant'anni nei quali ho scritto della vita quotidiana, dei drammi, delle guerre e delle rivoluzioni del Nord Africa e del Medio Oriente, ho l'impressione che i semi gettati, e senza dubbio le radici che da essi si sono sviluppate, abbiano alla fine fatto spuntare questo libro. Con il senno di poi, è stata una fortuna dettata dal caso, più che un fatto previsto e voluto, se sono arrivato in Europa, dopo la seconda guerra mondiale, al seguito dei servizi militari e governativi degli Stati Uniti, e se negli anni Cinquanta ho vissuto in varie parti del mondo arabo, nell'Africa settentrionale, durante le fasi finali del colonialismo francese. Nel 1953 aspiravo a un cambiamento totale rispetto al mio lavoro presso il dipartimento di Stato americano nella Vienna descritta da Graham Greene e filmata da Carol Reed nel Terzo uomo, una città ancora divisa, come Berlino, tra le quattro potenze «liberatrici»: Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Francia. Mentre era in corso la guerra di Corea, accettai dunque un impiego offertomi da un'impresa di costruzioni che stava realizzando in Marocco, per conto degli Stati Uniti, alcune basi aeree strategiche che dovevano servire da «deterrente» nei confronti dell'URSS. [...] L'invasione e l'occupazione americana dell'Iraq, cominciate nel marzo del 2003, sono servite da stimolo per la fioritura definitiva di questo libro, se posso continuare con la metafora della pianta che affonda le radici nel passato. Nel 2003, dopo la conquista militare relativamente facile da parte della coalizione guidata dagli USA, la successiva occupazione è stata malamente progettata ed è andata avanti in modo tragico. Le scandalose rivelazioni fotografiche di violenze, torture e persino uccisioni di prigionieri iracheni detenuti dai militari degli Stati Uniti hanno non solo offuscato la pretesa, spesso ipocrita, degli americani di essere i primi difensori mondiali dei diritti umani, ma hanno anche fornito il peggior prologo al trasferimento putativo di «sovranità», avvenuto il 1° luglio 2004, a un Iraq che si trova di fronte a divisioni di natura politica, economica e sociale potenzialmente fatali per la sua sopravvivenza. Fin dall'inizio di questa avventura, nata sotto una cattiva stella, è stato evidente che la guerra è cominciata ed è stata portata avanti – prolungandosi poi come una classica lotta di tipo colonialista contro formazioni guerrigliere – a partire da ragioni sbagliate. Ovvero facendo proprie le ipotesi, basate su dati d'intelligente incompleti, falsi o addirittura fabbricati ad arte, di una presenza di armi di distruzione di massa (che non c'erano o non c'erano più) e di un collegamento, operato dall'amministrazione Bush (che confondeva deliberatamente l'opinione pubblica americana), tra l'Iraq di Saddam Hussein e la rete al-Qaeda di Osama bin Laden, delle cui origini ho scritto nel mio precedente libro Una guerra empia. Il sogno illusorio dei consulenti neoconservatori di Bush di poter smontare e poi ricostruire non solo l'Iraq ma anche i principali Paesi arabi con questo confinanti, per farne «democrazie» capaci di instaurare normali relazioni con il nuovo impero globale americano e con Israele, si è dissolto nelle nebbie della guerra e dell'insurrezione nell'odierno Iraq. Gran parte delle analisi sui presupposti storici dei due conflitti che gli Stati Uniti e i loro alleati, volenti o nolenti, hanno combattuto contro l'Iraq dopo il 1991 non tiene conto di un fattore importante, ovvero il ruolo svolto da Israele a partire dalle relazioni, talvolta antagonistiche talvolta no, che hanno legato il popolo ebraico alle altre popolazioni della regione mesopotamica (oggi Iraq) dai tempi del Vecchio Testamento sino ai giorni nostri. Uno degli scopi di questo libro è di offrire un quadro di tali relazioni. Ovviamente non è stato il governo israeliano, attualmente presieduto da Ariel Sharon, che ha indotto l'alleato americano ad attaccare e rovesciare Saddam Hussein e a occuparne il Paese, come non è stato il governo israeliano a trascinare nell'avventura il più stretto alleato degli Stati Uniti, quella Gran Bretagna che un tempo considerava l'Iraq una propria colonia. La guerra è stata decisa esclusivamente a Washington, dal presidente George W. Bush e dai suoi consiglieri, con largo anticipo rispetto al catastrofico attacco suicida alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001 da parte di terroristi legati a bin Laden. La guerra è stata assecondata e sostenuta dal primo ministro Tony Blair e dal suo governo New Labour. Tuttavia, molti amici e sostenitori d'Israele, in particolare il vasto movimento cristiano-evangelico e fondamentalista americano e una piccola cricca di consiglieri interni alle strutture di potere di Washington, hanno contribuito incontestabilmente a far sorgere l'idea di un «cambio di regime» in Iraq e di altri – e ancor più equivoci – progetti per una futura riconfigurazione politica delle regioni arabe e islamiche. Dopo che le due guerre mondiali del XX secolo hanno profondamente modificato l'assetto del Medio Oriente, composto in prevalenza da Stati post-coloniali musulmani, arabi o non arabi (come la Turchia e l'Iran), e dall'unico Stato post-coloniale ebraico, Israele, il ruolo degli Stati Uniti in quella zona del mondo è cambiato drasticamente. Nel 1948 il presidente Harry S. Truman (come il dittatore sovietico Stalin, ma per ragioni del tutto diverse) si era affrettato a riconoscere il neonato Stato d'Israele. Tuttavia, l'alleanza odierna tra Stati Uniti e Israele, con le sue ripercussioni sull'Iraq e sul fallimento dei tentativi di pace tra israeliani e palestinesi, si è sviluppata molto lentamente. Uno degli obiettivi di questo libro è dimostrare come gli interessi degli Stati Uniti e d'Israele nell'Iraq post-coloniale (per esempio riguardo al petrolio e alla sicurezza nell'area), pur sembrando in un primo tempo in conflitto, abbiano poi sviluppato una graduale convergenza che ha notevolmente contribuito a cementare l'attuale sodalizio. L'alleanza si fonda su due questioni centrali: quarant'anni di occupazione israeliana, di insediamenti in territorio palestinese, di controllo sugli arabo-palestinesi, e una presenza militare in corso da parte di truppe statunitensi, britanniche e di altri alleati minori o di facciata in Iraq (anche se alcuni di questi, come la Spagna e alcuni Stati dell'America centrale, hanno già abbandonato quella che Bush e Blair insistono a definire la «coalizione»). Per delineare la storia del coinvolgimento dell'Occidente e degli americani, ma anche degli arabi e degli israeliani, nella storia irachena e delle loro reciproche interazioni, il capitolo I riesamina la storia biblica della cattività babilonese degli ebrei e l'eredità culturale lasciata da quelle generazioni e da quei secoli. Il capitolo II descrive come andarono le cose per i musulmani, gli ebrei e gli altri popoli delle tre province turche della Mesopotamia quando il vecchio impero ottomano si disgregò alla fine della prima guerra mondiale e come dalle tre province sia nato l'attuale Iraq. Nel capitolo III si racconta come i fondatori dello Stato d'Israele, insieme ai primi combattenti e agenti dell'intelligence israeliana, riuscirono, ancor prima che gli inglesi si ritirassero dalla Palestina, a far uscire dall'Iraq centinaia di migliaia di ebrei residenti in quel Paese, integrandoli nel nuovo Stato. Il capitolo IV tratta dei sentimenti contrastanti, di antagonismo e affinità, che quell'esodo contribuì a generare e del panarabismo, condiviso dalla monarchia irachena, che nel 1948-49 diede il via alla prima spedizione militare di Baghdad, in alleanza con Egitto, Siria, Giordania e Libano, nel tentativo fallito di distruggere il nuovo Stato ebraico. Il capitolo V spiega le ragioni e le forme di una precoce e duratura alleanza tra Israele e i curdi dell'Iraq settentrionale, che ha portato a un crescente coinvolgimento nella regione tanto degli Stati Uniti quanto di un altro alleato dei curdi (sebbene meno duraturo: dagli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Settanta): lo scià