|
|
| << | < | > | >> |IndiceXI Prefazione Parte prima 1 In principio. Gli esordi della storia del cristianesimo (I-V secolo) 7 1. L'emergere del cristianesimo Gesù di Nazareth: profeta ebreo o Figlio di Dio? 13 L'ambito della prima alleanza. L'ambiente giudaico 18 Le comunità cristiane di origine giudaica in Palestina 23 Paolo e la prima espansione cristiana 33 2. Cristiani «nel mondo ma non [...] del mondo» 33 Perseguitati ma sottomessi all'Impero romano (fino al 311) 38 «Noi viviamo con voi» ma... I cristiani e i costumi del loro tempo 42 In risposta alle critiche: gli apologeti, da Aristide a Tertulliano 47 3. L'Impero romano diventa cristiano 47 Da Costantino a Teodosio. Dalla conversione dell'imperatore alla conversione dell'Impero 51 Pensare l'Impero cristiano. Teologia politica e teologia della storia 55 Roma christiana, Roma æterna: il posto della Chiesa di Roma nella tarda Antichità 59 4. Definire la fede 59 Eresie e ortodossia 63 Gli avversari del cristianesimo. Gnosi e manicheismo 68 L'elaborazione di un'ortodossia nel IV e nel V secolo 73 5. L'edificazione delle strutture cristiane 73 Strutturare le Chiese 78 Iniziazione cristiana, culto e liturgia 83 La cristianizzazione dello spazio e del tempo 88 Dignità dei poveri e pratica dell'assistenza 93 Alla ricerca della perfezione. Ascetismo e monachesimo 97 6. Intellettuali cristiani al servizio della conferma della fede: i Padri della Chiesa 97 Basilio, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo 102 Girolamo e la "Vulgata" 106 Sant'Agostino e l'irradiazione del suo pensiero 115 7. Annunciare il Vangelo «fino ai confini della terra» 116 La cristianizzazione del bacino mediterraneo entro i limiti dell'Impero romano (V secolo) 122 I popoli cristiani ai margini dell'Impero romano 128 I barbari cristiani all'interno e all'esterno dell'Impero romano Parte seconda Il Medioevo: né leggenda nera né leggenda aurea... (V-XV secolo) 137 1. Consolidamento ed espansione 137 San Benedetto, padre dei monaci d'Occidente 142 Gregorio Magno: un pastore a misura dell'Occidente 147 Intorno all'anno Mille: le «nuove cristianità» 153 Roma, testa della Chiesa latina (a partire dall'XI secolo) 158 Bisanzio/Costantinopoli e l'Occidente: comunione e differenziazione 163 San Bernardo di Chiaravalle e i cistercensi 167 La cattedrale 173 2. Affermazione, contestazioni e risposta pastorale 173 La prima crociata (1095) e le sue conseguenze 178 Le eresie (XII secolo) 183 L'Inquisizione (XIII secolo) 188 La fine dei tempi 193 Il concilio laterano IV (1215): lo slancio pastorale 198 Francesco d'Assisi 203 Gli ordini mendicanti 208 Tommaso d'Aquino 213 3. Prodigarsi per la propria salvezza 213 Il purgatorio e l'aldilà 218 Culto dei santi, reliquie e pellegrinaggi 223 Nostra Signora 227 Il fiorire delle opere di carità (secoli XII e XIII) 231 Il culto del Santissimo Sacramento (XIII secolo) 235 Jan Hus 240 La ricerca di Dio. Mistici d'Oriente e d'Occidente 250 L'imitazione di Cristo Parte terza I tempi moderni (XVI-XVIII secolo): imparare il pluralismo 261 1. Le strade della Riforma 261 Erasmo e Lutero: libertà o servitù dell'essere umano 266 Fino in fondo alle Scritture: i radicali delle riforme 270 Calvino. Elezione, vocazione e lavoro 274 La via media anglicana: una lenta costruzione 279 2. Rivalità e lotte 279 Ignazio di Loyola e l'avventura gesuita 284 Le Inquisizioni in epoca moderna 288 Liturgie nuove o liturgie di sempre? 294 Mistica del cuore, del fuoco e della montagna 299 Mistica dell'Incarnazione e della servitù 304 Il giansenismo tra seduzione rigorista e mentalità di protesta 309 3. Evangelizzare e inquadrare il mondo 309 Cristianesimi lontani 314 Le missioni africane (secoli XVI-XX) 318 «Istruire al cristianesimo» 323 L'immagine tridentina: ordine e bellezza 328 Roma e Ginevra: le nuove Gerusalemme della comunicazione 333 4. Nuovi orizzonti di sensibilità 333 Bach, la musica senza frontiere 337 La nascita della critica biblica (secoli XVI e XVII) 342 Il rinnovamento protestante: dal pietismo al pentecostalismo passando per i risvegli 346 I santi e la loro nazione (secoli XIV-XX) 350 L'Ortodossia russa: monolitismo e lacerazioni (secoli XVI-XVIII) Parte quarta La fase di adattamento al mondo contemporaneo (secoli XIX-XXI) 359 1. L'evoluzione dell'esegesi biblica e delle forme della pietà 359 La Bibbia e la storia delle religioni (secoli XIX-XX) 364 Jean-Marie-Baptiste Vianney, curato d'Ars (1786-1859) 368 Il rinnovamento della teologia e del culto mariano 372 Teresa del Bambin Gesù (1872-1897) 377 Pio X, l'infanzia spirituale e la comunione privata 382 Due secoli di dispute sull'arte sacra 387 2. La dottrina cristiana di fronte al mondo moderno 387 Il cattolicesimo intransigente: la "fase Pio IX" (1846-1878) 392 L'enciclica Rerum novarum (1891) e la dottrina sociale della Chiesa cattolica 396 Il cristianesimo e le ideologie del XX secolo 400 Il concilio vaticano II (1962-1965) 404 Il cattolicesimo di fronte al controllo delle nascite 409 3. Il cristianesimo a dimensione planetaria 409 Flashback sulla lunga storia del cristianesimo orientale in epoca ottomana (secoli XV-XIX) 417 L'azione missionaria nel XIX e XX secolo 422 Il protestantesimo nell'America del Nord 426 Dall'ecumenismo all'interreligiosità? 431 Glossario 433 Riferimenti bibliografici 437 Gli autori 445 Indice delle carte storiche |
| << | < | > | >> |Pagina 1Parte primaIn principio.
