|
|
| << | < | > | >> |IndiceMappa d'un libro 7 1. Dove comincia e finisce il mondo 7 2. Perché punire? 7 3. Bilancia e spada 8 4. Idioma normativo 9 |
| << | < | > | >> |Pagina 71. Dove comincia e finisce il mondo
Agostino arriva nell'Urbe dall'Africa, retore professionista. Sopravvivono
resti d'una malinconica cultura pagana d'élite. Girolamo, bibliofilo
atrabiliare, governa un pio gineceo sull'Aventino.
A Milano regna Ambrogio, freddo politico, incantatore, esorcista,
disinvolto taumaturgo. Cinque anni dopo, l'ex uditore manicheo,
maestro punico d'oratoria, ora cristiano viscerale, riattraversa il
mare. Monaco laico, apologeta, presbìtero (eletto dai fedeli d'Ippona: era finto
l'happening), vescovo, ecclesiarca. L'esordio era obbligato, contro la setta
dalla quale viene, e siccome i manichei
presuppongono un mondo eterno, teatro del conflitto Dio-male,
l'ipponense parte ab ovo raccontando come l'universo erompa dal
nulla: cos'avvenisse ante tempora, nelle profondità d'un Dio già
persona; lo specchio eterno dei possibili, il tutto fuori del pensa-
bile. Qui interessa la fantasmagoria cielo-terra: angeli ribelli, un
delitto alimentare nel paradiso terrestre, natura corrotta, pulsioni
viziose, morte, colpa ereditaria; Yahweh figura male contro Giobbe; alle prese
con gli animali umani sviluppa una crisi morale.
Donde metamorfosi celesti, l'incarnazione, un tentato risanamento cosmico.
L'«Apocalisse» inscena esiti spaventosamente ìmpari
allo spreco d'energia e dolore.
2. Perché punire?
Dal teatro celeste passiamo alla dialettica bene/male. I manichei sono
deterministi: Agostino li combatte, avvocato del libero
arbitrio, poi salta agli antipodi, e vittorioso sull'umanesimo pelagiano
criptoateo, elabora un sistema appena tollerabile da chi abbia midolla forti; i
devoti fuggono nel raptus mistico. Non sono
discorsi spendibili dal pulpito. Ogni tanto se ne riparla: 11 secoli
dopo, la Riforma riscopre quel Dio orribile; barano tutti, tomisti,
gesuiti, agostiniani, giansenisti; i domenicani, ad esempio, chiamano libera la
volontà che l'Onnipotente muove ab intra, «soavemente». Polemiche furiose:
davanti alla Congregatio de auxiliis
Tommaso da Lemos O.P. abbatte, esanimi, due campioni Societatis Iesu, i Padri
Gregorio da Valenza, 30 settembre 1602, e Pietro
Arrubal, 24 giugno 1603; siccome emergono fondali insopportabili, i vertici
decretano un silenzio che nessuno rispetta. Anche
Maldoror cade tramortito (tardo Secondo Impero: Albert Lacroix
stampa i sei «Chants», ottobre 1869, a spese d'autore, ma non li
distribuisce; Isidore-Lucien Ducasse d'anni 24, letterato, muore
giovedì mattina 24 novembre 1870, ore 8, rue du Faubourg-Montmartre 7, nella
Parigi assediata dai tedeschi). I pedagoghi soffiano eufemismi. L'argomento ha
poco da spartire col rumore talora vanìloquo dei circhi contemporanei. Dunque,
parliamone.
3. Bilancia e spada
Sei casi bastano all'analisi clinica. Egmont e Hoorne subiscono una festa
patibolare (Bruxelles, 4 giugno 1568). Muore sub rosa il fratello minore del
secondo, Montigny, decorosamente
strangolato sotto apparenze naturali, come voleva Filippo II,
scrupoloso re cattolico (Valladolid, 16 ottobre 1579). Era intrattabile don
Carlos, Infante nato male e cresciuto peggio, ma, Deo
et rege adiuvantibus, risolve tutto una pia morte (24 luglio 1568).
Dura 18 anni l'avventura inquisitoria del frate nero Bartolomeo
Carranza y Miranda, arcivescovo toledano, molosso dell'ortodossia, campione
tomista tridentino, testa confusa, grafomane, dai
cui «Commentarios sobre el Catechismo Christiano» il confratello Melchior Cano
cava 101 formule ereticali o male sonantes; e
ringrazi Iddio se muore tranquillo nell'Urbe, 2 maggio 1576: Sua
Maestà Filippo teneva pronto un rogo. Su ordine romano, Avvento 1599, passa nel
fuoco all'altro mondo l'ormai vecchio, innocuo, benvoluto Domenico Scandella,
detto Menochio, mugnaio friulano, musico, maestro d'abaco e alfabeto,
esploratore recidivo dei paradossi teologali. Infine, Fénelon e Bossuet
disputano sotto re Sole: aquila contro cigno; li divide Madame
Guyon, falsa profetessa.