dell'Iran Muhammed Keza Pahlevi. Nel 1973 l'Iraq allestì la sua spedizione militare più ambiziosa ed efficace nella guerra di ottobre contro Israele. Nello stesso periodo, come si riferisce nel capitolo VI, Saddam Hussein si servì del nascente partito socialista arabo, il Ba'ath, e del sostegno della CIA per realizzare le proprie ambizioni personali e diventare il padrone assoluto dell'Iraq. L'attrazione esercitata dalle colossali e crescenti ricchezze derivanti dalle risorse petrolifere, che resero l'Iraq uno dei mercati più appetiti dalle grandi imprese degli Stati Uniti e degli altri Paesi occidentali per gli investimenti e la vendita di beni di consumo e armi, sono invece illustrati nei capitoli VII e VIII, insieme agli eventi concomitanti del rovinoso conflitto Iran-Iraq del 1980-88. Nel 1990 un Saddam Hussein bellicoso fino alla tracotanza si sentì abbastanza sicuro di sé da sfidare la sorte invadendo e saccheggiando il suo ricco vicino, il Kuwait, con il proposito di mettere le mani su una fetta ancora più grande delle risorse petrolifere mondiali. Israele, come si vedrà nei capitoli VIII e IX, era già ricorsa alla guerra di spie per bloccare la corsa di Saddam agli armamenti, compresi quelli nucleari. Fu comunque senza l'aiuto di Israele che il presidente George Herbert Walker Bush mise in campo, nel 1990 e 1991, una grande coalizione sostenuta dalle Nazioni Unite che cacciò con la forza l'esercito iracheno dal Kuwait, senza però annientare o far cadere Saddam. I capitoli X e XI descrivono come gli Stati Uniti e Israele abbiano via via stretto il cerchio intorno a Saddam, rafforzando al contempo la propria alleanza. Gli israeliani, che non hanno partecipato direttamente all'invasione dell'Iraq del marzo 2003 (programmata ben prima dell'11 settembre e resa operativa dopo quella data), hanno guardato alla guerra e ai suoi risultati con sentimenti contrastanti. Il loro nemico strategico, le forze armate irachene, non costituiva più una minaccia come era stato sin dal 1948. Ma contemporaneamente erano svaniti anche i sogni di alcuni leader israeliani di ottenere petrolio a prezzi stracciati dall'Iraq. Oltretutto, i disordini, il terrorismo, gli sconvolgimenti sociali e politici prodotti o esacerbati dalla guerra, che si riverberano dalla Palestina al Pakistan, sono visti negativamente tanto a Gerusalemme quanto a Washington e nelle altre capitali occidentali. E la rielezione del presidente George W. Bush nel novembre 2004 per un altro quadriennio non ha fatto che intensificare le previsioni infauste dei tanti che in tutto il mondo criticano l'intervento in Iraq e più in generale le scelte politiche da lui attuate in Medio Oriente. La mia speranza è che questo libro, frutto di quarant'anni di lavoro come corrispondente dal Medio Oriente e dall'Asia meridionale, basato su ricerche che hanno attinto a fonti edite e inedite, sull'aiuto di molti colleghi giornalisti e sulla conoscenza personale di molti dei protagonisti di queste vicende, come David Ben Gurion, lo scià dell'Iran, Gamal Abdel Nasser, Hafez al-Assad, il re Hussein di Giordania e lo stesso Saddam Hussein, solo per citarne alcuni, possa gettare luce su un periodo storico cruciale. | << | < | > | >> |Pagina 134Nasser riuscì per un breve periodo a oscurare l'ascesa del Ba'ath e a governare Egitto e Siria, associati nella Repubblica Araba Unita (RAU), nel triennio 1958-1961. Avrebbe accolto volentieri, come terzo associato, anche l'Iraq, ma non si era mai fidato di Kassem, che ai suoi occhi era troppo succube dei comunisti. Il vice di Kassem, Abdel Salim Aref, era invece un devoto discepolo di Nasser e avrebbe visto con piacere una RAU allargata all'Iraq. Né Nasser né Kassem, però, volevano compromettersi. Kassem sapeva di non poter competere con la vasta popolarità del presidente egiziano nel mondo arabo e non voleva ridursi a un ruolo di comprimario. Molto influenzato da Aflaq, che si era precipitato a Baghdad immediatamente dopo la rivoluzione del luglio 1958 al fine di promuovere il ba'athismo come il rimedio giusto per tutti i mali dell'Iraq, Kassem s'impegnò in una serie di comizi volanti in giro per il Paese. Aflaq esortava all'unità araba ed esaltava Nasser, presentandolo come un grande leader e un «liberatore»: non ci volle molto prima che cominciasse a premere perché l'Iraq aderisse alla RAU sotto l'egemonia del presidente egiziano. La cosa allarmò Kassem e la sua cerchia, in quanto si rendevano conto che questa repubblica a tre sarebbe stata vista come una seria minaccia sia da Israele sia dallo scià dell'Iran, entrambi attivi sostenitori dei separatisti curdi di Barzani. Kassem e i suoi alleati comunisti decisero di affrontare e sconfiggere Aref e i suoi seguaci ba'athisti e nasseriani. L'11 settembre 1958 Aref, che propugnava la nazionalizzazione dell'industria petrolifera in mano alle compagnie straniere e l'adesione alla RAU, fu scalzato dalla carica di vicecomandante in capo dell'esercito e due settimane dopo Kassem gli tolse anche l'incarico di vice primo ministro e ministro dell'Interno. Fu infine arrestato il 4 novembre con l'accusa di «cospirazione contro la patria», in pratica di tradimento. La reazione dei sostenitori di Aref non si fece attendere ed esplose nel marzo del 1959. Un colonnello e un generale di brigata suoi amici, che Radio Cairo definì «patrioti panarabi» (ovvero «nasseriani») tentarono un putsch che gli uomini di Kassem riuscirono a sventare in breve. Nella guerra radiofonica che ne seguì, le trasmissioni dal Cairo esortavano gli iracheni a «rovesciare il tiranno», mentre quelle da Baghdad denunciavano le «interferenze straniere». Il colonnello al-Madahwi, presidente del Tribunale del popolo che aveva condannato a morte Aref, aggiunse la beffa al danno proclamando in piena udienza che: «La carovana araba non si fa spaventare dai latrati di certi cani, anche se alcuni di loro si proclamano arabi». È in questo contesto che un esponente delle milizie armate del Ba'ath, il ventiduenne Saddam Hussein al-Tikriti, cominciò a ritagliarsi uno spazio nella storia. Nell'ottobre 1959 era nel gruppo di attentatori che aprirono il fuoco su Kassem e le sue guardie del corpo. Kassem rimase gravemente ferito, ma sopravvisse. Saddam scappò con una pallottola nella gamba che, dice la leggenda, si tolse da solo con un coltello a serramanico e senza anestesia; poi si nascose attraversando a nuoto il Tigri. I comunisti cercarono di dar man forte agli uomini fedeli a Kassem mobilitando una gran folla nelle piazze e inviando ufficiali e soldati a loro vicini a presidiare i punti nevralgici della città, nella speranza di guadagnarsi così la gratitudine del capo del governo. Kassem invece si comportò da tipico nazionalista arabo di stampo nasseriano: manovrò contro i comunisti fomentando una scissione in seno al loro partito tra fazioni a lui avverse o favorevoli. Intanto, però, andava avanti a promuovere qualche riforma autentica. Per prima cosa attaccò il potere dei grandi latifondisti, in maggioranza assenteisti, ponendo limiti alle proprietà terriere. Aumentò le imposte, portandole dal 40 al 60 per cento sui redditi più alti, ovvero quelli superiori ai 20.000 dinari, e introdusse nuove tasse nonché controlli sugli affitti e sui prezzi. Stabilì inoltre norme che regolamentavano la giornata lavorativa e con un'apposita legge impose ai datori di lavoro di costruire case per i propri dipendenti. Furono anche promulgate le prime leggi che si occupavano di previdenza sociale in Iraq. In una zona della capitale sorse infine un quartiere di case popolari chiamato Thawra (Rivoluzione) – e poi rinominato Saddam City – che comprendeva diecimila alloggi dotati di elettricità, acqua corrente, strade nuove, ambulatori, scuole e bagni pubblici. Nonostante gli sforzi di Kassem per limitarne la presenza e l'impatto sulla società, i comunisti non si persero d'animo e il l° maggio 1959 con una serie di grandi manifestazioni rivendicarono una loro presenza nel governo. Fu con costernazione che gli osservatori israeliani e i loro sostenitori americani presero atto che la Gran Bretagna