Gli esordi della storia del cristianesimo (I-V secolo)
Elemento costitutivo della cultura del nostro tempo, il cristianesimo è nato in un'epoca precisa della storia del mondo mediterraneo e del vicino Oriente, l'Antichità, in un paese, la Giudea, che allora faceva parte dell'Impero romano; con radici nella fede e nella cultura giudaiche, ebbe poi rapido sviluppo nella cultura greco-romana. Il cristianesimo è sorto dalla predicazione del profeta ebreo Gesù di Nazareth, nel quale i cristiani riconoscono il Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la salvezza degli uomini. La loro fede si fonda sulla testimonianza dei primi discepoli che hanno riconosciuto in Gesù il Messia o Cristo (da cui il nome cristiani) annunciato dai profeti. Questi hanno proclamato che Dio aveva resuscitato colui che era stato messo a morte per mano degli uomini. Essi hanno toccato il suo corpo – fondamento della credenza dei cristiani nella resurrezione della carne –, e poiché questo in seguito era scomparso ai loro occhi, Dio aveva inviato lo Spirito Santo per dar loro la forza di annunciare quella Buona Novella (Vangelo) «fino ai confini della terra», così come prescriveva la missione affidata loro da Gesù. In Palestina si formarono tra i giudei e i non giudei (o gentili) piccole comunità di credenti, che si diffusero poi nella parte orientale dell'Impero romano e a Roma, e successivamente nella sua parte occidentale, ma anche in regioni esterne – Mesopotamia e forse India in epoca apostolica, Armenia, Georgia, Etiopia – e, nel IV e nel V secolo, tra i popoli barbari: visigoti, ostrogoti, vandali. I cristiani dei primi secoli vissero e praticarono la loro fede nelle reali condizioni del mondo del loro tempo. La Buona Novella di Gesù Cristo e gli altri testi che compongono il Nuovo Testamento sono stati messi per iscritto in greco, sebbene in certi casi siano stati simultaneamente utilizzati l'aramaico, l'ebraico e il siriaco. La Bibbia (Antico e Nuovo Testamento – il primo aveva già una versione greca, quella dei Settanta) venne tradotta in varie lingue: latino, gotico, siriaco, copto, armeno, slavone. Sempre in greco sono stati concettualizzati e formulati i primi articoli di fede. I cristiani dell'Antichità si sono avvalsi di modi del pensiero giudaico, di categorie filosofiche del pensiero greco, di tecniche discorsive della retorica greca e latina, al fine di articolare una teologia che è andata perfezionandosi nel corso del tempo. Coloro che l'hanno fatto – vescovi riuniti in concili, apologisti, Padri della Chiesa – erano mossi dalla certezza di esprimersi sotto l'ispirazione dello Spirito Santo. Quando risultò evidente che il ritorno del Cristo, che i primi cristiani avevano atteso, non era imminente, le comunità si organizzarono e si strutturarono, unite da un legame di comunione. Se spiritualmente la Chiesa si definisce come corpo mistico del Cristo che ne è la testa e di cui tutti i battezzati sono i membri, nella realtà la Chiesa è andata costituendosi a partire dalle Chiese locali unite da un comune patrimonio di credenze e riti fondamentali (battesimo ed eucarestia). Con l'ausilio dei concetti di eresia e ortodossia, elaborati un po' alla volta, si è costituita una dottrina che, marginalizzando alcune correnti, ha portato alla costruzione della "Grande Chiesa". Perseguitati all'inizio dalle autorità giudee, i cristiani, una volta identificati come tali, lo furono anche dalle autorità romane, che punivano il loro rifiuto di venerare gli dèi comuni a tutti. Pur sottomessi allo Stato e al potere, per il quale dovevano pregare, i cristiani si distinguevano per la loro fede e l'attaccamento a valori e costumi che davano loro modo di vivere con i contemporanei, «nel mondo ma non [essendo] del mondo». Per tale ragione, erano soggetti all'ostilità popolare e al disprezzo dei colti. A quella e a questi replicavano gli intellettuali cristiani, mentre in tempo di persecuzioni uomini e donne testimoniavano la loro fede e rivendicavano la loro fede in Cristo fino alla morte; questi martiri diventavano modelli da venerare, ma i sacerdoti erano disposti a riconsacrare, dopo un'adeguata penitenza, coloro che avevano ceduto ed erano crollati. Cessate le persecuzioni, l'ascetismo sostituì il martirio quale mezzo per raggiungere la santità attraverso l'identificazione con il Cristo. Il riconoscimento della libertà religiosa di fronte al fallimento delle persecuzioni, l'adesione personale dell'imperatore Costantino alla fede cristiana (a partire dal 312) e poi quella dei suoi successori, fatta eccezione per Giuliano l'Apostata, crearono condizioni del tutto nuove. Ormai l'imperatore accordava ai cristiani favori tali da permettere una certa cristianizzazione dello spazio e del tempo. Interveniva anche nelle questioni della Chiesa, persino nella definizione della fede, cosa che durante il IV secolo fu fonte di conflitti. Represse un po' alla volta i culti tradizionali, fino a vietarli alla fine del IV secolo, facendo del cristianesimo la religione dello Stato. Fu un'evoluzione sostenuta da una teologia cristiana del potere politico e della storia. I cristiani dovevano immaginare il sovrano cristiano e il suo posto nella Chiesa, ma anche la funzione dell'Impero romano nel piano provvidenziale di Dio, per poi comprendere, quando Roma fu minacciata, che la sorte della Chiesa non era legata a nessuno Stato, per quanto cristiano fosse. I cristiani imparavano così a pensarsi «cittadini del Cielo» e ad aspirare al «Regno che non avrà fine». Françoise Thelamon | << | < | > | >> |Pagina 71. L'emergere del cristianesimoGesù di Nazareth: un profeta ebreo o il Figlio di Dio? Come ci è nota la vita di Gesù di Nazareth Gesù ha parlato, ma non ci ha lasciato nessuno scritto: non ci è pervenuto nessun documento da lui redatto. Le fonti storiche di cui disponiamo sono tutte indirette, ma sono anche moltissime. La più antica è rappresentata dalle lettere dell'apostolo Paolo, databili tra l'anno 50 e il 58. Vi si dà atto della morte del Nazareno per crocifissione e della fede nella sua Resurrezione; all'apostolo, inoltre, era nota una raccolta di «parole del Signore», che utilizzava (a volte senza citarle) nelle sue argomentazioni. Vennero in seguito i Vangeli: prima quello di Marco, redatto verso il 65, sulla scorta di tradizioni risalenti agli anni quaranta; poi quelli di Matteo e di Luca, compilati tra il 70 e l'80 amplificando il vangelo di Marco; infine quello di Giovanni, risalente al 90-95. Non si tratta di cronache storiche, bensì di scritti che raccontano la vita del Nazareno, in una prospettiva di fede tale da presentare però simultaneamente i fatti e la loro lettura teologica. Vangeli più tardivi assenti dal Nuovo Testamento, i cosiddetti apocrifi, hanno forse ereditato tradizioni non riportate dai quattro precedenti: soprattutto il Vangelo di Pietro (120-150), il Protovangelo di Giacomo (150-170) e il Vangelo copto di Tommaso (attorno al 150).
Sono invece rare le fonti non cristiane: gli storici romani non
hanno ritenuto l'avvenimento degno di essere raccontato. Ma lo
storico ebreo Giuseppe Flavio, nelle sue
Antichità giudaiche
(93-94) afferma: «A quell'epoca viveva un saggio di nome Gesù.
La sua condotta era buona, ed era stimato per la sua virtù. Numerosi furono
quelli che, tra i Giudei e le altre nazioni, divennero suoi discepoli. Pilato lo
condannò a essere crocifisso e a morire». Nel Talmud giudaico si trovano, più
tardive, una quindicina di allusioni a «Yeshou», in cui si dà atto della sua
attività di guaritore e della sua condanna a morte per avere traviato il
popolo.