4. Idioma normativo Il terremoto che devasta Lisbona, Ognissanti 1755, svela aspetti dubbi nel governo divino del mondo. Voltaire sogghigna in versi. Mezzo secolo dopo, l'anomalo teologo è Donatien-Alphonse-Frannois Sade: Saint-Fond, potente boiardo dedito a svaghi criminali, spiega quanto vada preso sul serio il Cosmocrator; Clairwil e Juliette, atee, dissentono. Dal cóté ortodosso declama Joseph de Maistre. È vecchia disputa se gli enunciati morali colgano qualità obiettive o vigano solo nei rispettivi contesti: qualcuno abbastanza forte da incutere paura, comanda o vieta la tal cosa; mutando le prescrizioni, variano i qualificatori. San Tommaso elude la questione con ipnotiche musiche verbali. Arnauld e Nicole contro Pascal. I nominalisti smascherano gl'idoli. Lutero è paziente d'uno psicodramma, autoterapeuta, eversore religioso, quietista politico perché sulla terra imperversa il diavolo, ministro della collera divina: «omnis potestas a Deo»; i ribelli vanno all'inferno, anche se hanno ragione. Su tali premesse Benedikt Carpzov, luminare penalista sassone (1595-1666), professa ancora dottrine ormai obsolete intorno a diavolo e stregoneria. Tre secoli dopo, l'altrettanto pio luterano ex borgomastro lipsiense Carl Friedrich Goerdeler, garrulo cospiratore antinazista, rifiuta l'unica ipotesi seria, uccidere Hitler. Anche Pascal soffre d'atonia quietistica ma non ve lo conducono i percorsi intellettuali: l'acume analitico aiuta l'anima, mentre l'enfasi sui valori, noncurante della sintassi, alleva spore equivoche; è arma sospetta l'eloquenza, passibile d'usi gaglioffi. | << | < | > | >> |Pagina 499. Ambrogio esorcistaAgostino comincia una lunga carriera pastoral-controversistica. Intanato a Betlemme, negl'intervalli del lavoro sulla Vulgata Girolamo arrota i denti «quaerens quem devoret». Ambrogio regna su Milano allungando le mani (le usa spesso, quasi-taumaturgo) dovunque sia in ballo l'onnipresente interesse ecclesiastico. A Simpliciano che gli consiglia qualche sermone d'argomento paolino, ne manda uno sul tema «libertatem nostram in sapientia positam esse», da declamare «eodem absente». Moralista, ecclesiarca, liturgo, oratore, scaltro politico, sbaraglia i diavoli: l'abbiamo visto contro gli ariani; i suoi testi entrano nel Rituale romano, ancora recitati dai diabolòmachi. L'esorcista invoca l'«omnipotens Dominus, Verbum Dei Patris, Christus Iesu», signore «universae creaturae». Tre proposizioni relative narrano gesta antidiaboliche: «qui sanctis apostolis tuis potestatem dedisti calcandi supra serpentes et scorpiones», animali infernali; «qui [...] dignatus es dicere "daemonia effugate"» (Matteo, 10.8), sicché l'esercizio del relativo potere costituisce atto dovuto; «cuius virtute victus, tamquam fulgur de coelo Satanas cecidit». La meteora segnala metamorfosi celesti. Sono formule da recitare «cum timore et tremore»: «supplex precor [...] ut hunc crudelem draconem, brachii tui munitus potentia, fideliter et securus aggrediar»; tali imprese richiedono poteri soprannaturali. Qui comincia la seconda sequela al vocativo: destinatario Satana, «immundissime spiritus»; e l'agonista nomina chi lo manda, Gesù Cristo vittorioso nelle prove post-battesimo. Se ne vada: non tormenti più una creatura che «Ille de limo terrae ad honorem gloriae suae formavit»; guardi nel sofferente l'«omnipotentis Dei imaginem». Era un'intimazione scandita sei volte, «cede Deo». Tre frasi aperte dal pronome "qui" (Iddio) evocano dei precedenti: «te in servitutem redegit» umiliando «famulum suum Iob» (terribile gaffe divina); «te et militiam tuam demersit», annegando il Faraone inseguitore degli ebrei (l'«abyssus» ospita bestie infernali, incluso Leviathan, che Yahweh vantava nella malaugurata esibizione oratoria contro Giobbe); «te in Iuda traditore damnavit». Daniele puer l'abbatte sotto forma d'un drago. Davide l'aveva espulso da Saul mediante canti spirituali. Rammenti cos'ha subito a Gerasa: «ille enim te nunc divinis verberibus agitat, in cuius conspectu cum tuis legionibus tremens clamabas», quando i demoni tentavano schermaglie tattiche; «venisti ante tempus torquere nos». Comincia sotto identica forma sintattica la frase seguente: «ille te flammis perpetuis urget, qui...», stavolta però sfilano eventi futuri; «ite maledicti in ignem aeternum», dirà Dominus, nel fuoco «quem praeparavit Pater meus diabolo et angelis eius». Li aspetta un «vermis qui numquam moritur», forse metafora del dolore psichico. «Tibi et angelis tuis inexstinguibilis praeparatur incendium». Erano dei preliminari. Ora esplode l'invettiva, «quia tu es, maledicte ...», con sei predicati a coppie onomastiche, genitivo e nominativo; il pronome iterato rinforza l'effetto percussivo: «tu es [...] homicidii princeps, tu auctor incesti, tu sacrilegorum caput, tu artium pessimarum magister, tu haereticorum doctor, tu totius obscenitatis inventor». Non è chiaro se i nomi rispettino un ordine nella sinossi del peccato: ovvi "homicidium" e "sacrilegium"; "incestum" richiama antiche endogamìe; le «artes pessimae» verosimilmente includono quel che promuove lo sviluppo prometeico, autonomo, quindi ateo (i cainidi-giganti); "haereticorum doctor" implica già l'apparato inquisitorio. Al culmine preme sul diavolo, sforzo terribile, dicono gli esperti (frequentano anche i salotti televisivi): «exi», comanda tre volte, «impie», «scelerate», «cum omni fallacia tua»; non è il suo posto lì, «quia hominem templum suum voluit esse Deus». Al primo tentativo non succede niente: perché non esce?; stupore sgomento da mago apprendista. Allora sferra tre diffide, quante le persone della Trinità: renda «honorem Deo Onnipotenti, cui omne flectitur genu»; «da locum Christo Iesu, qui pro homine sanguinem fudit», estinguendo con tale effusione i diritti che Satana vantava sul genere umano; nonché «Spiritui sancto». Cinque proposizioni relative rievocano imprese carismatiche antidiaboliche: Pietro maledice Simone Mago; non avendo conferito alla comunità l'intero prezzo della vendita d'un loro campo, Anania e Saffira cadono secchi davanti allo stesso apostolo; muore mangiato dai vermi Erode Agrippa; Paolo acceca lo stregone cipriota, poi disinfesta la pitonessa filippese. Seguono sette battute brevi: due imperativi («discede ergo nunc, discede seductor»), due formule descrittive («tibi eremus sedes est, tibi habitatio serpens est»), due infiniti («humiliare», «prosternere»), una negazione compulsiva («non est iam differendi tempus»). La diabolomachìa scade a manierismo retorico: «ecce enim dominator Dominus proximat»; presto «ignis ante ipsum ardebit» consumando «inimicos suos». Niente d'appena comparabile all'aramaico maràn athá, dove i fedeli gridano un desiderio («Dominus noster veni!») e lo vedono soddisfatto nel lampo allucinatorio («Dominus noster venit»). Persistendo lo stallo, tenta mosse persuasive: «si enim hominem fallis, Dominum non potes irridere»; ogni tanto l'impeto cade. Infine, tre verbi descrivono la stessa azione: «ille te eiicit [...] expellit [...] excludit»; e pronomi relativi richiamano il soggetto proteiforme delle relative frasi; una persona («ille cuius oculis nihil occultum est»), ancora una («cuius virtute universa subiecta sunt») e tre («qui tibi et angelis tuis aeternam praeparavit gehennam»; «de cuius ore exit gladius acutis»; «qui venturus est in Spiritu sancto iudicare saeculum per ignem»). L'ecclesiarca milanese s'è forbito l'arnese d'un dominio capillare. Siccome non esistono luoghi immuni dal diavolo, l'esorcista mette mano dappertutto. In pieno splendore barocco, cappuccini, gesuiti, domenicani, dettano expertises diabologiche. Fiorisce un teatro. Cronache seicentesche dicono quanta parte vi abbiano le monache: ginnastica acrobatica, catalessi, convulsioni, anestesia, voce abnorme, glossolalìa, performances neuropsichiatriche o ciarlatanesche; ma le messinscene violente non escludono interventi sottili sulla mente. Sanno d'esorcismo anche varie tecniche inquisitoriali: essendo Satana «haereticorum doctor», la difesa della fede implica microscopiche analisi delle idee; appartiene alla quinta colonna diabolica chiunque arrischi ipotesi scientifiche eterodosse sul fenomeno stregonesco ovvero, quale storico, giurista, politologo, scavi nel substrato ecclesiastico. Sulla via dalla Novalesa a Torino un frate vede Pietro Giannone custodito da 15 sbirri, settembre 1736: viso e occhi