intendeva riprendere i rifornimenti di armi all'Iraq, da tempo sospesi, nella speranza che Kassem sarebbe così stato in grado di bloccare l'ascesa dei rossi e tenere a bada i sovietici. Il più informato biografo di Saddam Hussein, Said Aburish, ricorda come, tra il 1958 e il 1961, Saddam si recasse con frequenza nell'ambasciata americana del Cairo. L intelligence egiziana, che teneva d'occhio con molta solerzia gli studenti, arabi e non, politicamente attivi, era evidentemente al corrente di quelle visite e le approvava, giacché anche il regime di Nasser guardava con forte sospetto alle presunte aspirazioni egemoniche di Kassem in Medio Oriente. Come osserva Aburish, «gli americani erano così decisi a far cadere Kassem», che accusavano di aver abbattuto la monarchia mettendo fine all'orientamento filo-occidentale di Nuri al-Said e di nutrire brutte intenzioni anti-israeliane e filo-sovietiche, «da spalancare la porta [dell'ambasciata del Cairo] a chiunque». | << | < | > | >> |Pagina 140Il primo colpo di Stato preparato con cura dal Ba'ath, e salutato da James Critchfield come «una grande vittoria», era cominciato alle 8,30 del mattino dell'8 febbraio 1963 con l'uccisione del comandante dell'aeronautica militare irachena, il comunista Jalal al-Awqati, colpito mentre si trovava in una panetteria con il figlio piccolo. Subito dopo un maggiore dell'aeronautica vicino al Ba'ath, Mundhir al-Windawi, guidò un attacco aereo con due caccia Hawker che calarono in picchiata sulla base aerea di Rashid, vicino alla capitale, e la bombardarono rendendone inagibile la pista. Pochi minuti dopo, sempre Windawi attaccò con caccia Hawker e MIG-17 il ministero della Difesa, su cui vennero lanciati dei razzi. Le forze di terra legate al Ba'ath, con elementi del 4° Reggimento corazzato e della Guardia Nazionale, in maggioranza ba'athista, attaccarono e occuparono la base di Rashid. Un'altra unità corazzata, in cui operavano i colonnelli Abdel Salam Aref e Ahmed Hassan al-Baqr, occuparono la stazione radio di Abu Graib e il ministero della Difesa. I golpisti trasmisero poi alla radio una serie di proclami in cui si definivano il Consiglio Nazionale del Comando Rivoluzionario, evitando di usare le parole d'ordine panarabe per compiacere e ingraziarsi i curdi. Kassem e i suoi alleati comunisti cercarono di organizzare una resistenza, ma questi ultimi furono ostacolati dal rifiuto di Kassem di dare armi alla massa di povera gente che si era riversata nelle strade della capitale armata solo di canne e bastoni. Poco fuori Baghdad, vicino alle due caserme di al-Sa'd e al-Washash, ci fu qualche scontro a fuoco. Alle 3 di pomeriggio dell'8 febbraio le forze del Ba'ath sferrarono l'attacco decisivo al quartier generale di Kassem, nella sede del ministero della Difesa presidiato da un migliaio di soldati ben addestrati al combattimento. Ciò nonostante la mattina del 9 il ministero era ormai in mano agli insorti. Kassem, sentendo alla radio degli insorti che Aref era stato proclamato presidente provvisorio, gli telefonò dicendogli: «Sono tuo fratello e non dimenticherò mai che ho diviso con te il pane e il sale», una formula araba usata per esprimere un vincolo di amicizia. Aref replicò che il Consiglio Rivoluzionario aveva deciso che Kassem dovesse arrendersi consegnandosi all'ingresso principale del ministero con le mani in alto e senza insegne militari sull'uniforme. Kassem chiese invano di avere salva la vita e di poter lasciare il Paese: a mezzogiorno fu arrestato insieme a tre aiutanti di campo; nel giro di un'ora una corte marziale straordinaria condannava a morte lui e i suoi tre aiutanti; immediatamente dopo un plotone di fucilieri eseguiva la sentenza. Nella storia irachena Kassem rimane il presidente più genuinamente popolare che l'Iraq abbia mai avuto. I comunisti suoi alleati, tanto i sunniti quanto gli sciiti, continuarono la resistenza per vari giorni, soprattutto a Bassora, dove tennero duro fino al 12 febbraio. Gli uomini di Aref e del Ba'ath alla fine li circondarono e diedero loro una caccia spietata villaggio per villaggio, casa per casa. L'elenco degli oppositori comunisti del Ba'ath, trasmesso via radio dal Kuwait, era stato fornito dagli uomini di Critchfield, uno dei quali era un agente della CIA che operava sotto copertura come corrispondente del «Time» nella redazione di Beirut. I nominativi furono diffusi in tutto il Paese e più di un migliaio di oppositori fu giustiziato, in molti casi dopo avere subìto torture. Questa cifra si somma ai cinquemila comunisti che si calcolano siano caduti in combattimento. Saddam Hussein, sentita la notizia alla radio cairota, si precipitò a Baghdad con uno dei primi voli che atterrarono dopo la riapertura dell'aeroporto. Said Aburish ricorda come appena tornato «si fosse impegnato personalmente nella tortura di esponenti della sinistra ostili al Ba'ath nei centri di detenzione destinati ai fellahin (i contadini) e ai muthagafin (gli intellettuali)». Tempo dopo Critchfield ammise all'Associated Press che la CIA era al corrente da almeno sei mesi del previsto colpo di Stato. «Siamo arrivati al potere su un treno della CIA», dichiarava il segretario generale del partito Ba'ath, Ali Saleh al-Sa'di, lo stesso che si era occupato delle esecuzioni di massa dei sostenitori di Kassem. Per giustificarsi di fronte alle critiche, Critchfield ha sempre sostenuto che nel 1963 Saddam Hussein, nonostante il fallito attentato a Kassem del 1959, era solo una figura secondaria e marginale del partito. «Si devono capire il contesto dell'epoca e le dimensioni del nemico che avevamo davanti» ha affermato Critchfield. «E quello che ribatto sempre quando qualcuno ci dice: 'Siete stati voi della CIA che avete creato Saddam Hussein'». | << | < | > | >> |Pagina 143Le purghe e la repressione che seguirono il colpo di Stato del 1963 in Iraq sarebbero servite per molti aspetti a orientare il successivo comportamento politico del Ba'ath, soprattutto quando Saddam avrebbe assunto il controllo assoluto del partito, del governo e della stessa popolazione. I capi del Ba'ath avevano assicurato alla CIA che i detenuti avrebbero avuto processi giusti, ma gli uomini della Guardia Nazionale, con fasce verdi al braccio e armati di mitragliatori, perpetrarono quella che Con Coughlin, un giornalista del «Daily Telegraph» autore di una biografia di Saddam, definì «un'orgia di violenza». Si sequestravano palestre, sale cinematografiche, case private, usandole per gli interrogatori, le torture e le esecuzioni. Coughlin paragona la liquidazione dei comunisti iracheni alle purghe nei confronti della sinistra che ci sarebbero poi state nel Cile di Pinochet (che avrebbe eliminato Allende con l'aiuto della CIA) e nell'Argentina della giunta militare che restò al potere fino alla sconfitta nella guerra delle Falkland, nel 1982 (in cui, però, la CIA si era schierata dalla parte del governo Thatcher). Quando le forze irachene invasero il Kuwait nell'agosto 1990, gli uomini scelti della Guardia Repubblicana di Saddam avrebbero agito in modo non dissimile, trasformando in camere di tortura uffici e palazzi pubblici. Alcuni iracheni sopravvissuti alle brutalità del regime di Saddam hanno descritto una delle principali camere di tortura del Qasr al-Nihaya, il «Palazzo della Fine», chiamato così perché in quel luogo fu liquidata la monarchia nella rivoluzione del 1958. Uno sciita sadico, Nadhim Kazzar, vi si distinse come capo degli aguzzini, un apprendistato adatto per farlo diventare poi il responsabile per la sicurezza nazionale di Saddam. Kazzar aveva aderito al Ba'ath subito dopo la sua costituzione negli anni Cinquanta e aveva conquistato in breve tempo una solida reputazione di macellaio, organizzando le torture contro i comunisti dopo la caduta di Kassem. Numerose testimonianze sono concordi nell'affermare che durante gli interrogatori usava spegnere le sigarette negli occhi delle vittime. Dai documenti di archivio del regime di Saddam, Hanna Batatu ha potuto rilevare che nelle cantine del Palazzo della Fine c'era «ogni genere di spaventosi strumenti di tortura: cavi