Di cosa si può avere certezza? La ricostruzione della vita di Gesù è stata oggetto di indagini letterarie minuziose; come per tutti i personaggi dell'Antichità, però, le certezze assolute sono ben poche. Alcuni fatti possono essere tuttavia affermati con relativa certezza. Gesù nacque in una data ignota, che potrebbe essere l'anno 4 prima della nostra era (prima della morte di Erode il Grande). Venne battezzato nel Giordano da Giovanni Battista, di cui era divenuto discepolo prima di formare una propria cerchia di seguaci. Al pari di Giovanni, attendeva l'imminente venuta di Dio nella storia e condivideva la convinzione che, per essere salvati, non bastasse appartenere al popolo di Israele: era indispensabile praticare l'amore e la giustizia. Verso i trent'anni, Gesù era un predicatore popolare che riscuoteva un certo successo in Galilea. Ben più dei rabbi (dottori della Legge) dell'epoca, insegnava con un linguaggio semplice; le sue parabole si rifacevano al contesto familiare dei suoi ascoltatori (la campagna, il lago, la vigna) per esprimere la meraviglia di un Dio vicino e accogliente. Gesù semplificava l'obbedienza alla Legge incentrandola, come altri rabbi prima di lui, sull'amore per il prossimo. I suoi numerosi atti di guarigione fecero di lui un guaritore di talento e apprezzato. Con il suo gruppo di seguaci, conduceva vita itinerante; il gruppo veniva nutrito e alloggiato nei villaggi in cui faceva tappa. Oltre a una stretta cerchia di dodici galilei, lo accompagnavano uomini e donne che condividevano il suo insegnamento quotidiano.
A causarne la rovina fu la sua salita a Gerusalemme. Nel tempio, Gesù
commise un gesto violento, un atto profetico destinato
ad attirargli l'ostilità dell'élite politica di Israele: rovesciò i banchi dei
venditori di animali destinati al sacrificio, forse per protestare contro la
moltiplicazione dei riti che si interponevano tra
Dio e il suo popolo. Su istigazione del partito sadduceo, fu allora
deciso di denunciare Gesù al prefetto Ponzio Pilato come promotore di agitazioni
popolari. Intuendo che l'ostilità avrebbe
avuto la meglio, Gesù prese congedo dagli amici durante un ultimo pasto insieme
(la Cena), nel corso del quale definì il rito di
comunione con il suo corpo e il suo sangue: il pane spezzato e la
coppa alla quale tutti bevvero, a simboleggiare la sua prossima
morte e a celebrazione della sua memoria. Dopo l'arresto, facilitato da Giuda,
uno dei discepoli, Gesù fu condotto dinanzi al
prefetto, condannato a morte e consegnato ai legionari che lo
crocifissero. La sua breve agonia, durata solo qualche ora, meravigliò Pilato:
l'uomo di Nazareth doveva essere di debole costituzione. Poco dopo la sua morte,
si diffuse la voce che i suoi discepoli lo avevano visto vivo e che Dio lo aveva
chiamato a sé.
Un riformatore d'Israele Gesù di Nazareth non mirava a creare una religione a sé stante. La sua ambizione era quella di riformare la fede di Israele, come è simboleggiato dalla cerchia dei dodici intimi che lo seguivano, i quali rappresentavano il popolo delle dodici tribù, il nuovo Israele da lui vagheggiato. Gesù voleva riformare la fede giudaica, ma perché falli? Egli era un mistico, con una profonda esperienza di Dio, per lui così vicino agli uomini che, per pregarlo, bastava chiamarlo «papà» (abba in aramaico). Le sue parole e i suoi gesti sono segnati da un sentimento di estrema premura. L'invito a seguirlo sovvertiva i legami più consolidati: la famiglia, da cui non era più necessario prendere congedo, e il padre, di cui si poteva non celebrare il funerale. Questo attacco ai valori familiari e ai riti funebri dovette essere giudicato assolutamente indecente. L'altro segno della sua urgenza era la necessità di annunciare il Regno di Dio così in fretta che i discepoli ebbero l'ordine di andare a rendere testimonianza senza portare «né borsa né bisaccia, né sandali», e di non salutare «nessuno lungo la strada».
Non meno scioccante fu la sua trasgressione del riposo sabatico.
Gesù guarì più volte nel giorno del sabato
(shabbat),
rivendicando a sua giustificazione l'imperioso bisogno di salvare una vita. Nei
suoi commenti alla Torah (la Legge), la raccolta delle prescrizioni
divine, l'imperativo dell'amore per il proprio simile mandava in secondo piano
ogni altro comandamento; persino il rito sacrificale al
Tempio di Gerusalemme era secondario all'esigenza di riconciliazione con il
proprio avversario. Sia le guarigioni che l'interpretazione della Torah
eprimevano uno stato di urgenza suscitato dalla
convinzione dell'imminente venuta di Dio. Gesù era certo di precedere di poco
l'avvento di Dio il quale, a suo giudizio, avrebbe annullato ogni causa di
sofferenza e raccolto i suoi attorno a sé. Nulla
più importava, se non l'invito a convertirsi.
