Autore John K. Cooley
Titolo Una guerra empia
SottotitoloLa CIA e l'estremismo islamico
EdizioneEleuthera, Milano, 2000 , pag. 300, cop.fle., dim. 125x190x23 mm , Isbn 978-88-85060-42-5
OriginaleUnholy Wars. Afghanistan America and International Terrorism
EdizionePluto Press, London, 1999
TraduttoreGuido Lagomarsino, Laura Monti
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe storia contemporanea , guerra-pace , paesi: USA , paesi: Egitto , paesi: Pakistan , paesi: Cina












 

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Indice

Cartine                                                   6
Ringraziamenti                                            8
Introduzione all'edizione italiana                       13

   I. Carter e Breznev nella Valle della Decisione       25
  II. Anwar al-Sadat                                     57
 III. Zia al-Hai                                         83
  IV. Deng Xiaoping                                     111
   V. Reclutatori, istruttori, allievi e spie assortite 135
  VI. Sponsor, finanziatori e profittatori              175
 VII. Campi di papavero, campi di sterminio
      e signori della droga                             207
VIII. Russia: un retrogusto amaro e un mesto ritorno    263
  IX. Il contagio si diffonde: l'Egitto e il Maghreb    299
   X. Il contagio si diffonde: attacco all'America      349


 

 

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Pagina 13

INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA



Questo libro racconta le vicende e le conseguenze di una strana storia d'amore finita malissimo: l'alleanza, nella seconda metà del ventesimo secolo, tra gli Stati Uniti e alcuni tra i più reazionari e fanatici esponenti dell'Islam.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, nel corso dei loro mandati, quattro presidenti americani (Eisenhower, Kennedy, Johnson e Nixon) si trovarono davanti al compito di tutelare gli interessi degli USA nel Medio Oriente e nell'Asia meridionale. Come già il presidente Truman prima di loro nel periodo 1945-53, essi avvertivano come tutti questi interessi fossero collegati. La protezione di aree strategicamente importanti e la difesa delle vie d'accesso marittime e aeree erano infatti legate alla tutela dei vasti giacimenti di petrolio e di gas naturale della penisola araba, del Golfo Persico e delle regioni circostanti, che il mondo industriale aveva cominciato a sfruttare e da cui era sempre più dipendente. A ciò si aggiungeva la difesa della sicurezza del neonato Stato d'Israele, anche se questa risultava spesso incompatibile con il precedente obiettivo.

Questi interessi emergevano come conseguenze della seconda guerra mondiale. Già all'inizio della Guerra Fredda tra americani e sovietici, nel 1946, il presidente Truman vedeva nell'Unione Sovietica la principale minaccia agli interessi americani, in Medio Oriente come altrove. Questa visione non sarebbe mutata nel mezzo secolo successivo. Non c'è dubbio che i governi americani degli anni Sessanta giudicassero in quest'ottica il «comunismo mondiale», incarnato nel sistema di egemonia sovietica ideato da Stalin. I leader dei Paesi dell'Europa occidentale, che dal 1949 erano dietro allo scudo dell'Alleanza Atlantica creato dagli Stati Uniti, in generale la pensavano allo stesso modo. In Francia, in Grecia e in Italia la nuova CIA non lesinava aiuti economici ai partiti di destra per aiutarli a combattere i comunisti.

Gli analisti occidentali, nei loro pensatoi, e i servizi di controspionaggio di Washington, Londra, Parigi e Roma si chiedevano: chi è il principale nemico del nostro nemico, il comunismo? In che modo potrebbe aiutarci? E, nello stesso tempo, come possiamo contrastare i leader del Terzo Mondo e le loro dottrine, che consideriamo al servizio del comunismo? Per esempio che cosa potremmo fare contro Gamal Abdel Nasser, il presidente egiziano (1954-70), e la sua equivoca teoria del «socialismo arabo»? Si tennero consultazioni con politici ed esperti degli Stati islamici e arabi più conservatori, come il Pakistan e l'Arabia Saudita. Molti di loro erano ostili sia al comunismo sovietico e alle sue espressioni locali, sia al nasserismo (anche se erano ferocemente avversi al principale nemico di Nasser, Israele). Tutti erano tacitamente d'accordo sul fatto che la religione islamica, anticomunista nella sua sostanza, una volta tradotta in politica avrebbe potuto essere sfruttata e diventare una forza potente da contrapporre a Mosca in un mondo che tendeva sempre più al bipolarismo della Guerra Fredda.