tradiscono «cattivo animo»; chi se ne intende riconosce subito l'eresiarca; non s'è mai fatto il segno della croce, racconta l'ufficiale addetto alla scorta. | << | < | > | >> |Pagina 188Stratega sapiente, la Bestia comincia dagli effetti verbali: «loqu[uitur] magna», «cose enormi» (stavolta quel traduttore ha la mano abbastanza felice), nonché «blasphemias»; blasfemo l'autoinsediamento al vertice, dove mistifica i valori; ed è invulnerabile nei 42 mesi simbolici, tempo dell'attesa, non sappiamo quanto lunga, come se non fosse avvenuta la ierofanìa cruenta del Figlio. Nell'intervallo i santi perdono, né esistono angoli immuni: «data est illi potestas» su tribù, popoli, lingue; era successo, su scala individuale, quando Yahweh consegnava Giobbe a Satana. Siccome ha il potere effettivo, l'adorano tutti: o meglio, quelli i cui nomi non figurano nel libro dell'Agnello, «occisus ab origine mundi» (quel confusionario d'un Iohannes sovrappone idea ed evento: prevista dall'eternità, la mattazione accade nel tempo lineare); siamo macchine psicofisiche; l'Ingegnere cosmico aveva calcolato gli atti fino al minimo tic. Bisogna sottomettersi aspettando che spiri il termine: se qualcuno è atteso dalla prigione, ci vada; i condannati alla spada la subiscano. «Hic est patientia et fides sanctorum». Appare un secondo animale, uscito dal suolo, con due corna «similia Agni», parlante «sicut draco»: esegue «signa magna», ad esempio fuoco dal cielo; così «seduxit habitantes», meno i segnati nel libro della vita, beninteso; indotti da lui, allestiscono un idolo parlante e rischia la testa chiunque non l'adori. Nei tribunali imperiali il rifiuto del culto è crimen lesae maiestatis, ma l'archetipo vale indefinitamente: anche noi viviamo sotto l'Anticristo; la vecchia coazione persiste camuffata. Nessun sistema tollera i devianti. Notevole l'idea sottintesa, che il potere sia cosa diabolica, l'unica veramente tale, tanto più diabolica quanto meno riconoscibile nella cosmesi elaborata dall'impresario semiologo. Gli affascinati dalla «pauperies christiana» denunciano una «synagoga Satanae» papale. Le fabbriche del consenso allevano tecnocrati. Eccellono Hans Tetzel, erculeo inquisitore domenicano (Lipsia, 1460), e lo gnomo sciancato dottor Paul Joseph Goebbels, venuto al mondo 437 anni dopo da famiglia cattolica renana (i paleonazisti, bestioni, ne parlavano male: mezzo francese, allievo dei gesuiti; non è vero ma ha le physique du rôle): uno vende l'indulgenza plenaria stipulata da Alberto del Brandeburgo con Leone X; l'altro fonda il culto hitleriano sull'«Angriff». Due maghi persuasori. Padre Tetzel spreme soldi raccontando che, al tintinnìo della moneta, l'anima voli dal purgatorio, e Lutero glielo contesta, 27a tesi. Nel meeting d'Hannover il dottore chiedeva che quel piccolo borghese d'Hitler fosse espulso, poi gli viene un coup de foudre: è Gesù Cristo o Giovanni Battista?, annota, 14 ottobre 1925; sub 19 aprile 1926, scioglie il dubbio nel primo senso. «L'amo», confessa; e non dimentica sé stesso: «esaltando lui, cresco anch'io». I miracoli hitleriani, dallo sviluppo economico alle annessioni, eclissano l'«ignis de caelo» e simili.Dicono cose profonde le visioni sui 42 mesi. Ad esempio, che i sistemi mondani dipendano dall'Anticristo, specie gli apparati clericali: bonzi, bramini, aruspici, àuguri, caldei, teurghi, frati, ayatollah, guru, commissari, apparatniciki; profetano, lavorano sui cervelli, reinventano il passato. Macchine selettive stupide escludono i diversi, ammettono gl'idonei, graduano l'ascesa, segnano tutti: «pusilli», «magni», «divites», «pauperes», «liberi», «servi», «habe[nt] characterem» nella mano destra o sulla fronte; portano lo stesso distintivo i claqueurs del Tribunale; nessuno può «emere aut vendere, nisi qui habet characterem aut nomen bestiae aut numerum nominis eius» (esiste un «numerus Bestiae»: 666; e quanto vi elucubrano gli enigmisti). In bocca agl'imbonitori questo 13° capo vale il resto, mostri finti e occultismo guignolesco, ma letto come un'analisi in figuris del potere, riesce straordinario. L'omiletica canonica, infatti, schiva l'«Apocalisse», mentre la bevono i settari: taboriti, radicai-battisti, chiliasti, levellers, diggers, predicatori da cappella e itineranti, giù fino alla Salvation Army; tracannata senza discernimento, alimenta stilemi bolsi, teatrino, gusti truculenti, sicumera da teste piccole. I 144 mila nomi iniettano delirio razzistico agli autoinclusi. In casa cattolica circola poco: ispirano idee pericolose la Bestia e l'animale a due corna, simile all'Agnello, «loquens sicut draco»; l'Anticristo tiene magnifico banco dovunque fioriscano gerarchie, fasto liturgico, astuzia diplomatica, tecniche persuasive, mercato, Realpolitik, cinismo manovriero, castighi esemplari. Bonifacio VIII, simoniaco, abita l'ottavo cerchio, terza bolgia, xix canto. Il xviii rievoca l'ordinato traffico pedonale a due sensi sul ponte Sant'Angelo. Nell'epilogo del diario (1737), Pietro Giannone, recluso dal re sabaudo su mandato papale, almanacca un rendiconto post mortem, come Giobbe: anziché rispondere agli argomenti, la Corte romana perséguita gli autori; e adoperandoli nel suo interesse, rovina i monarchi; tutto déjà vu a Pathmos. L'avvocato napoletano subisce quieto la malasorte: esperto delle fonti, sa come girino le ruote; un re lo tiene in gabbia; trafficati o sepolti i manoscritti; vespilloni, baciapile, sicari, lo perseguiteranno anche morto. Dura appena un lampo l'inconscio acume diagnostico. Mentre l'Agnello sta ritto sul monte Sion in compagnia dei 144 mila predestinati, «habentes nomen eius» tatuato sulla fronte, Iohannes ascolta un «canticum novum» distinguendovi rombo d'acque, tuoni, arpe. Solo i segnati lo imparano. Il verso seguente li identifica: sono i vergini, mai inquinati «cum mulieribus»; e vediamo quanto sia maniaco l'autore; nemmeno i rigoristi Marcione o Montano limitano la fauna celeste a bambini, eunuchi virtuosi, misogini continenti. Anche stavolta dormivano gli editors. Planano tre angeli. «Timete Dominum», grida uno, «habens evangelium aeternum», «quia venit hora»: pura scena; fuori dei 144 mila marchiati, siamo carne da fuoco; l'ipotesi d'un minimo residuo indeterminato nega i piani eterni. È caduta «Babylon illa magna», l'impudica che ubriacava i popoli, proclama il secondo, o meglio, cadrà (capitoli 17° e 18°). | << | < | > | >> |Pagina 2285. Psicanalisi agostinianaHa le mani vuote quando ripiglia l'analisi («Expositio quarumdam propositionum ex Epistola ad Romanos») con due enunciati contraddittori: l'uomo compie scelte autonome; energie insufflate da Dio ispirano l'atto buono. Terzo capitolo, versetto 20: nessuno «iustificabitur in Lege coram illo», ossia siamo naturalmente peccatori; tale massima, però, «et caetera similia» non tolgono niente alla Lex, né significano che «homini arbitrium sit ablatum». Pregiudiziali antimanichee richiedono organi volitivi sovrani. «Quatuor [...] gradus hominis distinguamus»: «ante Legem, sub Lege, sub gratia, in pace»; prima che Mosè riceva le tavole, «sequimur concupiscentiam»; poi «trahimur ab ea»; «sub gratia nec sequimur eam nec trahimur»; infine, «nulla est concupiscentia». Altrove aveva contato sette «gradus animae». Primo stadio: «non solum concupiscimus et peccamus, sed etiam approbamus peccata»; l'Es ignora i conflitti; l'unica sofferenza è penuria, pulsioni non soddisfatte perché manca l'oggetto desiderato. Secondo: un'autorità psichica insediata da fuori detta norme: desideriamo cose incompatibili; «sub Lege, pugnamus sed vincimur» (la prima persona plurale indica l'anima), su cui prevale l'istinto. Il Super-Io, aguzzino vendicativo, guasta il piacere iniettando rimorsi: so che la tal cosa è male; eppure v'insisto «quia nondum est gratia». Così racconta i tormenti inflitti dal martello interno: «in isto gradu ostendimus nobis quomodo iaceamus»; «dum surgere volumus et cadimus, gravius affligimur» (talvolta lo «iacens cum se» sperimenta qualche effetto omeopatico). Famosi i referti luterani. Terzo tempo: abbiamo compiuto l'atto virtuoso; la tensione s'è sciolta. Gli eroi dell'«Iliade» proiettano l'evento interno ravvisando agenti funesti o benevoli. Così intende l'effimera metamorfosi neuropsichica: «venit gratia», che «conantem adiuvet et [...] auferat metum»; finché siamo vivi, i «desideria carnis», ovvero pulsioni alimentate dal