Scandalose scelte di solidarietà sociale I Vangeli e il Talmud ebraico sono concordi nel riferire la scandalosa libertà di Gesù nelle sue frequentazioni. Gesù infatti si mostrò solidale con tutte le categorie sociali emarginate dalla società giudaica del tempo, vuoi per diffidenza, per sospetto politico o per discriminazione religiosa. L'accoglienza che riservava alle donne, ai malati e alle persone emarginate faceva scalpore; riteneva infatti che le regole di purezza, che vietavano ogni contatto con tali persone, fossero in contraddizione con il perdono concesso da Dio. «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori». Gesù non condivideva l'ostracismo che colpiva gli esattori delle imposte per ragioni politiche e i samaritani per ragioni religiose. Ammetteva le donne nella sua cerchia, infrangendo il pregiudizio religioso a cui erano soggette. Si lasciava avvicinare e toccare dai malati, reintegrandoli nel popolo santo mediante le sue guarigioni. Si rivolgeva agli abitanti delle campagne, quel «popolo della terra» denigrato dai farisei per la sua incapacità di attenersi al codice di purezza e di pagare le decime imposte su ogni prodotto. L'usanza di Gesù di consumare i pasti con i reietti e le donne di cattiva reputazione era il segno più tagliente del suo rifiuto di ogni discriminazione. L'agape non equivaleva soltanto a un'opzione di tolleranza sociale e religiosa, ma anticipava il banchetto della fine dei tempi, radunando tutti coloro che il Regno di Dio avrebbe accolto in futuro. La convivialità con gli emarginati rivelava la speranza di Gesù in un Regno che avrebbe travolto la società del suo tempo: una speranza in contraddizione con la rigida struttura che l'ordine religioso fondato sulla Torah e sul Tempio aveva imposto alla società giudaica. E furono proprio l'attacco alla struttura della religiosità giudaica, giudicato blasfemo, e l'apertura di Gesù agli emarginati ad attirargli l'avversione mortale delle autorità religiose della sua epoca. | << | < | > | >> |Pagina 106Sant'Agostino e l'irradiazione del suo pensieroPer un paradosso della storia, il cristianesimo occidentale latino è nato nell'Africa settentrionale, un paese oggi completamente islamizzato. Apparsa in Oriente in ambito ebraico e ben presto intrisa di ellenismo, per molto tempo la nuova religione poté contare solo, a Roma come nel resto dell'Europa occidentale, su pochissimi membri delle colonie d'Oriente. Nell'Africa del Nord, durante la seconda metà del II secolo, la comunità cristiana occidentale cominciò a prendere finalmente slancio in tutti gli ambienti sociali, connotandosi fin dall'inizio per l'adozione della lingua latina. Fu qui che, nel V secolo, il cristianesimo occidentale costruì la propria identità intellettuale e spirituale, grazie al suggello indelebile che gli venne conferito dal pensiero e dall'opera di sant'Agostino. Agli occhi dello storico, Agostino ha una triplice caratteristica. Innanzitutto, è lo scrittore antico più prolisso, tanto che a noi sono pervenute migliaia di pagine della sua opera, e nei manoscritti si continuano a scoprire testi suoi di cui ignoravamo l'esistenza (ventinove lettere nel 1981, una trentina di sermoni negli anni novanta). D'altra parte, Agostino è l'uomo dell'Antichità di cui conosciamo meglio la vita, i sentimenti, la psicologia grazie alle sue stesse testimonianze, contenute non solo nelle Confessioni, in cui egli racconta i primi trentaquattro anni della sua vita. La terza caratteristica è l'enorme influenza del suo pensiero, destinato a segnare in maniera decisiva l'Occidente cristiano per tutto il Medioevo e l'epoca moderna. Una prova di questa influenza risiede nel fatto che i monaci medievali hanno instancabilmente ricopiato le sue opere, trasmettendoci oltre quindicimila manoscritti contenenti le riproduzioni dei suoi scritti. Agostino nacque nel 354 nella cittadina di Tagaste (oggi Souk Ahras), in Algeria, nei pressi della frontiera tunisina. I suoi genitori erano piccoli notabili locali, ma riuscirono ad assicurargli una brillante educazione, che gli permise di diventare, nel 375, professore di retorica a Cartagine. Giunto in Italia nel 383, Agostino divenne docente a Milano, dove risiedeva l'imperatore, nutrendo l'ambizione di una brillante carriera amministrativa e politica. La sua conversione nel 386 mise fine a questi propositi e lo indusse a tornare in Africa nel 388, per dedicarsi alla vita religiosa. Nel 391 divenne prete, nel 395 vescovo di Ippona, oggi Annaba (anticamente Bona), e si consacrò al ministero pastorale, oltre che alla sua immensa opera destinata a protrarsi fino alla morte, che lo colpì nel 430, a quasi settantasei anni di età, nella sua città episcopale assediata dai vandali. Soggiornò cinque anni in Italia, ma per tutto il resto della sua lunga esistenza Agostino visse e scrisse nell'Africa del Nord. La sua opera, tuttavia, ebbe ben presto un'enorme risonanza in tutta Europa: all'epoca, infatti, i paesi a nord e a sud del Mediterraneo non appartenevano a universi linguistici e culturali differenti. Le province dell'Africa romana erano tra le più ricche dell'immenso Impero; numerose e prospere città ospitavano un'élite colta, costituita perlopiù da berberi latinizzati (tale era, con ogni evidenza, anche Agostino e tutta la sua famiglia). L'Africa sembra essere stata risparmiata dal declino toccato durante il basso Impero a certe regioni dei domini romani. Gli scambi culturali ed economici con l'Europa erano continui, e la metropoli cartaginese, seconda città dell'Occidente dopo Roma, godeva di un prestigio che trascendeva di gran lunga le coste dell'Africa. Ciò spiega perché le opere di Agostino, redatte in Africa, potessero venire immediatamente lette e commentate nell'intero mondo occidentale. A Cartagine, alcuni ammiratori facevano eseguire copie dei suoi libri per spedirle in Italia, da cui si diffondevano in un secondo momento in Gallia e in Spagna. Quest'irradiazione del suo pensiero si doveva alla profondità della sua riflessione teologica ma anche al suo straordinario talento letterario, al suo linguaggio ricco, originale e denso di significati, alla sua capacità di esprimere attraverso la lingua scritta la sua acuta sensibilità e la profondità, prima di lui ignota, dell'analisi psicologica. Spesso la posterità ha letto in lui null'altro che un fondamentale pessimismo sulla natura umana, corrotta dal peccato originale e incline al male, oltre che un austero rigorismo morale. Ciò si deve al fatto che nel corso dei secoli i teologi agostiniani hanno finito per sistematizzare e in un certo senso irrigidire il pensiero del maestro, che nella sua opera gigantesca si rivela invece complesso, sottile e non privo di contraddizioni (nel corso degli anni subì molte evoluzioni). Questo rende assai difficile una presentazione sommaria: in questa sede, ci limiteremo ad accennare soltanto ad alcuni aspetti di un pensiero che, come abbiamo detto, è estremamente vario, molteplice e multiforme. Solo nell'ultima fase della sua vita, mosso dal fervore della controversia con i suoi avversari pelagiani, Agostino espose le sue tesi in maniera precisa e sistematica, in particolare riguardo alla dottrina della predestinazione, nella quale, ormai vecchio, senza volerlo fece la caricatura di se stesso. Per Agostino la natura umana è irrimediabilmente segnata dal