Fu così che ebbe inizio quello che in un primo tempo era un semplice flirt tra gli USA e l'Islam e che si esprimeva con un sostegno moderato e prudente, in genere occulto, agli attivisti politici «islamisti» (che definirò così, per evitare il termine logoro e impreciso di «fondamentalisti»). La Fratellanza Islamica in Egitto, con le sue diramazioni e i suoi affiliati in tutto il mondo islamico, dalla Siria e dalla Giordania all'Indonesia, ricevevano incoraggiamento e, in certi casi, soldi quando s'impegnavano nella lotta contro i comunisti locali o contro l'URSS. Più avanti, verso la metà degli anni Sessanta, si parlò di un Patto anti-Nasser e antisovietico, guidato dal sovrano saudita, ultraconservatore e bigotto. Queste voci rimbalzarono in Pakistan e misero in allarme l'India, dove convivevano la religione induista e quella musulmana, ma che aveva un governo sostanzialmente laico, nonché alcuni Stati arabi meno conservatori. Il flirt tra gli USA e gli attivisti islamici era diventato una cosa seria. La love story era guardata con favore soprattutto dall'Inghilterra e dalla Francia, i cui governi e la cui stampa cercavano di dipingere come episodi della lotta contro il «comunismo» le guerre coloniali e post-coloniali, che miravano a conservare la propria posizione contestata e vacillante in Nord Africa, nell'Asia meridionale e nel Golfo Persico.

Alla fine, come farà vedere questo libro, gli Stati Uniti e i loro alleati, tra cui l'Inghilterra, la Francia e il Portogallo, con il sostegno, negli anni Sessanta e Settanta, dello scià di Persia Muhammad Reza Pahlavi, trovarono il modo di finanziare una serie di guerre per procura, in Africa e in Asia, contro i propri avversari, spesso alleati veri o supposti di Mosca. Erano guerre che non impegnavano truppe terrestri e che non comportavano il rischio di subire perdite in combattimento delle dimensioni patite dagli Stati Uniti e dalla Francia nel Sudest asiatico tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, o dalla Francia in Algeria nel 1954-62.

L'invasione sovietica dell'Afganistan nel 1979, decisa dalla ristretta cerchia del Politburo guidato da Breznev, aveva colto di sorpresa il presidente Carter e la sua amministrazione (1977-81), ma permise anche a qualcuno dei suoi consiglieri di ricorrere alla strategia e alle tattiche della guerra per procura, già sperimentate e applicate, come abbiamo appena detto, in vari Paesi come l'Angola, la Somalia e l'Etiopia. Carter si affidava ad alcuni consiglieri avveduti, come il direttore della CIA, l'ammiraglio Stansfield Turner, ma anche ad altri meno cauti, primo fra tutti il consigliere per la Sicurezza Nazionale Zbigniew Brzezinski, un esperto di politica internazionale di origine polacca, visceralmente anticomunista.

L'equipe carteriana capeggiata da Brzezinski vide nella sconsiderata invasione sovietica non solo una grave minaccia all'equilibrio mondiale, ma anche l'occasione per assestare un colpo decisivo al già vacillante impero sovietico nell'area a nord dell'Afganistan, in Asia centrale. Per questo la love story americana con l'islamismo ebbe un nuovo sussulto di passione. Si celebro così un matrimonio d'interesse consumato con l'alleanza tra la dittatura militare pakistana, d'ispirazione islamica, che aspirava per ragioni proprie a eliminare dal Paese confinante la presenza sovietica e il governo satellite dei sovietici ed eventualmente estendere l'influenza strategica e commerciale del Pakistan a nord, verso il cuore dell'Asia. Il ragionamento dei pakistani era questo: grazie al sostegno americano si sarebbe rafforzata la posizione del Pakistan nei confronti dell'India, da cui era già stato sconfitto nei conflitti militari del 1947, 1965 e 1971. La CIA, collaborando con i servizi militari e di controspionaggio di Zia al-Haq e sfruttando i finanziamenti sauditi e il supporto logistico del Pakistan, riuscì a formare, addestrare, stipendiare e mandare a combattere contro l'Armata Rossa in Afganistan un esercito di mercenari formato da volontari islamici. Molti di costoro erano esuli dai Paesi d'origine per motivi religiosi o soldati di ventura provenienti da ogni parte del mondo.