elettrici con morsetti, punte d'acciaio su cui si facevano sedere le vittime, e una macchina che ha ancora tracce di dita tagliate». Gli Stati Uniti si misero in contatto con i ribelli guidati dal Ba'ath già poche ore dopo il colpo di Stato promettendo un rapido riconoscimento. James Akins, ex ambasciatore americano in Arabia Saudita, che all'epoca era attaché all'ambasciata americana di Baghdad, ha dichiarato a Robert Kaplan: «Grazie al colpo di Stato, le nostre relazioni con l'Iraq erano migliorate». In cambio dell'aiuto, gli americani si aspettavano qualcosa, e l'ottennero. Said Aburish riferisce che secondo Hani Fkaiki, una delle figure di primo piano del putsch, William Lakeland aveva ricevuto diversi aerei MIG-21, carri armati T-54 e missili SAM di fabbricazione sovietica, che furono analizzati per controllarne le specifiche e l'efficacia. Tra la costernazione degli israeliani che, come abbiamo visto, appoggiavano i curdi di Barzani, nell'aprile 1963 gli Stati Uniti fecero affluire a Baghdad armi dalla Turchia e dall'Iran destinate alle forze governative che combattevano contro i curdi nella regione di Kirkuk. Gli stessi Stati Uniti consigliarono a Jalal Talabani di porre termine alla rivolta cominciata nel 1961, e questo sebbene i curdi, informati in anticipo del putsch contro Kassem, avessero offerto la loro tacita collaborazione. Nello stesso tempo si vedevano i primi segnali di quella che sarebbe stata la luna di miele tra Saddam e le multinazionali americane: la Parsons, la Bechtel e la Mobil Oil furono tra le imprese che ottennero importanti commesse e concessioni dagli uomini del Ba'ath. Robert Anderson, già segretario al Tesoro ai tempi di Eisenhower, teneva le fila di molte nuove imprese commerciali. | << | < | > | >> |Pagina 155Gli storici sono pericolosi e capaci di rigirare la frittata come vogliono. Bisogna tenerli d'occhio. Nikita Krusciov, 1956Una domanda che gli storici potrebbero ben porsi è come mai c'è voluto tanto perché Stati Uniti e Israele, un tempo solo partner e per giunta dubbiosi, diventassero stretti alleati contro Saddam Hussein. All'inizio i due Paesi sentivano di avere in Iraq interessi ampiamente in conflitto tra loro. Fin dalla sua costituzione in quanto Stato e ancor più dopo la rivoluzione irachena del 1958, Israele era fortemente preoccupato per la minaccia che l'Iraq rappresentava per la propria sicurezza e sentiva in modo pressante l'esigenza di difendersi da un pericoloso nemico strategico. La prima fase di dominio del Ba'ath, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, non fece che esacerbare questi timori. Saddam e la sua cricca sfruttavano ogni occasione per proclamare la propria determinazione a «scacciare la peste sionista» e a «liberare la Palestina». Gli Stati Uniti, spinti dagli interessi petroliferi delle multinazionali, che hanno sempre esercitato una forte influenza sul governo, vedevano invece le grandi opportunità offerte tanto dal petrolio e dalle altre risorse energetiche irachene quanto dal mercato in grande crescita e aperto alle tecnologie occidentali presente in quel Paese. Quando però, negli anni Novanta, Israele e Stati Uniti unirono i propri sforzi per deporre Saddam e far ridiventare l'Iraq un Paese più amico dell'Occidente (e magari anche d'Israele), i calcoli commerciali nella testa degli americani, grazie alle prospettive che si aprivano per le proprie imprese nella ricostruzione del dopo 2003, coincidevano ormai con le considerazioni egemoniche e strategiche, che peraltro ben si adattavano anche al partner israeliano, ormai alleato a pieno titolo. | << | < | > | >> |Pagina 162All'inizio del 1969 fu annunciata la nascita di un nuovo Comando Regionale del Ba'ath. Tranne Baqr e Ammash, nessuno del nuovo gruppo di comando aveva un'autentica formazione militare, nemmeno Saddam. In compenso erano tutti originari del «triangolo sunnita», che sarebbe diventato tristemente noto, nel corso dell'invasione e dell'occupazione americana del 2003, come la zona della più dura resistenza alle forze della coalizione guidata dagli USA. Il «triangolo» era (ed è) grosso modo delimitato da Baghdad, Mosul e Tikrit lungo il fiume Tigri e, sull'Eufrate, dalle cittadine di Ana, Rawa, Haditha e Falluja. Tutti questi centri, fin dai tempi del dominio ottomano e poi di quello britannico, erano stati toccati dalle grandi correnti del nazionalismo arabo che arrivavano dalla Siria. Quasi tutto il nuovo gruppo al vertice era sunnita. Nello stesso tempo Baqr e Saddam provvedevano a garantirsi la lealtà delle forze armate sostituendo centinaia di ufficiali di cui non si fidavano con altri fedeli o simpatizzanti del Ba'ath.In questo periodo Saddam metteva implacabilmente le sue mani su tutti gli altri organismi addetti alla sicurezza dello Stato, fra i quali l'Ufficio della sicurezza nazionale (maktaba al-amn alqawmi) e il servizio addetto alla sicurezza personale del presidente, che si occupava soprattutto di raccogliere informazioni sugli oppositori politici e religiosi e di spiarli. Saddam sovrintendeva inoltre alla vecchia struttura per la sicurezza che esisteva prima del Ba'ath (al-amn al-amn). Immediatamente sotto di lui nella scala gerarchica c'era Nazim Kazzar, che sarebbe poi stato incriminato e ucciso in seguito a una strana congiura che faceva venire in mente quelle dei tempi di Beria e Stalin. Saddam era infine a capo della milizia del partito Ba'ath, la Guardia nazionale. Questa struttura consentiva a Baqr di cercare di conquistarsi il sostegno dell'esercito regolare isolando Ammash e Hardan al-Tikriti. Nel maggio 1969 il tribunale speciale rivoluzionario condannò un altro gruppo di imprenditori e affaristi, accusati di aver avuto rapporti con quella stessa CIA che aveva aiutato Saddam nella sua ascesa. Il mese successivo, l'ex eroe ormai morto, il generale Abdel Salem Aref, fu bollato come agente della CIA, mentre l'ex ministro dell'Interno, Rashid Muslih, confessò di lavorare per lo spionaggio americano e Zaki Abdel Wahab, già direttore della Coca-Cola in Iraq, ammise di avere operato per l'M1-6 britannico fin dal 1956. Particolarmente violenta fu la repressione dei dirigenti comunisti e di quel «comando centrale» guidato da Azziz al-Haj che si era staccato dal partito comunista nel settembre 1967. Al-Haj, interrogato e torturato, crollò. La sua «confessione», in cui accusava se stesso e i suoi compagni di aver organizzato una campagna di sabotaggi contro il regime, fu mandata in onda sulla televisione di Stato; di lì si rivolse ai curdi esortandoli ad abbandonare Mustafa Barzani. Più tardi radio Baghdad trasmise il testo di una lunga lettera, che si disse sottoscritta da al-Haj e da altri settanta comunisti, in cui questi esprimevano il proprio sostegno al regime per aver riconosciuto la Repubblica Democratica Tedesca. Mentre istituiva relazioni più strette con il blocco sovietico, il duo Baqr-Saddam cercava anche di dimostrare di poter scavalcare un esausto partito comunista e accreditare il Ba'ath come l'autentico partito della sinistra. Saddam, al contempo, si stava conquistando alcuni ammiratori anche nel mondo occidentale. Nel novembre 1969 l'ambasciatore britannico a Baghdad inviò un telegramma al Foreign Office di Londra in cui esprimeva giudizi positivi su di lui e lo segnalava come il personaggio emergente e «l'erede riconosciuto ed evidente del presidente [Baqr]». Dopo un incontro con Saddam, l'ambasciatore lo trovò un conversatore inizialmente timido, ma che poi si era espresso «con grande calore e con un'evidente padronanza di molti argomenti». Nella sua relazione sottolineò come Saddam avesse insistito sul fatto che «le relazioni dell'Iraq con il blocco sovietico [erano] fondate sulla questione centrale della Palestina», rivelando un desiderio apparentemente «sincero» di migliorare i rapporti con la Gran Bretagna «e anche con gli americani su quell'argomento». Il diplomatico inglese lo detini «giovanile», con un «sorriso seducente», un «personaggio temibile, deciso e ostinato della gerarchia irachena, ma con il quale, conoscendolo meglio», si sarebbe potuto trattare.