peccato: l'uomo non può accedere alla salvezza per i suoi meriti personali o le sue buone opere, ma solo la grazia divina può salvarlo. Era del resto questa l'esperienza dello stesso Agostino, come risulta dalle Confessioni: dopo aver errato a lungo, Dio lo aveva in qualche modo preso per mano guidandolo a sé, rivelandogli la sua presenza nella più profonda intimità del suo essere e l'onnipotenza del suo perdono. La conversione di Agostino non fu dovuta dunque a meriti personali, ma fu la risposta a una chiamata divina, una replica alla grazia. | << | < | > | >> |Pagina 1732. Affermazione, contestazioni e risposta pastoraleLa prima crociata (1095) e le sue conseguenze La crociata suscita sempre un interesse storiografico condizionato dalle scelte ideologiche e dallo spirito del tempo. L'espansione e la colonizzazione europea del XIX secolo e l'esperienza sionista del XX secolo hanno suscitato e continuano a suscitare confronti e assimilazioni di carattere polemico, fondate sull'identificazione del movimento del 1095 con un'aggressione frontale venuta dall'Occidente. Non senza minore sottigliezza, la crociata è stata interpretata in base a schemi di lettura economici e sociali (espansione del feudalesimo o del commercio italiano) già reperibili negli storici arabi tra il XII e il XIII secolo e che la privano di ogni specificità e che, assimilando la crociata alla Riconquista iberica e alla conquista della Sicilia, non permettono di coglierne l'originalità. Nella crociata conversero infatti le tre diverse istanze dell'Europa latina: essa fu la risposta all'appello dei cristiani oppressi e sottomessi all'islam, vale a dire i mozarabi dell'Andalusia, i greci della Sicilia e i cristiani della Palestina. Le sofferenze di questi ultimi erano ben note all'Europa. Sotto la terribile persecuzione del califfo fatimide Hakim nel 1009-1012, avevano assistito all'assassinio del patriarca di Gerusalemme, zio materno del califfo, alla distruzione di tutti i santuari cristiani ed ebraici e alla conversione forzosa che investì tutto l'impero fatimide, dalla Sicilia alla Siria. La prima conseguenza era stata il crescente sviluppo dei pellegrinaggi in una Gerusalemme senza chiese, iniziati nel 1025, rallentati tra il 1040 e il 1050 e ripresi in seguito mediante spedizioni numerose e armate, oltre che con la moltiplicazione in Europa occidentale delle chiese dedicate al Santo Sepolcro o edificate a imitazione della sua pianta rotonda. La crociata del 1095-1099 fu un movimento religioso autonomo dal magistero pontificio, guidato da laici e quasi senza controlli da parte della gerarchia episcopale, assente dalla marcia verso Gerusalemme. A spingere a una prima mobilitazione non fu l'appello di Clermont lanciato da Urbano II, peraltro di contenuto incerto (sostegno a Bisanzio o liberazione dei cristiani d'Oriente e dei luoghi santi?), ma la diffusione da parte di Pietro l'Eremita, tornato dalla Terra Santa, della lettera del patriarca di Gerusalemme Simeone, esortante alla liberazione dei cristiani. L'appello pontificio fuse, nella nuova formula giuridica del voto di partire, due elementi: l'impegno del pellegrino e l'indulgenza plenaria promessa ai penitenti. Il voto venne immediatamente simboleggiato da una croce di stoffa cucita sulla veste. Fu un numeroso popolo di pellegrini e di pellegrine penitenti — oltre centomila — quello che partì nel 1096, animato da uno spirito di guerra santa attinto dalla Bibbia, in particolare dai Libri dei Maccabei, e rafforzato dall'esperienza spagnola e siciliana tra il 1060 e il 1080. La battaglia di Cerami, in cui il conte Ruggero di Sicilia mise in fuga i musulmani, fu il prototipo dei combattimenti del 1098-1099: quello di una vittoria schiacciante per intervento divino. Essa segnò la rottura, senza dubbio preparata dalle spedizioni carolinge contro i pagani, con la tradizione che identificava la vita militare con il male e l'impurità (militia malitia). Le forze militari della spedizione del 1096 comprendevano diecimila cavalieri inquadrati dai primogeniti delle principali famiglie dell'aristocrazia europea, come Goffredo di Buglione e Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa. Si trattava di una vera e propria communia, come quelle delle città e dei borghi europei non sottoposte ad autorità regia. Lungi dall'essere ostile, l'accoglienza dell'Impero bizantino si tradusse in un'efficace e duratura collaborazione, ben presto ostacolata dalle ambizioni di alcuni capi della crociata ma infranta solo all'inizio del XIII secolo. L'assedio di Antiochia, dall'ottobre del 1097 al giugno del 1098, rese evidente l'originalità del movimento, egregiamente analizzata da Paul Alphandéry. In un'atmosfera satura di richiami biblici, in particolare ai "poveri di Israele", e di tematiche di liberazione messianiche, i segni del cielo non facevano che moltiplicarsi: visioni sovrannaturali e promesse di miracoli, apparizioni di angeli e di santi combattenti. Sebbene nell'esercito non mancassero coloro che nutrivano dubbi sulla loro autenticità, le visioni di Pietro Bartolomeo e la scoperta della sacra lancia diedero vivo impulso ai pellegrini. L'esercito turco fu travolto, e l'impero selgiuchide crollò. L'aiuto dei cristiani di Siria permise ai crociati di giungere rapidamente sotto le mura di Gerusalemme. | << | < | > | >> |Pagina 183L'Inquisizione (XIII secolo)Una serie di concili regionali coronata dal concilio laterano III (1179) e poi dalla bolla Ad abolendam (1184) diede l'avvio alla persecuzione organizzata degli eretici. Con l'appoggio dei sovrani temporali, il cui potere giudiziario conobbe la stessa evoluzione, si passò così dalla giustizia accusatoria a quella inquisitoria nell'ambito della fede. Successivamente, mediante la Costituzione Vergentis in senium (1199), papa Innocenzo III assimilò le eresie a un crimine di lesa maestà divina comportante le stesse pene degli attentati alla maestà imperiale romana. Per svariati fattori, nella cristianità dell'epoca prevaleva ormai l'opinione che la Linguadoca fosse popolata soltanto da eretici. In effetti, a partire dal 1170, i potenti vicini dei conti di Tolosa, il duca di Aquitania, re d'Inghilterra, e il conte di Barcellona, re di Aragona, strumentalizzarono l'eresia per farne un motivo di ingerenza nei territori del principato tolosano. La debolezza politica del Midi faceva inoltre di questo territorio un ambito privilegiato dell'azione del sovrano pontefice e dei suoi legati, perlopiù cistercensi: la lotta contro l'eresia era il fondamento della loro politica e di essa si servirono per rinnovare l'episcopato, sostituendo i vescovi legati ai poteri locali con dei prelati fedeli a Roma. La lotta contro l'eresia, inoltre, fornì loro il pretesto per imporre al conte di Tolosa una subordinazione de facto al papa. Queste offensive contribuirono a promuovere un'immagine iperbolica della dissidenza della Linguadoca. La situazione si aggravò dopo il fallimento della IV crociata (1204), che in un certo senso si era fatta beffa del potere pontificio. I predicatori popolari sostenevano oltretutto che quel fiasco derivasse dall'impurità che l'eresia aveva portato in Occidente. In questo contesto, l'assassinio del legato pontificio Pierre de Calstelnau sulle rive del Rodano un mattino del gennaio 1208 scatenò la crociata contro i nemici interni (1209). Rispetto