È successo così che l'ultimo quarto di secolo di conflitti nell'Asia meridionale ha avuto come teatro principale questa jihad, o guerra santa, contro gli invasori russi del 1979. Questi sono stati sconfitti e nel 1989 rispediti a casa dove si sono trovati di fronte al crollo della società e dell'impero sovietico. Il crollo, peraltro, era dovuto non in minima parte alla guerra, che era stata voluta da una cricca ristretta e che solo la presidenza di Gorbaciov (1985-91) era riuscita a concludere.

Nel 1989, quando negli Stati Uniti era già presidente George Bush (1989-93), la CIA festeggiò questo successo con grandi brindisi. Tuttavia, la santa alleanza tra gli americani e le forze islamiche aveva avuto come esito una serie di guerre niente affatto sante e un'epidemia di violenze che non colpiva soltanto l'ex Unione Sovietica. Lo stesso Afganistan era in pieno sfacelo dopo le devastazioni della jihad e della guerra civile, che in pratica non era mai cessata dopo la «vittoria» della CIA. Una massa che oscilla dai due terzi a metà degli abitanti era profuga in Iran, in Pakistan, in Asia centrale e in altri Paesi ancor più distanti. La capitale Kabul e molti dei centri principali erano in gran parte ridotti ad ammassi di rovine. Tra la popolazione rimasta molti erano senza lavoro, senza un'abitazione e costretti a mendicare per sopravvivere.

E il peggio doveveva ancora venire: due Stati islamici, l'Arabia Saudita e il Pakistan, alleati dell'«unica superpotenza mondiale rimasta», avevano favorito la nascita di un mostro, figlio dell'estremismo islamico, il movimento dei talebani. I primi talebani erano soprattutto studenti delle scuole religiose, armati dal Pakistan e da alcuni gruppi della resistenza afgana. In una prima fase, avevano portato un certo ordine e una certa stabilità in regioni devastate dai signori della guerra e dalle bande di fuorilegge. Il prezzo pagato da quello che restava della società afgana, però, fu terribile: le donne erano in pratica ridotte in schiavitù e segregate, parimenti fu stroncata ogni opposizione all'interpretazione fanatica data dai talebani all'islamismo sunnita ed all'estremo rigore delle sue leggi e dei suoi codici di comportamento. Chi osava trasgredire era sottoposto a pene di una crudeltà quale non si vedeva in Europa dai tempi del Medioevo e dell'Inquisizione: chi, uomo o donna, non si vestiva secondo le regole e chi, uomo, non portava la barba della lunghezza e della foggia prescritte subiva bastonature e fustigazioni; ai ladri erano amputate mani e piedi; gli adulteri erano lapidati a morte; i sodomiti erano sepolti vivi. Ogni pena era inflitta pubblicamente. Ma la peggiore condanna spettò alle donne e all'intera società afgana: quando i talebani conquistarono gran parte del Paese, nell'autunno del 1998, alle donne non fu più concesso di studiare e di lavorare.