Saddam esercitò lo stesso fascino anche su vari diplomatici americani.
Intanto a Baghdad affluivano numerosi imprenditori occidentali per «fare affari»
con il dittatore in ascesa.
La scalata al potere di Saddam non aveva incantato allo stesso modo i dirigenti israeliani e non piaceva affatto ai servizi d'intelligence che vedevano crescere di intensità le minacce verso lo Stato ebraico. C'era la convinzione che l'Iraq, un tempo solo parte di un contesto strategico ostile, con l'acquisizione di tecnologie avanzate fornite dall'Occidente e grazie al grande potere d'acquisto che derivava dai colossali profitti della vendita del petrolio, sarebbe stato ben presto in grado di minacciare l'esistenza stessa d'Israele con armi di distruzione di massa. Così, quasi mezzo secolo prima che la validità delle informazioni raccolte su tali armi diventasse una questione centrale per Bush e Blair nella progettazione della guerra del 2003, Israele aveva già cominciato a mettere insieme tutti i dati possibili sulle tecnologie belliche dell'Iraq e sulle armi di distruzione di massa (soprattutto nucleari) di cui il Paese avversario disponeva o voleva disporre. In quel periodo Israele ottenne due grossi successi: la cattura di un caccia-bombardiere MIG-21 iracheno nel 1966 e, soprattutto, la distruzione nel 1981 degli impianti per la possibile fabbricazione di armi nucleari, avvenuta con un raid aereo contro il reattore nucleare di Osirak, poco fuori Baghdad. | << | < | > | >> |Pagina 185Il nazionalismo è quella «rivolta contro la storia» che cerca di chiudere ciò che non si può più chiudere, di recintare ciò che deve essere senza frontiere. Salman Rushdie, 1997È ormai chiaro da tempo che nella guerra e nell'occupazione dell'Iraq del 2003 e 2004 la coalizione guidata dagli Stati Uniti ha attaccato sulla base di false informazioni dell'intelligence, secondo le quali Saddam Hussein intendeva minacciare i Paesi vicini e il mondo intero con le armi chimiche e batteriologiche (cui era già ricorso negli anni Ottanta) e mirava anche a dotarsi di armi nucleari. È altrettanto evidente, dopo il rapporto della commissione parlamentare d'indagine israeliana della primavera 2004, che le informazioni raccolte e analizzate dagli Stati Uniti e dal suo leale alleato britannico erano decisamente sbagliate, ma che anche quelle israeliane non erano certo esatte. Un'esperta israeliana di questioni irachene, Ofra Bengio, docente all'università di Tel Aviv, aveva pubblicato nel 1998 una meditata analisi del «caso unico» rappresentato dall'Iraq nel contesto del conflitto arabo-israeliano e della sua forte incidenza sull'intera area mediorientale. Bengio ha studiato con cura le strategie vere e retoriche di Saddam, ricorrendo a fonti ufficiali e pubbliche. Se è vero che non esiste un confine comune con Israele, ci ricorda la studiosa, l'Iraq in tutte le guerre dal 1948 in poi ha agito da «Stato belligerante» e, a differenza degli altri, si è sempre rifiutato di siglare una pace o almeno un armistizio con Israele]. È una tradizione consolidata che i benintenzionati fautori di una «democratizzazione» (forse chimerica) del dopo Saddam avranno grosse difficoltà a superare, mentre tentano di realizzare il sogno (forse impossibile) di una «normalizzazione» delle relazioni tra Iraq e Israele.
Uno dei momenti storici di questa tradizione consolidata riguarda la
partecipazione dell'Iraq alla guerra arabo-israeliana del 1973. La guerra era
stata pianificata dall'egiziano Sadat e dal siriano Assad, con l'appoggio del re
saudita Faisal, al fine di recuperare, possibilmente, i territori e l'onore
perduti nel 1967 e di coinvolgere più attivamente gli Stati Uniti nelle
trattative di pace. A differenza dell'Egitto, della Siria e della Giordania,
nella Guerra del Kippur l'Iraq non aveva perso territori, e tuttavia Saddam era
ansioso di cancellare il ricordo del mancato aiuto ai palestinesi in
Giordania e magari di ridare all'Iraq un ruolo guida nella lotta per
la «liberazione della Palestina». Un punto a favore per la partecipazione alla
guerra era costituito dal fatto che il Paese stava acquisendo una posizione di
primo piano nei giochi della politica internazionale brandendo e sfruttando la
cosiddetta «arma del petrolio».
La collaborazione tra Stati Uniti e Israele e soprattutto gli aiuti militari inizialmente concessi dalla presidenza Kennedy (1961-63), poi continuati con quella Johnson e cresciuti in modo esponenziale nei primi anni Settanta con quella Nixon, avevano rafforzato il senso di sicurezza degli israeliani, che nel 1973 guardavano ormai con sufficienza alle capacità belliche degli arabi. Il 17 settembre 1970, lo stesso giorno in cui l'esercito di re Hussein attaccava in Giordania l'OLP, l'amministrazione Nixon aveva approvato un ulteriore contributo di 500 milioni di dollari in aiuti militari a Israele, accelerando i tempi di consegna dei caccia-bombardieri McDonnell-Douglas Phantom F-4 già promessi. Nei tre anni seguenti il Congresso americano concesse agli israeliani più denaro di quanto ne avesse erogato a partire dalla fondazione dello Stato d'Israele nel 1948: secondo i dati ufficiali un totale di 1.608 miliardi di dollari, rispetto ai 1.581 miliardi di tutto il periodo precedente. Gli aiuti annuali, calcolati sommando gli importi totali erogati e i debiti abbonati dal Tesoro americano, sono in genere aumentati da allora. La generosità americana ha fatto sì che la popolazione israeliana beneficiasse di un livello di vita di gran lunga superiore a quello dei suoi vicini. Per esempio, ha permesso ai coloni ebrei (molti dei quali immigrati dall'America) di commutare le nuove abitazioni costruite in Cisgiordania, a Gaza o sulle alture del Golan con case e posti di lavoro reperiti a Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa o in altri centri. A partire dal 1970 una grossa fetta del denaro versato dai contribuenti americani è servita a cementare i legami tra Israele e il complesso militare-industriale degli Stati Uniti e più in generale tra le economie dei due Paesi. Nel 1971, mentre l'Egitto di Sadat si barcamenava tra i pesanti oneri derivanti dagli ingenti prestiti e dalle forniture militari sovietiche, le sovvenzioni americane permettevano agli israeliani di spendere per la difesa un buon 20 per cento del proprio prodotto nazionale lordo, in gran parte per acquistare armi americane. Un accordo stipulato nel dicembre 1970, dal magniloquente titolo di Master Defense Development Data Exchange Agreement, concedeva agli israeliani l'accesso ai dati tecnici per la fabbricazione e la manutenzione di tecnologie militari di origine americana. Nel 1971 un altro accordo autorizzava Israele a produrre armi di progettazione americana. Tra quelle che sarebbero state ben presto utilizzate, c'era un missile aria-aria con puntatore a infrarossi chiamato Shafrir (molto simile al missile Sidewinder dell'aeronautica statunitense), assemblato dall'ente governativo israeliano per lo sviluppo degli armamenti. Washington diede anche il permesso di produrre i motori degli aerei a reazione J-79 da montare sui cacciabombardieri Kfir, che le Israel Aircraft Industries avevano sviluppato dai Mirage 5 che la Francia aveva venduto a Israele (dopo un intervallo di qualche anno durante il quale il presidente De Gaulle aveva decretato un embargo alle forniture di armi a Tel Aviv, irritato per la guerra del 1967). La Francia avrebbe poi fornito i Mirage 5 anche agli iracheni. A Washington e a Tel Aviv erano convinti che Israele, reso forte dalle vittorie militari e dalla generosità degli americani, non fosse più un