alla dissidenza, l'iniziativa si rivelò in tutto e per tutto controproducente, in quanto questa forma di violenza collettiva non fece che alimentare l'eresia. Di conseguenza, quando i crociati tornarono, dopo il 1218, i seguaci degli "uomini buoni" conobbero quindi il loro periodo migliore. La situazione cambiò drasticamente con l'intervento del re nel Midi. Il trattato di Parigi, concluso nel 1229, decretò la caccia agli eretici. Gli fece eco un concilio in cui vennero definiti i principi dell'Inquisizione, per il momento affidata ancora ai vescovi. Dopo una serie di incerti tentativi riguardanti l'Italia, per combattere l'eresia nella Germania meridionale Gregorio IX istituì, nell'ottobre del 1231, un gruppo giudici da lui delegati: fu allora che nacque l'Inquisizione pontificia. Al pari della bolla Vergentis in senium, emanata contro gli abitanti di Viterbo che si erano rivoltati al papa, l'Inquisizione riguardò in primo luogo questioni italiane, in particolare il conflitto tra Federico II e la Santa Sede. Tuttavia, una volta estesa alla Germania e all'intera cristianità latina nella primavera del 1233, l'Inquisizione divenne presto la manifestazione dell'universalità del potere pontificio, permettendo al papa di intervenire ovunque in nome della difesa della fede; strumento del magistero pontificio, essa serviva anche alla sua affermazione. L'Inquisizione era una giurisdizione eccezionale, derogatoria di ogni diritto. Alla procedura accusatoria, orale e pubblica, essa sostituì una procedura – a cui dovette il proprio nome – di inchiesta d'ufficio assolutamente segreta, senza che gli imputati avessero diritto a un'assistenza legale. Essa si serviva di tecniche "moderne", frutto della razionalità universitaria: elaborazione di manuali pratici e precisi, catalogazione di una memoria strutturata e inscritta in registri, che la nascente industria della carta permetteva di moltiplicare. Gli inquisitori miravano a ottenere la confessione degli accusati, cosa che, dal punto di vista giudiziario, era allora considerata una prova perfetta; dal punto di vista spirituale, nel caso fosse stata sincera, essa apriva le porte alla penitenza. Agli eretici pentiti veniva quindi concessa la penitenza, che a seconda della gravità delle colpe assumeva la forma della prigione, il "muro", o dell'imposizione – infamante – della croce, accompagnata da pellegrinaggi ai principali santuari della cristianità. Anche la partecipazione al passaggio oltremare, vale a dire la crociata in Oriente, costituiva una pena, in vigore fino al 1250 circa. Gli eretici impenitenti venivano invece consegnati ai rappresentanti del potere temporale, che li mandavano al rogo. Questi atti di fede, che nel XXI secolo appaiono così scandalosi, nel XIII secolo non avevano affatto l'impatto che si potrebbe immaginare. Per la maggioranza della popolazione si trattava di cerimonie penitenziali e purificatrici finalizzate a ridurre una frattura e a segnare un ritorno all'unità e all'armonia. Per i fedeli rimasti nell'ortodossia, il castigo degli eretici – coloro che avevano offeso Dio – era una promessa di eternità, e dunque un motivo di gioia, non di lutto. La solidarietà spirituale e sociale non si stringeva attorno agli eretici, bensì contro di essi. In effetti, la posta in gioco, profondamente sentita sia dagli inquisitori che dalla stragrande maggioranza della popolazione, era la salvezza di tutti. Nel XIII secolo, l'azione inquisitoria non era avvertita come una violazione delle coscienze; al contrario, era l'eresia a essere sentita come un atto di violenza alla fede. L'Inquisizione suscitava tutt'al più l'ostilità di alcune minoranze, ragione che spiega perché poté funzionare, pur non disponendo in proprio di una forza materiale. Oltre all'appoggio delle folle, essa beneficiava del sostegno decisivo del potere capetingio. La sincera ortodossia dei sovrani si contrapponeva infatti vigorosamente a ogni forma di dissidenza; alla loro fede personale si aggiungeva la difesa della monarchia, dal momento che il "crollo dell'universale" avrebbe messo in discussione l'unicità del potere, ancora squalificato come emanazione di Satana; infine, l'unità politica si fondava senza dubbio sull'unità delle credenze in un'epoca in cui il legame spirituale era il più valido garante della coesione delle popolazioni. | << | < | > | >> |Pagina 208Tommaso d'AquinoÈ lo stesso Tommaso d'Aquino a sintetizzare, attraverso un adagio dell'ordine domenicano di cui era entrato a far parte nel 1244, il programma della sua vita: «Così come è meglio illuminare, piuttosto che soltanto brillare, allo stesso modo è più perfetto comunicare agli altri le verità contemplate che non il semplice contemplare». L'Aquinate consacrò infatti tutta la sua vita all'insegnamento, giungendo a illustrare, per mezzo della sua alta statura intellettuale, il meglio del pensiero scolastico. Nella sua vita di studioso, Tommaso percorse l'Europa: originario dell'Italia meridionale, iniziò gli studi all'università di Napoli, risiedette più volte a Parigi, dapprima come studente, poi come maestro (1245-1248; 1252-1259; 1268-1272), ed esercitò la professione di docente a Orvieto (1261-1265), a Roma (1265-1268) e a Napoli (1272-1273). L'intera sua opera reca un'impronta didattica: lo stesso Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo (1252-1254), pur costituendo il testo attraverso cui ottenne il magistero in teologia, reca già un'impronta teologica personale, precorritrice delle grandi Summe, vale a dire la Summa contra gentiles (cominciata nel 1259 e conclusa nel 1265) e la Summa theologiæ (1265-1273, rimasta incompiuta). Con la prima di queste due sintesi, Tommaso intendeva proporre un compendio di saggezza; lo studio della sapientia era infatti considerato l'impresa umana più perfetta, più sublime, più utile e piacevole. In essa egli voleva «esporre, secondo la nostra misura, la verità proposta dalla fede cattolica, in pari tempo confutando gli errori contrari». Quanto alla Summa theologæ, essa si presenta come un'opera divisa in tre parti, concepita per «istruire i principianti», e si basa su una concezione più rigorosa della dottrina sacra, vale a dire la teologia, in cui «tutto viene trattato sotto il punto di vista di Dio; o perché è Dio stesso, o perché fa capo a lui come a principio e fine». Inoltre, siccome la funzione di insegnante di teologia che Tommaso assunse nella primavera del 1256 comportava allora tre funzioni – commentare (legere), predicare e disputare –, ci sono pervenute diverse raccolte di Quæstiones disputatæ che testimoniano la diversità e la ricchezza dei dibattiti intellettuali del XIII secolo, in particolare quelle Sull'anima e Sulle creature spirituali, come quella Sul male. I numerosi commentari biblici lasciati da Tommaso — il Commentario di Giobbe (1261-1265), il Commentario delle Lettere di san Paolo, la Lectura su san Matteo (1269-1270) e la Lectura su san Giovanni — rimandano anch'essi alla sua attività di magister. Non è invece il caso dei suoi dodici commentari alle opere di Aristotele (compilati a partire dal 1265), i quali sono la testimonianza della convinzione di Tommaso che una solida filosofia costituisse l'indispensabile fondamento di una teologia di buon livello. A questo insieme già impressionante di opere converrà aggiungere alcuni originalissimi trattati, come