La jihad antisovietica che aveva fatto nascere questo movimento era sostanzialmente una creazione del Direttorato Interservizi dell'Intelligente pakistano (ISI), che verso la metà degli anni Ottanta aveva imposto alla jihad una svolta decisiva. Fino a quel momento erano stati soprattutto i militanti sciiti filoiraniani, legati al regime rivoluzionario che aveva spodestato lo scià nel 1979, a compiere attentati contro i marines e i diplomatici americani e a sequestrare cittadini degli Stati Uniti e di altri Paesi occidentali in Libano. Nelle azioni di sabotaggio e negli attentati, ricorrevano a metodi che poi altri, come il miliardario saudita Usama bin Laden, avrebbero perfezionato e applicato quindici anni più tardi. Negli USA si ragionava così: rispondere al fuoco col fuoco, combattere i militanti sciiti iraniani con una militanza e una violenza ancora più decise, da parte di qualche gruppo che si considerava ortodosso, espressione della maggioranza sunnita.

Era una scelta che favoriva le mire dell'Arabia Saudita, preoccupata per l'ascesa della potenza iraniana, che pure si era incrinata dopo lo scacco subito dall'Iraq di Saddam Hussein nella guerra del Golfo del 1980-88. I governanti sauditi erano inoltre preoccupati per le «eresie» della propria minoranza sciita, da loro perseguitata, che era presente soprattutto nella regione petrolifera a oriente. Le politiche antisovietiche e antisciite (leggi anti-iraniane) si adattavano perfettamente agli obiettivi sauditi. Il Pakistan, voglioso di togliere a russi e iraniani ogni influenza nella sua area e di assicurarsi così sbocchi commerciali nei vasti mercati dell'Asia centrale, nutriva ambizioni non diverse. Chi manovrava occultamente i fili a Islamabad e a Langley, riteneva che fosse una buona idea incoraggiarle. Così, verso la metà degli anni Ottanta, un matrimonio d'interesse tra gli Stati Uniti e i militanti sunniti si trasformava in un più complesso ménage à trois che vedeva implicate tre capitali: Washington, Islamabad e Ryad.

Né gli americani, spossati dalla lunga guerra che la CIA e l'esercito avevano combattuto nel Vietnam, nella Cambogia e nel Laos, né i sauditi, restii a trovarsi coinvolti in un qualunque conflitto militare, erano disposti a impegnare le proprie forze. Così lasciarono il lavoro sporco all'ISI, che condusse la guerra contro i russi sotto il controllo diretto del presidente Zia al-Haq, fino alla sua misteriosa morte in un incidente aereo nel 1988, e sotto l'influenza sul campo di ricche organizzazioni arabe vicine alla Fratellanza Islamica e ad altri gruppi pakistani. Dagli Stati Uniti e dal tesoro saudita arrivarono diversi miliardi di finanziamento, e altri, quando il conflitto si andava ormai esaurendo, vennero da privati, come il magnate dell'edilizia Usama bin Laden che nell'ultimo decennio ha in pratica privatizzato il terrorismo internazionale.

Questo libro racconterà anche come l'amministrazione Carter sia riuscita ad assicurarsi l'appoggio del presidente egiziano Anwar al-Sadat. Dopo aver firmato nel 1979 il trattato di pace con Israele grazie all'intermediazione di Carter, Sadat era ansioso di dar prova del proprio filoamericanismo e di combattere il comunismo egiziano (come egli credeva) riproducendo all'interno del Paese l'alleanza degli Stati Uniti con gli islamisti. I quali, in Egitto, lo ricompesarono assassinandolo nell'ottobre del 1981, proprio quando il sostegno egiziano alla jihad afgana raggiungeva il suo culmine.

Un altro volonteroso alleato della CIA era la Cina. Pechino, per propri fini strategici, desiderava che i sovietici fossero cacciati dall'Afganistan. I leader cinesi ebbero un'immediata «ricompensa»: la ribellione, di riflesso, raggiunse la popolazione uigur, di religione musulmana, addestrata, armata e indotta alla guerra contro i russi. Gli Uigur di ritorno dalla jihad diedero inizio a una nuova lotta terroristica, proseguendo così una lunga guerra separatista che mirava alla creazione di un «Turkestan esterno» musulmano nella vasta regione occidentale dello Xinjiang cinese.