obiettivo tanto appetibile per i tentativi di rivincita degli arabi. Ma proprio come nel 2003 gli analisti più esperti del dipartimento di Stato e della stessa CIA hanno tentato di mettere in guardia i consiglieri neoconservatori e filo-israeliani di George W. Bush, avvertendoli che occupare e «democratizzare» l'Iraq non sarebbe stata una passeggiata, anche nel 1973 i principali esperti di politica mediorientale avevano lanciato moniti a non sottovalutare l'efficienza militare degli arabi. Archibald Roosevelt, per esempio, che aveva lungamente lavorato per la CIA tra gli arabi del Maghreb e del Medio Oriente, osservò che gli israeliani sottovalutavano troppo i propri avversari, considerandoli «alieni, minacciosi, rancorosi e inferiori [...] un popolo con cui essi non avevano niente in comune. Gli errori dell'intelligence israeliana nascono proprio da qui». | << | < | > | >> |Pagina 210Il 5 agosto 1980, dopo una breve sosta in Giordania, Saddam atterrò in Arabia Saudita sfoggiando una delle sue divise militari e una pistola alla cintola. Lì ebbe un incontro di dieci ore con il principe ereditario Fand (poi diventato re, ma già allora l'uomo più potente del regime), in cui discusse dei suoi piani di attacco all'Iran. Alcuni giornalisti arabi sostengono che Fand avrebbe promesso a Saddam qualche miliardo di dollari di aiuti e il permesso di utilizzare il porto di Jeddah, sul Mar Rosso, se quello di Bassora fosse diventato inagibile a causa della guerra, come in effetti fu. Mentre s'intensificavano gli scontri sul confine, il 17 settembre Saddam denunciò gli accordi di Algeri che avevano concesso all'Iran il controllo della propria metà dello Shatt al-Arab. All'alba del 22 settembre gli aerei di Saddam cercarono di ripetere l'attacco devastante che gli israeliani avevano fatto nel 1967, con cui avevano messo fuori combattimento le forze aeree arabe, e colpirono a sorpresa dieci basi aeree iraniane, compresa quella militare presso l'aeroporto internazionale di Teheran. L'intenzione era quella di annientare i mezzi aerei che Khomeini aveva ereditato dallo scià e di spianare così la strada a un massiccio attacco delle forze terrestri in territorio iraniano. Pur avendo subìto gravi perdite, gli iraniani mandarono i propri Phantom F-4 di fabbricazione americana a compiere incursioni contro due aeroporti iracheni, contro le navi lanciamissili in navigazione nel Golfo e contro una raffineria e vari impianti petroliferi vicini al confine. Il giorno successivo sei divisioni meccanizzate irachene penetrarono in territorio iraniano. Cominciò così uno dei conflitti più lunghi e devastanti dalla fine della seconda guerra mondiale. Quando terminò, nel 1988, con un armistizio di cui l'Iraq e i suoi sostenitori occidentali avevano un bisogno estremo, almeno quanto un Iran sconvolto e allo stremo, la guerra aveva fatto più di un milione di morti e l'economia di entrambi i Paesi era in rovina. Nel corso di questo conflitto gli Stati Uniti e Israele offriranno sostegno e aiuti materiali prima a un contendente e poi all'altro. Sarà appunto in questo periodo che Israele intensificherà le azioni belliche occulte antro Saddam Hussein, sondando al contempo la sia pur remota possibilità di trovare un accordo strategico con lui, sulla scorta dei legami sempre più stretti che Washington andrà intessendo con Baghdad. Ma sarà soprattutto in questo periodo che le manovre dei due alleati — Stati Uniti e Israele — sfoceranno in una collaborazione sempre più stretta, preparando il terreno per la resa dei conti definitiva con Saddam cercata e realizzata con la guerra del 2003. Nel prossimo capitolo esamineremo queste vicende e le loro conseguenze. | << | < | > | >> |Pagina 213L'umanità deve mettere fine alla guerra o la guerra metterà fine all'umanità. John F. Kennedy, discorso d'insediamento, 1961Il decennio iniziato con la guerra tra Iran e Iraq e conclusosi con la disastrosa avventura di Saddam in Kuwait sarà cruciale per il Medio Oriente e per l'alleanza tra USA e Israele. Proprio come la guerra del 1973 era costata tanto agli israeliani a causa degli errori fatti dell'intelligence prima del conflitto, le grandi lacune dell'intelligence americana sull'Iran resero la caduta dello scià pericolosa per l'America, suo alleato dichiarato, ed estremamente destabilizzante per l'alleato ombra, ovvero Israele. Washington si era mostrata riluttante a dar retta agli avvertimenti di Israele, che segnalavano come il regime dello scià cominciasse a vacillare. Le imponenti missioni militari e diplomatiche americane in Iran, rivolte soprattutto a realizzare operazioni da Guerra Fredda contro la vicina Unione Sovietica, avevano ampiamente trascurato gli sviluppi della situazione interna iraniana, che avvenivano proprio sotto il loro naso. Fu un errore gravissimo da parte dell'intelligence americana, e questo amplificò lo shock dovuto alla caduta dello scià, che colpiva uno dei pilastri della politica americana in Medio Oriente. Tra le varie conseguenze ci fu anche la decisione dell'ayatollah Khomeini di esportare la rivoluzione islamica, destabilizzando Paesi come l'Arabia Saudita, l'Iraq e il Libano. Nel 1982 Israele invase il Libano con l'obiettivo di annientare una volta per tutte l'OLP ed eliminare dal Paese vicino, piccolo e frammentato in numerose fazioni, quella che considerava una minaccia strategica. Ma l'invasione si ritorse contro Israele e Stati Uniti. Con la connivenza della Siria, l'Iran mandò in Libano i suoi Guardiani della Rivoluzione per aiutare a costituire l'Hezbollah (il Partito di Dio), un movimento militante sciita il cui tratto caratteristico divenne la cattura di ostaggi e l'attentato suicida. Un'altra conseguenza di quell'invasione fu il mal preparato intervento militare americano in Libano del 1983-84, che si chiuse in modo fallimentare costringendo l'amministrazione Reagan a una rapida marcia indietro. I rapporti sotterranei tra l'amministrazione Reagan e il regime rivoluzionario iraniano, alla fine considerato da Israele un nemico strategico ancor più importante dell'Iraq, favorirono anche il nascere di un triangolo segreto USA-Israele-Iran, la cui collusione sarebbe diventata evidente con lo scandalo Irangate, che fece tremare Washington negli anni Ottanta. | << | < | > | >> |Pagina 229Una nuova direttiva di Reagan del 26 novembre 1983 fece da preludio al primo viaggio dell'inviato presidenziale Donald Rumsfeld a Baghdad per incontrare Saddam. Questa auspicava «una maggiore collaborazione militare nella regione per difendere gli impianti petroliferi e nuove misure per migliorare le potenzialità militari degli Stati Uniti nel Golfo Persico». Non si faceva alcun riferimento alle armi chimiche. Il 17 dicembre 1983 Rumsfeld arrivò in volo a Baghdad portando una lettera personale manoscritta di Reagan a Saddam Hussein. Rumsfeld aveva avuto cariche importanti sotto le presidenze Nixon e Ford, anche quella di segretario alla Difesa durante l'amministrazione Ford. Al momento del viaggio in Iraq era ai vertici della G. D. Searle and Company, una multinazionale farmaceutica. Nella lettera che Rumsfeld consegnò a Saddam, Reagan proponeva di riprendere i rapporti diplomatici e di ampliare quelli commerciali e militari. Tra le questioni discusse nell'incontro, secondo il resoconto che ne è stato fatto, si parlò anche della recente interruzione da parte della Siria dell'oleodotto che portava il petrolio iracheno nel Mediterraneo attraverso il suo territorio e dei tentativi americani di trovare percorsi alternativi per trasportare il petrolio iracheno sui mercati di esportazione.