il De ente et essentia (1254-1256), di carattere filosofico, e l'opuscolo incompiuto Sulle sostanze separate (1271) o, per restare nell'ambito della teologia, il Compendium theologiæ e, nel campo della politica, il trattato De regimine princibus (1267). Non va dimenticato, inoltre, che Tommaso ebbe parte attiva nei dibattiti che agitavano la vita intellettuale di Parigi, difendendo risolutamente il diritto degli ordini mendicanti all'insegnamento nella diatriba che li contrapponeva ai secolari: parecchi opuscoli e trattati testimoniano il suo intervento in quella disputa, tanto impegnato quanto acceso. Non meno polemico e feroce appare l'intervento di Tommaso nella discussione filosofica circa la dottrina della possibile unicità dell'intelletto, notoriamente suscitata, a partire dal 1265, da alcuni scritti di Sigieri di Brabante. Con un estro senza precedenti, nel trattato De unitate intellectus contra Averroistas (1270), il domenicano confutò l'idea di un intelletto unico per tutti gli uomini, volendo dimostrare che i suoi avversari, in particolare il filosofo arabo Averroè (morto nel 1198), detto il Commentatore, erano dei mediocri interpreti dei testi di Aristotele. Questa molteplicità di scritti fu il frutto di un'attività incessante e di un lavoro accanito che, stando alle testimonianze dei suoi intimi, si arrestò all'improvviso, nel dicembre del 1273. Tommaso cessò di scrivere, si sbarazzò dei suoi strumenti scrittorii e, stando a Reginaldo da Piperno, suo compagno e assistente, avrebbe affermato: «Non posso andar oltre. Tutto ciò che ho scritto sembra paglia a paragone di ciò che ho visto». Poco tempo dopo quella decisione, dagli storici variamente interpretata (che fosse conseguenza di un'esperienza mistica?), Tommaso d'Aquino morì nell'abbazia di Fossanova, mentre era in cammino verso il concilio di Lione, il 7 marzo 1274. Il pensiero del domenicano si fondava su una concezione tanto precisa quanto rigorosa della teologia, rispondente ai criteri della scientificità. Pur affermando la superiorità della teologia, Tommaso difendeva la legittimità e la relativa autonomia della filosofia, che si fondava esclusivamente sulla ragione. La sorprendente «fiducia nel potere della ragione» (E. Gilson) che caratterizzava tutta la sua speculazione si spiega con la convinzione che il reale, che il filosofo tentava di comprendere mediante l'ausilio della ragione, e la rivelazione, che la teologia interpretava, avevano per causa lo stesso Dio: era dunque impensabile che «la verità della fede sia contraria ai principi che la ragione conosce naturalmente»? Il primo principio indimostrabile sul quale riposava l'intero dispositivo della ragione umana era il principio di non contraddizione. A questo primo assioma della ragione speculativa corrispondeva, nell'ordine della ragione pratica, la proposizione: «Bisogna fare e cercare il bene ed evitare il male», assioma basato sulla nozione di bene di cui la ragione apprendeva il contenuto tramite le inclinazioni naturali dell'uomo. Ne risultava, in ultima analisi, un'etica per la quale era decisiva la conformità alla ragione: «Negli atti umani, bene e il male sono determinati dal rapporto con la ragione». Per Tommaso, l'uomo era determinato da tre rapporti: con la ragione, che era la misura delle sue azioni; con Dio, che era il suo creatore; con il suo simile. L'essere umano, infatti, non era soltanto un animale razionale, ma anche un «animale sociale e politico», com'era dimostrato dal possesso del linguaggio, che lo rendeva capace di manifestare il suo pensiero e di articolare ciò che è giusto e ciò che è bene. | << | < | > | >> |Pagina 255Parte terza
I tempi moderni (XVI-XVIII secolo): imparare il pluralismo
Per lungo tempo – fino alla fine del XX secolo –, la nascita dei tempi moderni è stata comunemente vista in termini di progresso e apertura, di vittoria sull'arcaismo e l'oscurantismo medievali. In questa prospettiva, la religione rivelata finiva per assumere un carattere negativo, che giustificava la sua messa in discussione da parte di forti movimenti: riforma delle istituzioni politiche, clericali e monastiche, del papato o del clero, ma anche riforma della lettura della Bibbia, della predicazione, della preghiera personale e, soprattutto, dei costumi. Tutte aspirazioni, queste, che presuntamente avrebbero dovuto condurre verso un avvenire migliore, verso un'era nuova, quella del progresso, della libertà e delle scelte consapevoli, ma che i contemporanei, convinti della degradazione del tutto, vedevano invece come un ritorno alle origini. Gli storici venuti dai Lumi ce ne hanno dunque trasmesso una lettura opinabile: e se invece le certezze, per quanto condivise, non fossero sempre ineccepibili? Alla fine del XV secolo il clero era davvero più depravato che nel XIII? Il papato dei Borgia (Alessandro VI) era davvero più scandaloso del papato di Avignone? A queste semplici domande, oggi, si danno risposte meno definite. Quando si riesce a recuperare una fonte in grado di fornire qualche indizio, non si constata nessun aumento degli abusi, ma solo che, visto che i contemporanei di Erasmo e di Lutero ne erano convinti, gli storici dei due secoli successivi si sono lasciati a loro volta convincere dalle loro tesi, finendo così per sviluppare un'intera retorica sulla decadenza della fine del Medioevo. Oggi, in realtà, gli approcci storiografici hanno largamente rivalutato il periodo intermedio tra l'età gotica e l'età classica, sottolineandone la grande inventività, il forte dinamismo religioso e la capacità di mettere in discussione le ipocrisie, le incertezze, e persino le angosce dell'epoca. Per se stesso e per la cospicua folla di seguaci e simpatizzanti intenti alla sua stessa ricerca, Lutero decise di riconoscere come unica autorità la Bibbia, e quale unica modalità di compiere la volontà di Dio la giustificazione mediante la fede. Egli edificò così, a beneficio di un gran numero di fedeli, un cristianesimo fondato sulla perfezione personale, un tempo riservato a una ristretta élite di "virtuosi" della religiosità: una religione fondata sul rifiuto delle mediazioni umane (quella dei preti), e sul rapporto diretto con la trascendenza. È in questi termini che va pensata la Riforma protestante del 1520, si tratti di quella luterana, e dunque già radicale, o ancora erasmiana, e dunque cattolica (tanto che Erasmo veniva letto e discusso da entrambe le parti). Ed è proprio in questo che consiste il carattere cruciale dello scontro tra Erasmo e Lutero nel 1524: l'uomo era libero di raggiungere Dio solo grazie ai propri sforzi o la sua coscienza era invece sottomessa alle Scritture e alla fede in vista della propria salvezza? Altri riformatori, da Tommaso Moro a Giovanni Calvino, da Ignazio di Loyola a Teresa d'Avila, da Francesco di Sales a Pierre de Bérulle e all'abate di Saint-Cyran, tentarono di dare una risposta personale alla ricerca del senso della vita. Tuttavia, in un secolo che voleva credere che Dio gestisse l'ordine del mondo e guidasse al bene o abbandonasse al male ciascuna delle sue creature, le conseguenze di quei fermenti furono innanzitutto la volontà di escludere l'altro, di disciplinare i popoli e di rafforzare lo Stato e i poteri ecclesiastici (sia cattolici e clericali sia protestanti e laici). In questo clima di scontro, il confine tra le diverse