Anche per l'addestramento di oltre cinquantamila mercenari musulmani da inviare contro i russi la CIA aveva scelto di agire per procura. Gli ufficiali pakistani dell'ISI e alcuni capi della resistenza afgana seguirono così dei corsi appositi presso i centri della CIA e delle forze speciali della Marina e dell'Esercito degli Stati Uniti. L'addestramento vero e proprio si svolgeva, sotto lo sguardo attento di ufficiali pakistani e di un numero limitatissimo di funzionari della CIA, prima in Pakistan e, alla fine, nelle zone dell'Afganistan libere dalla presenza di truppe sovietiche e del governo comunista afgano. Per l'invio di armi si utilizzavano vari canali pubblici e occulti e diversi stratagemmi. Nei primi tempi del conflitto gli americani avevano lasciato al Pakistan il controllo totale dell'addestramento e dell'impiego delle risorse finanziarie, delle armi e del supporto logistico per i combattenti della jihad. I finanziamenti arrivavano da diverse fonti che, alla fine del conflitto, servirono a convertire i combattenti in terroristi internazionali. Per prima cosa, nel corso delle due presidenze Reagan (1981-89), si utilizzarono i soldi dei contribuenti americani. I contributi sauditi, di origine pubblica o privata, come quelli di bin Laden, si sommarono, dollaro su dollaro, a quelli americani. Altri miliardi arrivarono dalla Bank of Credit and Commerce International e dal commercio internazionale della droga.

Il libro documenta poi come la jihad afgana abbia favorito l'incremento della produzione di droghe e, negli ultimi tempi, fino al 1998, abbia messo nelle mani dei talebani vittoriosi il potere di bloccare o di incrementare questa produzione. Quantità tanto massicce di marijuana, di oppio, di semilavorati del papavero e di eroina non avevano mai raggiunto gli spacciatori, i drogati adulti, i bambini e le popolazioni dell'Occidente come alla fine degli anni Novanta. E questa è in gran parte una conseguenza diretta della «guerra santa» condotta dalla CIA tra il 1979 e il 1989.

La dipendenza da droghe prodotte localmente, favorita da chi, nella CIA e altrove, considerava i profitti di questo commercio una proficua fonte di finanziamento della guerra, ha prodotto devastazioni mai viste tra i ranghi dell'Armata Rossa prima e poi nella società sovietica. Il fenomeno ha avuto forse dimensioni maggiori di quello che ha portato alla dipendenza delle droghe tanti soldati americani durante il conflitto nel Sudest asiatico, in una sorta di contrappasso dopo che la CIA ne aveva favorito in qualche modo il commercio. Con l'aiuto di storici russi, di viaggiatori e giornalisti che hanno scritto sull'argomento negli ultimi vent'anni, l'autore ha cercato di ricostruire le modalità con cui i narcotici sono penetrati e si sono diffusi all'interno dell'ex Unione Sovietica. Gli enti antinarcotici degli Stati Uniti avevano previsto il pericolo che rappresentava per la società occidentale una politica che voleva utilizzare le droghe a fini bellici. Ma la CIA, che finanziava in prima persona la «guerra per procura», ha avuto chiaramente la meglio sui tentativi di mettere un freno al narcotraffico.

Le droghe, i lutti, le diserzioni, i ricordi traumatici delle atrocità commesse e subite: tutto questo ha reso in Russia ancor più amara l'umiliazione della sconfitta, ha contribuito a minare il morale della popolazione civile e dell'esercito, ha accelerato le defezioni e la disgregazione dell'ex impero sovietico nell'Asia centrale e sudorientale, dal Kazakistan al Caucaso. Nell'esercito il dilagare della prepotenza, del nepotismo e della corruzione nel corso della guerra e nel dopoguerra, ha portato alla distruzione di ogni spirito di corpo. Il graduale collasso delle forze armate ha indotto il presidente Boris Eltsin (1991-2000) e i suoi consiglieri a interventi disastrosi, come la guerra contro i separatisti islamici in Cecenia e altri conflitti di minore portata nella regione del Caucaso.