Nel corso della stessa visita Rumsfeld incontrò anche Tarek Aziz, allora
ministro degli Esteri. Rumsfeld gli assicurò la «volontà a fare di più»
dell'amministrazione Reagan per aiutare l'Iraq contro l'Iran, ma volle «chiarire
che i nostri sforzi di assistenza sono ostacolati da alcune cose, come l'uso di
armi chimiche, un'eventuale escalation nel Golfo e le violazioni dei diritti
umani [nei confronti dei curdi, degli sciiti e dei prigionieri politici]». In
seguito la missione commerciale americana comunicò a Rumsfeld che i leader
iracheni avevano affermato di essere «estremamente compiaciuti» della visita e
che Aziz «si era perfino sbilanciato lodando Rumsfeld come persona».
Ciò che accadde in seguito in campo economico e strategico mette bene in luce uno degli obiettivi perseguiti da Israele (e ammesso solo di rado in pubblico). Si trattava – e sarà lo stesso nel 2003 – di ristabilire l'antico legame, risalente al periodo coloniale britannico, tra Israele e Iraq. In qualche modo questo obiettivo corrispondeva al tentativo dell'amministrazione Reagan di immettere più petrolio iracheno sul mercato occidentale. Ofra Bengio ha affrontato nel 1998 il problema delle «limitazioni geostrategiche» dell'Iraq e degli effetti che queste hanno su Israele. In quanto Paese fornitore di petrolio con uno sbocco al mare molto limitato (appena 40 miglia sullo Shatt al-Arab, e solo dopo l'apertura di un canale che da Bassora va al Golfo), l'Iraq «ha sempre avvertito una specie di soffocamento economico», scrive la Bengio, che ha cercato di superare costruendo oleodotti attraverso i Paesi vicini: Turchia, Siria, Arabia Saudita, Kuwait. Dal 1935 al 1948 l'Iraq sotto mandato britannico forniva petrolio alla Palestina, anch'essa sotto mandato britannico, attraverso un oleodotto che collegava la zona di Kirkuk-Mosul a Haifa. Questo flusso di petrolio dall'Iraq alla Palestina continuò dal 1932 al 1948, quando venne interrotto dalla guerra. Da allora tutti i governi iracheni hanno tentato di riaprire una via verso il Mediterraneo per poter esportare il petrolio in Europa e in America in modo più semplice e veloce che dai terminali sul Golfo Persico. Donald Rumsfeld, accompagnato da Howard Teicher, ex membro del National Security Council (che in seguito avrebbe fornito informazioni sul riavvicinamento tra USA e Iraq), tornò a Baghdad alla fine di marzo del 1984 per discutere degli oleodotti iracheni verso il Mediterraneo e dell'interesse di Israele in materia. Rumsfeld sapeva che l'accoglienza sarebbe stata un po' più fredda rispetto alla visita precedente a causa dei successi militari iraniani e della condanna ufficiale da parte degli USA, resa pubblica il 5 marzo, per il ricorso dell'Iraq alle armi chimiche. A Washington Rumsfeld aveva ricevuto istruzioni per discutere con i leader iracheni dei crediti a favore dell'Iraq che Reagan contava di ottenere dalla Export-Import Bank. Questi includevano fra l'altro 500 milioni di dollari, garantiti dai contribuenti americani, per la costruzione di un nuovo oleodotto che potesse trasportare un milione di barili di greggio al giorno dalle aree di Kirkuk e Mosul fino al porto giordano di Aqaba, sul Mar Rosso. In questo modo il petrolio sarebbe stato allontanato dalla zona di guerra del Golfo Persico, dove le petroliere irachene erano state attaccate e affondate dall'aviazione iraniana (e viceversa) e dove l'Iran minacciava di chiudere lo stretto di Hormuz. Questo oleodotto avrebbe reso difficile all'Iran intralciare le vendite di petrolio di Saddam Hussein per strangolarlo dal punto di vista economico. Secondo un successivo affidavit di Howard Teicher, un altro argomento di discussione fu un'offerta segreta di aiuto a Saddam Hussein da parte di Israele, tagliato fuori dalle forniture di petrolio del Golfo Persico dal 1967. Precedentemente, tra il 1957 e il 1967, l'Iran dello scià aveva mandato in Israele petroliere che attraccavano a Eilat, da dove un oleodotto del diametro di circa 20 centimetri pompava il petrolio fino a Beersheba. Successivamente si aggiunse un secondo oleodotto da Eilat ad Ashdod, che permise a Israele di esportare il petrolio del Golfo Persico. L'offerta israeliana inclusa nel pacchetto di Rumsfeld fu rifiutata, ma si discusse animatamente dell'oleodotto che doveva essere costruito da imprese americane e locali, senza investimenti israeliani. L'appalto fu proposto alla Bechtel Corporation, un'enorme azienda californiana di progettazione e costruzione con una lunga esperienza di commesse in centotrentacinque Paesi, compresi molti nel mondo arabo, dalla Libia all'Arabia Saudita. Casper Weinberger e George Schultz avevano entrambi ricoperto incarichi dirigenziali alla Bechtel, anzi Schultz era passato direttamente dalla Bechtel al suo incarico di segretario del «Foggy Bottom», il soprannome dato al dipartimento di Stato. Saddam, ovviamente, trovava interessante l'idea dell'oleodotto, ma con un'importante riserva che si rivelò decisiva: per raggiungere Aqaba, l'oleodotto della Bechtel avrebbe dovuto attraversare il territorio giordano, con il rischio di attirare le brame di Israele e di rendere la Giordania un obiettivo facile (ed è probabile che i leader israeliani si sarebbero innervositi alla vista di tanto greggio iracheno di ottima qualità che passava vicino al porto di Eilat senza poterne avere neanche un po', mentre erano costretti a importare il petrolio da chissà dove a prezzi molto più alti). Saddam voleva solide garanzie dagli Stati Uniti che l'alleato israeliano non avrebbe attaccato l'oleodotto. Il ministro degli Esteri Tarek Aziz disse al vicesegretario di Stato Richard Murphy, esperto in affari mediorientali, che in assenza di un «diretto coinvolgimento americano» Washington poteva «scordarsi» il progetto. | << | < | > | >> |Pagina 277La mia politica interna? Faccio la guerra. La mia politica estera? Sempre e dappertutto la guerra... E continuerò a farla fino all'ultimo istante. Georges Clemenceau, 8 marzo 1918Una punizione divina: era con queste parole, scritte in caratteri cubitali, che il giornale di proprietà del governo iracheno, «Al-Iktisadi», definiva, a un anno dall'evento, il mortale attacco aereo su New York e Washington dell'11 settembre 2001. Il giorno seguente il presidente Bush fece un discorso all'Assemhlea Generale delle Nazioni Unite in cui espresse la sua insofferenza per l'incapacità dell'ONU a far rispettare qualsiasi risoluzione approvata nel decennio precedente per disarmare I'Iraq: Tutto il mondo è ora davanti a una prova, e per le Nazioni Unite il momento è difficile e decisivo. Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza devono essere rispettate e applicate, o le si possono ignorare senza conseguenze? Le Nazioni Unite serviranno ancora allo scopo per cui sono state fondate o saranno irrilevanti? L'ONU aveva la possibilità di imporre il suo volere a Saddam Hussein, ma se non l'avesse fatto, affermò Bush a chiare lettere, gli Stati Uniti e i loro alleati («la coalizione dei volonterosi», come l'avrebbe poi definita Rumsfeld) sarebbero entrati in guerra con l'Iraq. Gli attentati dell'11 settembre, che per molti a Washington avrebbero potuto benissimo segnare l'inizio di una terza guerra mondiale, avevano fatto scattare al Pentagono il livello di allarme globale DEFCON 3, che non si raggiungeva dalla guerra arabo-israeliana del 1973. A New York, a Washington e in Pennsylvania erano morte circa tremila persone. Nella testa degli americani quelle atrocità perpetrate da al-Qaeda erano già (erroneamente) associate a Saddam. La mattina di mercoledì 12 settembre, secondo quanto afferma Richard A. Clarke, il capo dell'antiterrorismo nominato da Clinton e riconfermato da Bush, Rumsfeld e il suo vice Wolfowitz cominciarono subito a parlare di «prendere l'Iraq». Wolfowitz in particolare insisteva sul fatto che al-Qaeda non poteva aver fatto tutto