confessioni si era delineato con estrema rapidità. Tra la rivolta dell'uomo Lutero, che viene fatta risalire al 1517 ma che divenne effettiva solo nel 1520, e l'affermazione degli Stati che si dichiaravano protestanti (1529), a cui fece seguito il definitivo insediamento di Calvino a Ginevra (1541), passò soltanto un quarto di secolo. Nel giro di pochi anni, la distruzione della "Babilonia" romana divenne un "leitmotiv" – in alcuni casi concretamente attuato, come durante il sacco di Roma (1527) – e la fine del Vecchio Mondo vista come sempre più vicina. In quel quarto di secolo, il papato si rifiutò di prendere iniziative, nonostante interi settori della Chiesa romana reclamassero la riforma e altri esigessero l'annientamento definitivo dei ribelli, che a loro volta sostenevano l'inutilità del "papismo" e ne predicevano l'imminente scomparsa. Quando il cardinale Alessandro Farnese divenne papa con il nome di Paolo III, nel 1534, fu eletto con il proposito di convocare un concilio. Ci sarebbero voluti però più di dieci anni di battaglie diplomatiche per rendere effettiva la riunione del concilio di Trento, e parecchie diatribe e interruzioni prima di riuscire a elaborare, tra il 1545 e il 1563, un insieme di dottrine e una coscienza cattolica fondata sul consenso (controversie come quella dell'Immacolata concezione, per esempio, non pervennero mai, nel corso di quegli anni, alla compilazione di un testo). Il concilio promosse una religione di battaglia, con alla testa il papa di Roma, che nell'aperta lotta contro i protestanti si sarebbe avvalso di tutti gli strumenti culturali dell'epoca. Il papato, divenuto l'organo esecutivo del concilio, ricorse sicuramente alla coercizione tramite l'Inquisizione – peraltro più razionale, in fatto di metodi, di quanto non faccia credere la critica –, ma trasformò anche Roma nella vetrina del nuovo cattolicesimo, sia attraverso l'estetica architettonica e pittorica – prima manierista, poi barocca –, sia attraverso la musica. | << | < | > | >> |Pagina 2611. Le strade della RiformaErasmo e Lutero: libertà o servitù dell'essere umano Verso il 1500, se l'Umanesimo preconizzava un ritorno alle origini e ai testi fondatori del cristianesimo, la devotio moderna predicava una religione più interiore, individuale e cristocentrica. Fu in questa temperie che Erasmo e Lutero si scontrarono sull'idea di libertà. L'immensa erudizione, il talento letterario e la fedeltà al Vangelo valsero a Erasmo da Rotterdam (1469-1536), ex canonico regolare rimasto prete secolare, un prestigio senza pari, ma anche feroci opposizioni. Commentatore dei Padri della Chiesa, nel 1516 portò a termine la prima edizione greca e una nuova traduzione latina del Nuovo Testamento con tanto di note critiche, un'esortazione a una lettura fruttuosa delle Scritture e un discorso sul metodo teologico. Nel 1503, nell' Enchiridion militis christiani (Manuale del milite cristiano), propose un programma di vita evangelica, in cui «la pietà non si identifica con la vita monastica».
Con l'
Elogio della follia,
Erasmo appuntò il suo estro contro
l'ambizione e la cupidigia, che inducevano agli abusi di potere e
ai traffici, contro l'accecamento e l'arroganza dei teologi, che pretendevano di
dettare legge su tutto, contro l'ignoranza e le superstizioni dei monaci, che
snaturavano e uccidevano la
pietas.
Per Erasmo, la pietà monetizzabile e le osservanze minacciavano il
cristianesimo di due pericoli mortali: il paganesimo e il farisaismo. Contro una
Scolastica traboccante di ampollosità e di diatribe – che sostituiva Aristotele
alla Bibbia e l'arroganza dello speculatore all'umiltà del credente –, Erasmo si
richiamava a una teologia scritturale, fondata su una conoscenza precisa del
testo e finalizzata unicamente all'ascolto del Cristo per riuscire a
trasformarsi in lui. Lo studio delle lettere preparava meglio della dialettica
alla comprensione delle Scritture e alla conversione dei cuori,
in quanto «la vera teologia è vita più che discussione». Lungi dalle «curiosità
empie», una ricerca attenta alla lettera e aperta allo
Spirito avrebbe nutrito «una dottrina pia e una pietà illuminata».
Poteva essere Erasmo l'alleato di Lutero nella Riforma?
Monaco agostiniano a Erfurt, poi professore di teologia a Wittenberg, verso il 1516 Martin Lutero (1483-1546) ebbe una grave crisi spirituale. Nonostante il rispetto della regola, si sentiva pur sempre un peccatore degno della collera di Dio. Conobbe l'angoscia e la disperazione. La lettura di sant'Agostino e di san Paolo alla fine lo liberarono, ispirandogli quella che sarebbe diventata la sua teologia. Secondo Lutero, il peccato originale aveva completamente corrotto la natura umana. Minato dall'orgoglio e dall'amor di sé, l'uomo peccava necessariamente, nonostante le sue buone azioni esteriori, e non poteva dunque meritare la salvezza. A soccorrerlo era però Dio, che aveva fatto conoscere la sua legge per convincere l'uomo della propria impotenza e mostrargli che lui solo aveva il potere di salvarlo, gratuitamente, tramite il Cristo. Solo la fede in questo perdono gratuito costituiva una giustificazione, al di là delle opere e dei meriti. In questo modo il credente riusciva a trovare la pace e la libertà, una libertà che non coincideva con la libera scelta tra bene e male (il libero arbitrio). Nella Libertà del cristiano (1520), Lutero affermava: «Il cristiano è l'uomo più libero, padrone di tutte le cose, non è soggetto a nessuno. Il cristiano è in tutte le cose il più servizievole dei servitori, è soggetto a tutti». Questa libertà interiore non autorizzava né la licenziosità morale né la sedizione. Essa liberava dalla tirannia delle osservanze, dalla falsa certezza delle opere, dall'illusione del merito, dall'orgoglio e dalla disperazione. Essa liberava dalla legge, ma non era contro la legge; induceva a rispettarla in un altro modo, non più per interesse, ma per riconoscenza, persino nelle prove più ardue. Giusto e insieme peccatore, l'uomo nuovo giustificato dalla fede lottava contro l'uomo antico, non per essere salvato, ma perché era salvato. Questa via della salvezza era nota grazie alla Parola di Dio, contenuta nelle sole Scritture. Tradizioni e magistero avevano forza e legittimità solo se annunciavano fedelmente quella Parola. Il senso della Scrittura era chiaro, conteneva in sé la propria interpretazione: soltanto il Cristo ne era la chiave. Il «Dio nascosto», inaccessibile all'uomo, si era rivelato attraverso Gesù sulla croce. La «teologia della Croce» si contrapponeva così alla «teologia della gloria», che si affidava alle opere e alla ragione.
Su questo fondamento, Lutero combattè le pratiche della
Chiesa del suo tempo, frutto, a suo parere, della teologia della
gloria. La sua contestazione delle indulgenze lanciate da Leone X
per finanziare la costruzione della basilica di San Pietro provocò
l'immediata reazione di Roma. Scomunicato come eretico, Lutero
venne messo al bando dall'Impero nel 1521. La rottura era consumata. Lutero
proclamò il sacerdozio di tutti i fedeli, mantenne
due soli sacramenti, il battesimo e l'eucaristia, rifiutò il Purgatorio, la
messa come sacrificio, i voti monastici, l'intercessione dei
santi, il diritto canonico, la gerarchia romana ed equiparò il papa
all'Anticristo. Nonostante i molti malintesi, il suo seguito in Germania non
fece che crescere.
|