Il contagio islamista, portato dai veterani dell'Afganistan, si è diffuso molto rapidamente in tutta l'Africa del nord. In Egitto i reduci, molti dei quali si ritrovano ormai nel vicino Sudan, sotto l'ala protettiva del teologo e ideologo Sheikh Hassan al-Turabi e godono del supporto logistico di Usama bin Laden, sono stati alla testa di una feroce campagna condotta da estremisti in armi, culminata con il crudele massacro di 58 turisti, egiziani e stranieri, presso Luxor nel novembre 1997, che ha portato al disastro il settore turistico del Paese. Intanto, la società egiziana tende sempre più a islamizzarsi, anche in conseguenza della spinta in questa direzione data dalla entusiasta collaborazione di Sadat con gli americani e dalla sua indulgenza nei confronti della Fratellanza Islamica, che pure sarebbe fuori legge. Questo fenomeno ha avuto un effetto profondo sull'etica, sulla società, sulle leggi dell'Egitto, che resta lo Stato arabo più grande e influente del mondo.

In Algeria l'attività dei militanti islamisti – dopo che il governo militare aveva annullato le elezioni del 1992 che li avrebbero portati legalmente al potere – ha provocato la morte di ben centomila persone nel corso del decennio, assassinate da terroristi o da «squadroni della morte» che ricordano quelli dell'America centrale. Altri, che si contano a milioni, sono stati feriti o scacciati dalle proprie abitazioni. Ancor più che in Egitto, sono stati i reduci della guerra afgana, armati e ben addestrati, a istigare, scatenare e guidare le prime azioni terroristiche e di guerriglia delle milizie islamiche. Per dimensioni e per numero di vittime, pur senza incidere sulle esportazioni di petrolio e di gas naturale del Paese, la rivolta algerina richiama alla mente la violenza e il caos della rivoluzione coloniale per l'indipendenza dalla Francia del 1954-62. I nazionalisti erano usciti vittoriosi da quel primo conflitto che quasi in tutto il mondo era stato visto come una guerra giusta di una nazione di antiche tradizioni contro un potere coloniale e non come una guerra di religione o, ancor peggio, sostenuta da fanatici bigotti. Invece la jihad algerina degli ultimi anni, condotta da individui che sostengono – come in Afganistan i talebani, a loro ideologicamente affini – di avere il mandato divino per costruire uno Stato teocratico sulle rovine di quello corrotto e secolare, può avere esiti assai dubbi.

Alla fine degli anni Novanta né la Tunisia né il Marocco hanno ancora subito il contagio dalla vicina Algeria. In Tunisia Zine Abidine hen Ali - che proviene dalla polizia militare, ha studiato negli Stati Uniti e ha una mentalità laica - e in Marocco il re Mohammed II – sovrano sia per diritto secolare sia per diritto divino – sono alla testa di regimi che si proclamano democratici, che hanno una rispettabile facciata parlamentare e che cercano di promuovere in certa misura il benessere economico e sociale delle proprie popolazioni. Entrambi hanno preso precauzioni di tipo affatto particolare per vaccinarsi dall'infezione che ha colpito l'Egitto e l'Algeria. E questo nonostante che anche la Tunisia, come l'Algeria, aveva subito nello scorso decennio il proselitismo dell'organizzazione Tablighi Jamaat, nata nell'Asia meridionale, che reclutava giovani islamici, soprattutto tra gli studenti universitari, per dar loro una formazione religiosa in Pakistan. Per molti dei suoi proseliti questa era la strada che li avrebbe portati a un addestramento militare per la jihad. Il numero relativamente ridotto di tunisini addestrati alla guerra che hanno preso realmente parte ai combattimenti in Afganistan è strettamente collegato al fatto che il movimento islamista nel loro Paese è fuorilegge. In Libia uno dei più longevi leader arabi, il colonnello Muammar al-Gheddafi, che aveva rovesciato la monarchia conservatrice islamica di re Idris nel 1969, aveva fatto in modo di dissuadere i giovani libici dal prendere parte alla jihad afgana. Negli ultimi anni, tuttavia, appare chiaro che anch'egli deve far fronte a un'opposizione islamica clandestina nel proprio Paese. In Marocco la morte di Hassan II e l'ascesa al trono di suo figlio Muhammad VI, nel luglio 1999, ha dato il via a una fase di liberalizzazione, ma questo ha solo di poco fatto allentare la vigilanza nei confronti delle locali formazioni islamiste.