fondo endocrino, «adversus spiritum [...] pugnant» (Lutero le chiama «Anfechtungen»); solo i «fixi in gratia» non peccano. L'atto peccaminoso comincia dal consenso al «pravum desiderium». Sotto l'illusione indeterministica regna una causalità dalle maglie strette: irresistibile «sub Lege», la «concupiscentia carnis» soccombe alla «gratia»; pulsioni pneumatiche soverchiano le endocrine ("pneúma", spirito, è parola-chiave del lessico paolino, come "sàrx", "amartía", "thánatos" al polo negativo). Perciò nessuno pecca «sub gratia»: siamo macchine regolate dal desiderio prevalente e nell'algebra libidica la «delectatio victrix» appartiene alla sfera spirituale; che poi le rispettive cariche abbiano natura diversa (una disintegra l'essere, mentre l'opposta lo «raccoglie in Dio», predica un teologo Societatis Iesu castigando l'agostiniano Giansenio), sarà forse vero ma non interessa, né «delectatio vitrix» va intesa quale innocua metafora. Siamo al nucleo della psicanalisi agostiniana. Questione chiusa se non ci fossero i manichei da combattere, fautori radicali del determinismo paolino. Quarto e ultimo stadio: le pulsioni peccaminose salgono dal fondo organico radicato nel peccato originale, «unde carnaliter nascimur»; l'econonia libidica presuppone un ciclo metabolico, quindi entropìa e morte; nei corpi felicemente risorti «perfecta pax erit»; «nihil nobis resistet non resistentibus Deo». Viene il dubbio che la «perfecta pax» sia regressione allo stato inorganico. | << | < | > | >> |Pagina 40911. Sintassi del falsoNon sappiamo in che giorno venga fuori l'«Augustinus»: i torchi vi lavorano almeno un anno; la data del privilegio imperiale è 13 febbraio 1640. Fallito il tentativo d'affossare l'embrione, i gesuiti aprono l'offensiva venerdì 22 marzo declamando sei tesi nel collegio lovaniense. Dapprima definiscono l'eresia pelagiana, indi espongono la dottrina della Compagnia. I 18 punti appartengono al genere dialettico amabilmente coltivato dal reverendo Lewis Carroll nei tè del Cappellaio matto. (1) Non è mai esistita una natura allo stato puro, ante o post culpam, ma potrebbe esistere. (2) Il peccato d'Adamo passa ai discendenti perché l'ha stabilito Dio, mentre l'«Augustinus» lo considera fenomeno genetico. (3) Non patiscono pene sensibili i bambini morti senza battesimo, quindi privi della visione beatifica (ha tante anime la Societas Iesu: papista, frondeuse, codina, libertaria, bigotta, umanista, libertina; qui ne esibisce una evoluta, contro gli efferati agostiniani). (4) Dio «omnes salvos vult fieri», infatti accorda larghe grazie. (5-6) Gesù Cristo redime tutti. (7-9) Puro dono, la grazia salva i cooperanti. (10) E atto libero quello il cui autore possa o no agire. (11) Non esistono comandamenti impossibili. (12) Dio sarebbe tiranno se punisse l'uomo avendogli negato i soccorsi necessari. (13) L'ignoranza scusabile talora giustifica condotte peccaminose. (14) Possiamo compiere atti buoni senza aiuto soprannaturale: né costituisce requisito assoluto lo stato para-amoroso detto «carità»; bastano speranza o timore. (15) Gl'infedeli sono capaci d'atti virtuosi, irrilevanti però ai fini dell'eterna beatitudine. (16-18) I canoni tridentini ammettono la paura dell'inferno come motivo idoneo: a fortiori, l'amor Dei egoistico; il penitente «attrito», dunque, esce assolto. Le tesi terza e quarta sviluppano i 18 assiomi, confutando Giansenio sul modo d'intendere i decreti conciliari e le bolle nel caso Baio. La quinta lo presenta in combutta con i gomaristi contro gli arminiani. L'ultima nega la pretesa infallibilità d'Agostino. Ormai è guerra. Contra Societatem Iesu l'editore Jacobus Zegers firma i «Querimonia». Dalla sponda gesuitica disserta Padre Vivier. Difendono l'estinto gli esecutori testamentari Henri Calenus e Libert Fromont: il quale ultimo, rettore dell'Università, ricapitola le dottrine del maestro nella «Brevis anatomia hominis», dedicata al cardinale Francesco Barberini; appare un pre-«Augustinus» della buonanima Florent Conrius, francescano osservante, titolare d'una cattedra arcivescovile («Peregrinus Hierichuntus. hoc est de natura humana feliciter costituta, infeliciter lapsa, miserabiliter vulnerata, misericorditer