da sola e che uno Stato (cioè l'Iraq) doveva averla aiutata. Clarke ricorda anche che nell'aprile precedente, a una riunione che includeva anche i sottosegretari, Wolfowitz aveva sostenuto la stessa cosa a proposito dell'attentato del 1993 al World Trade Center, probabilmente il primo attentato di al-Qaeda in territorio americano. Wolfowitz, i suoi colleghi «neocon» e alcuni intellettuali come Laurie Mylroie puntavano ora il dito nuovamente sull'Iraq come principale sospetto. Il segretario di Stato Colin Powell e il suo assistente Richard Armitage non condividevano le idee espresse dai neoconservatori nella riunione del 12 settembre, sostenendo che l'obiettivo principale del contrattacco americano doveva essere al-Qaeda e i talebani che la ospitavano in Afghanistan, e non l'Iraq. Ciò nonostante Rumsfeld ribadì che l'Iraq meritava una punizione e che offriva «obiettivi migliori» rispetto all'Afghanistan. Bush, a quanto scrive Clarke, non respinse del tutto la proposta di attaccare l'Iraq, ma affermò che era necessario cambiarne il regime e che non bastava più colpirlo con qualche missile Cruise. Il generale Hugh Shelton, che presiedeva lo stato maggiore congiunto delle tre armi, ebbe una reazione piuttosto cauta, dicendo che per porre termine al regime di Saddam sarebbe stata necessaria un'invasione dell'Iraq con forze consistenti e che per prepararla sarebbero stati necessari molti mesi. Quella stessa sera, riferisce sempre Clarke, Bush lo convocò a una riunione ristretta, insistendo perché «riesaminassero tutto attentamente e verificassero se l'aveva fatto Saddam, se c'entrava in qualche modo». Quando il giorno dopo si arrivò alle decisioni, ci fu l'unanimità sul fatto che al-Qaeda e l'Afghanistan fossero l'obiettivo prioritario, ma che quella sarebbe stata solo la prima fase della «guerra al terrorismo». | << | < | > | >> |Pagina 291Con il crollo del regime Baghdad precipitò nell'incubo dei saccheggi. Gli invasori, che pure erano stati preavvertiti dai diplomatici e da quanti conoscevano la situazione, non erano riusciti a prevedere o prevenire razzie e ruberie, limitandosi a sorvegliare il ministero del Petrolio. Questo indusse i commentatori di tutto il mondo a ripetere quanto avevano sostenuto fin da principio, cioè che la guerra era stata fatta soprattutto per il petrolio iracheno. I saccheggiatori prendevano di mira le banche, i negozi, gli uffici, gli edifici pubblici e i musei. Interi palazzi furono smantellati. Dal Museo Nazionale sparirono tesori d'inestimabile valore artistico e archeologico, dall'età babilonese fino ai secoli islamici, a quanto risulta per mano degli stessi dipendenti del museo o di bande ben organizzate che agivano per conto di mercanti di antiquariato all'estero. «Un carro armato o un'autoblinda e qualche soldato agli ingressi avrebbe evitato tutto questo» ha dichiarato un funzionario del museo. I comandi britannici e americani, fino al livello del segretario alla Difesa Rumsfeld, restarono muti o, se incalzati dalle domande, dichiararono che l'invasione aveva liberato il popolo iracheno e che «in guerra succedono brutte cose». Un documento dei servizi segreti di Saddam, scoperto dopo la guerra, prefigurava una campagna di sabotaggio economico e di resistenza armata in caso di rovesciamento del regime. L'uccisione di Uday e Qusay Hussein vicino a Mosul non aveva scoraggiato i guerriglieri e i terroristi, che anzi erano aumentati di numero e non avevano ridotto gli attacchi. Questi al contrario erano sempre più frequenti e cominciarono ad acuire le tensioni religiose. Il 29 agosto un'autobomba esplose a Najaf davanti al luogo più sacro per gli sciiti, provocando la morte di oltre cento persone, compreso l'ayatollah Muhammad Bakr al-Sadr, uno dei più coraggiosi oppositori di Saddam, che stava collaborando con le forze di occupazione. Il precedente attentato del 19 agosto al complesso delle Nazioni Unite a Baghdad fu disastroso per chi sperava che l'ONU, disprezzato e scavalcato dall'amministrazione Bush prima della guerra, potesse svolgere un ruolo di ricomposizione politica nel dopoguerra. L'attentato provocò la morte dell'inviato speciale delle Nazioni Unite, il popolare Sergio Vieira de Mello, un veterano nella gestione delle crisi internazionali e delle trattative di pace, e di due dozzine di suoi collaboratori. Le ripercussioni furono profonde e durevoli. Nell'aprile 2004 Kofi Annan rispondeva ancora con estrema prudenza ai giornalisti che lo interrogavano a proposito di un impegno più consistente dell'ONU. Il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, inviato dalle Nazioni Unite, fu comunque incaricato di programmare e in qualche modo gestire il «passaggio di sovranità» a un governo iracheno, avvenuto nel giugno 2004, prima delle elezioni nazionali previste per il gennaio 2005. Nell'autunno del 2003 la ribellione si fece più intensa e ogni giorno si poteva contare almeno un morto tra le furie alleate. Gli insorti proclamarono il 1° novembre «Giorno della Guerriglia». Le strade di Baghdad si svuotarono e furono pattugliate dai Marines americani armati di tutto punto, ma non si riuscì comunque a impedire l'abbattimento di un elicottero a Falluja, a ovest della capitale. Più tardi, in marzo e aprile dell'anno successivo, Falluja vide la popolazione civile armata e mobilitata per combattere contro l'assedio dei Marines e delle forze speciali americane. Un giovane esponente del clero sciita, Muqtada al-Sadr, si era messo alla testa di un'insurrezione che toccava i centri di Najaf, Karbala e Kut, dove le forze ribelli costrinsero le truppe di occupazione ucraine a ritirarsi. Gli sforzi degli americani per ripristinare le infrastrutture procedevano quasi dappertutto con estrema lentezza, in particolare per quanto riguardava l'alimentazione idrica ed elettrica, la cui mancanza rendeva ancora più dura la vita degli iracheni. Tuttavia, qualche nuova scuola veniva costruita e qualche edificio pubblico veniva ristrutturato nonostante gli scontri e l'insicurezza generale.
Nel momento culminante della campagna per le elezioni presidenziali del
novembre 2004, lo sfidante democratico di George W. Bush, il senatore del
Massachusetts John Kerry, mise in luce i macroscopici errori commessi in Iraq,
come la decisione, subito dopo la caduta di Baghdad, di smobilitare
completamente le forze armate irachene, circa 389.000 uomini (senza contare i
riservisti), senza però disarmarle o garantire loro un'occupazione. Solo
nell'aprile 2004 Bremer avrebbe fatto una certa marcia indietro, annunciando che
alti ufficiali dell'ex Ba'ath sarebbero stati ripresi in servizio attivo: una
decisione in parte motivata dal fatto che sempre più ufficiali della sicurezza
si rifiutavano di combattere per gli americani contro il proprio popolo.
Negli Stati Uniti e in Europa crescevano nel frattempo le proteste e le
critiche contro le informazioni dell'intelligence, palesemente false, sulla
presenza di armi di distruzione di massa, in particolare dopo il rapporto
provvisorio presentato a fine dicembre da David Kay, l'ex ispettore dell'ONU
scelto dall'amministrazione Bush per condurre una nuova e costosa ricerca di
quelle armi, con millequattrocento uomini al seguito. Kay riferiva che la sua
équipe non aveva trovato traccia di armi non convenzionali, ma che avrebbe
continuato a cercarle. Quando poi diede le dimissioni e ritornò negli Stati
Uniti, sostituito nel marzo 2004 da un altro ex consulente dell'ONU, Charles
Duelfer, ammise pubblicamente: «Forse ci siamo sbagliati». In luglio, un lungo
rapporto di una commissione bipartisan del Senato sugli errori dei servizi
segreti americani e una parallela indagine britannica arrivarono sostanzialmente
alla stessa conclusione, e il direttore della CIA George Tenet diede le
dimissioni, ufficialmente «per ragioni personali».
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