Una volta che i russi se ne sono andati e gli americani hanno voltato le spalle alle rovine dell'Afganistan, le armi e tutto il materiale fornito dalla CIA ai combattenti sono ricomparsi in gran quantità nelle mani dei ribelli del Kashmir che combattono per l'indipendenza dall'India, sostenuti dall'ISI pakistano, e di altri dissidenti in India. Ma dopo la ritirata dei russi, l'obiettivo principale di quanti sostengono la violenza nel movimento islamico è diventata l'America stessa. Questo libro, nel capitolo conclusivo, racconta come il germe della violenza, nato nel Sudest asiatico, si muove ora all'attacco degli Stati Uniti. L'inizio di questo attacco è segnato dall'attentato al World Trade Center di New York nel febbraio 1993, da quello tallito, che avrebbe dovuto fare migliaia di vittime e destabilizzare del tutto la vita nella metropoli americana, nel giugno 1993, dal primo attacco alla sede della CIA a Langley e da un piano che prevedeva di distruggere almeno undici aerei di linea americani in un solo giorno. L'organizzazione di bin Laden, al-Qaida, diretta dalla sua roccaforte in Afganistan dopo il forzato abbandono del Sudan nel 1996, si è poi data ad attacchi massicci al personale e alle sedi estere degli Stati Uniti.

Le due ambasciate americane di Nairobi e di Dar-es-Salaam distrutte il 7 agosto 1998 e gli attentati falliti nel corso dell'estate e dell'autunno di quell'anno a Kampala, Bangkok e Tirana sono indizi della crescente globalizzazione e privatizzazione delle attività terroristiche nei confronti degli Stati Uniti. L'attacco era portato in gran parte dagli ex alleati della jihad afgana e da gente che da questi era stata addestrata e ad essi si ispirava. Il presidente Clinton, evidentemente ansioso di distogliere l'attenzione dalle sue vicende sentimentali, fin troppo pubblicizzate, con la giovane stagista della Casa Bianca Monica Lewinsky (che avevano indotto, nell'inverno di quell'anno, la maggioranza repubblicana del Congresso a chiederne l' empeachment), il 20 agosto 1997 aveva ordinato un attacco missilistico di rappresaglia al campo di addestramento dei talebani in Afganistan, utilizzato degli uomini di bin Laden, e a una fabbrica di prodotti chimici, probabilmente innocua, di Khartoum. Questi raid, partiti da lontano, hanno gettato altra benzina sul fuoco di una situazione internazionale già resa critica dalla recessione economica.

Che relazione c'è tra tutto questo e i primi flirt, la love story e il breve matrimonio tra gli Stati Uniti e gli estremisti islamici? Per un verso gli Stati Uniti e gli altri Paesi occidentali si trovano davanti all'ovvia esigenza di distinguere tra una minoranza di estremisti e l'Islam, una delle principali religioni monoteistiche del mondo, che conta forse un paio di miliardi di credenti. Le forze oscure, settarie e medievali rappresentate esemplarmente da un movimento come quello dei talebani, creato dai pakistani, o dal gelido odio delle reti terroristiche internazionali, sono nate anche dagli errori di giudizio e dalle scelte politiche sbagliate dell'Occidente. Le conseguenze della guerra per procura del 1979-89 nell'Asia meridionale contro la potenza sovietica ormai allo stremo mettono in evidenza gli sbagli grossolani nella progettazione e nella conduzione del conflitto. Non c'è dubbio che gli anni Novanta siano segnati dallo spettacolare arretramento del comunismo. Si può rallegrarsene. Ma il mondo dovrà subire tragedie ancora peggiori se gli Stati Uniti e il resto del mondo occidentale, nel ventunesimo secolo, non saranno più cauti nella scelta degli alleati. Soprattutto, non si dovrà cadere nella trappola nefasta di chi vuole rimpiazzare la fede secolare nel comunismo, ormai morente, con la fede religiosa dell'Islam quale avversario diabolico che deve essere sconfitto.

marzo 2000

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