restaurata»), tradotto in francese. Fin dall'1 agosto 1642 l'equanime Sant'Uffizio ha proibito l'«Augustinus» nonché le sei tesi gesuitiche. Lovanio deferisce l'affare al Consiglio brabantesco e all'arcivescovo, incappando nella rampogna papale (11 gennaio). Come Baio, Giansenio ha un nipote controversista, Jean, che invoca aiuto da Filippo IV, Re Cattolico, mentre l'Ateneo s'arrende. I consultori romani esaminavano l'«Augustinus». Sua Santità biasima i due partiti, contravventori al divieto della disputa, e nel libro coglie massime condannate dai predecessori: ne proibisce la lettura o anche solo il possesso; non se ne parli o scriva; lo stesso tabù colpisce libelli, monografie, discorsi, lettere, tesi ivi indicati, sotto pene gravissime; id est, scomunica, revocabile solo dal papa, salvi gli articula mortis (bolla 6 marzo 1642, «In Eminenti», promulgata 10 mesi dopo, 19 febbraio 1643). È una falsa bolla, gridano i dissidenti. | << | < | > | >> |Pagina 5836. Partito nominalistaRetorica giusnaturalista e nominalismo radicale sottintendono scelte politiche. Umanesimo whig contro torbide mistiche? Formule approssimative, molto fallibili, smentite nel caso Pascal: nominalismo non significa tremebonda sottomissione al sovrano; che uno s'inginocchi o no, dipende da midollo, nervi, testa. Lo dicono due casi esemplari. Affoga nel culto nazista Carl Schmitt, pensatore debole, funambolo, gius-artista colto, verboso, dilettante d'estri latino-barocchi su fondale kitsch gotico: s'è candidato giurista del Führer ma gli manca la volgarità, difetto imperdonabile nel clima da birreria, perciò vola basso, eclissato da Hans Frank, sebbene non lesini l'ossequio (persino a Roland Freisler, psicopatico presidente del Volksgerichtshof); e trova un revival fine secolo. Non gli somiglia Hans Kelsen, tedesco praghese: ha testa fredda, stile secco, visione euclidea; fonda una sintassi giuridica; liquida i riferimenti metapositivi; vomita Hitler, nonché Stalin; emigra; insegna diritto in un istituto navale degli Usa. Niente esclude che qualche giusnaturalista professi politiche rispettabili, mentre dei nominalisti biascicano litanie, sedotti o atterriti dagli arconti. Secondo de Maistre, ad esempio, qualcosa stride nel governo divino ma siccome abbiamo un padrone onnipotente, conviene ubbidirgli. Meglio ancora innamorarsene: «vis fugere a Deo?»; «fuge ad Deum», ossia «identìficati con l'aggressore». Segue tale massima il Conte («Soirées de Saint-Pétersbourg»), furioso contro «les savants»: Bacone, una nullità; cosa saremmo senza censura teologale?; viene da lì lo splendore scientifico europeo; che «statisti naturali» i preti. Spesso è paranoia la sindrome dell'uomo d'ordine. Caso archetipico Charles Maurras. Ridefiniamo l'alternativa: "giusto" significa «conforme alle norme costituite da certe persone, secondo date regole»; o implica valori indipendenti dalla storia. Qual è l'ipotesi laica? Fossero incarnate da due individui, sarebbero animali dal metabolismo diverso: uno scava nei fatti, descritti come li vede; l'altro gode estasi più o meno autentiche, canta metafore, spende parole sontuose. Il lavorio analitico ha effetti ritardanti o addirittura inibitori dell'azione, né riesce popolare l'aspra economia verbale, mentre l'ideologo facile parla come le fontane buttano acqua. L'impolitico pensante affatica il pubblico. Pascal spiega quanto siano fatui i carismi sociali, poi li rivaluta, «renversement continuel du pour au contre». Nella spirale dialettica l'analisi dissacrante viene al secondo posto: «le peuple honore» i signori eminenti; «les demi-habìles» o semi-intelligenti «les méprisent» (ad esempio Tersite, acuto percipiente dei lati negativi), perché la nascita non significa niente; lo pensano anche i devoti dalla mente corta. Ci vuole un'«arrière pensée», «en parlant cependant comme le peuple»: gl'intelligenti («les habiles») riconoscono la dignità degli altolocati; i cristiani perfetti li onorano. «Ainsi» le opinioni s'avvicendano «selon qu'on a de lumière». L'« arrière pensèe» perfora i grovigli causali: siccome le pantomime politiche dipendono da costanti biopsichiche, qualunque rimescolamento alla fine ricompone i vecchi equilibri; valeva la pena? Domanda plausibile dove il potere sia affare tra pochi contendenti simili. Fuori da lì lo scetticismo qualunquistico ha un vizio, che la «Logique de Port Royal» chiama «dénombrement imparfait»: «les personnes habiles» vi cadono spesso, non tenendo nel debito conto «toutes les manieres dont une chose peut étre ou peut arriver»; rispetto ai servi della gleba non è lo stesso vivere sotto gli zar o nei kolkos. Stavolta Blaise ragiona meno bene d'Arnauld e Nicole. Montaigne, olimpico, santifica le cose quali sono. «La religion Chrestienne a toutes les marques d'extreme justice et utilité»: «nulle plus apparente que l'exacte recommandation de l'obeissance» alle autorità; istituite o no da Dio, vantano un titolo antropologico, diversi essendo quanti stanno nell'ordine e chi vuol mutarlo. L'integrato ha dalla sua fattori importanti quali «simplicìté», «obeissance», «exemple»: se sbaglia, è «malheur» più che cattiveria; le norme positive, agglutinate dal lento moto organico nel corpo sociale, garantiscono la via meno rischiosa. L'eversore «est en bien plus rude party» perché assume gravi responsabilità «qui se merle de choisir et [...] changer». «Cetre si vulgaire consideration» gli appare determinante. Anche da giovane riteneva «très-inique» sottoporre gli istituti «à l'instabilité d'une privée fantasie». Discorsi d'un castellano ricco, grazie al commercio praticato dagli Eyquem (aringhe salate e vino), prima che Pierre diventasse quasi nobile comprando il castello dal quale Michel prende il nome: sta comodo nel mondo, «come un nuotatore [portato] dall'acqua o il bevitore dal vino»; era consigliere del parlamento bordolese, carica venale; a 36 anni se ne disfa; coltiva tranquillo i piaceri della testa. Proiettati su scala cosmica, piccoli interessi ispirano l'etica del non muoversi e annesse equazioni metafisiche. Il quietismo pascaliano, invece, discende da visioni tragiche: l'illusione politica, stupida, garantisce una vita tollerabile; persino idee stravaganti attenuano i disordini umani. Ad esempio, la regola dinastica: diventa re, governando lo Stato, «le premier fils d'une reine», quasi il mestiere regale non implicasse attitudini; nessuno è tanto matto da affidare il timone al viaggiatore nato meglio, ma dove un titolo significhi «più abile e virtuoso», «nous voilà incontinent aux mains»; ognuno pretende d'esserlo. «Attachons donc cette qualité à quelque chose d'incontestable», tali essendo le successioni automatiche; «c'est le fils ainé du roi, cela est net, il n'y a point de dispute»; sebbene sia avvilente ammetterlo, «la raison ne peut mieux faire, car la guerre civile est le plus grand des maux». Lo sa, avendo visto una jacquerie normanna (il padre era co-intendente sotto Richelieu) e i torbidi della Fronda. La critica dei poteri è esotericamente ammissibile, guai però se trapela: l'arte della sovversione comincia così; gioco funesto; «rien ne sera juste à cette balance». Degl'incauti discutono, frugano, scovano difetti: i sudditi scrollano «le joug dès qu'ils le reconnaissent»; i magnati «en profitent», rovinando il popolo nonché «ces curieux examinateurs des coutumes revues» (l'ipotesi presuppone sistemi classisti, dove le rivoluzioni siano una ronda d'oligarchi). Meglio dunque nascondere i precedenti effettivi: nessuna istituzione ha origini pulite; s'era imposta «sans raison» ma «est devenue raisonnable»; dunque, presentiamola «authentique, éternelle», impeccabile, altrimenti affondala. Teorema sostenibile nella Francia 1657-62, ma l'ha dedotto da un dogma: che il mondo sia corrotto; sconti una misteriosa colpa; la storia cominci lì; ogni segno indichi «un Dieu perdu». Non è scoperta cristiana. L'idea circolava, dal dualismo iranico alle saghe gnostiche, e i catari sono più conseguenti dei cristiani. L'infezione genetica spiega tutto. «Chose étonnante», che la chiave del problema sia un mistero. Siamo al punto basso della spirale dialettica pascaliana: un peccato trasmesso ai discendenti; bambini eternamente dannati, 6 mila anni dopo; «rien ne nous heurte plus rudement que cette doctrine»; l'idea tradisce un'assurda giustizia tribale ma «le noed de notre condition prend ses replis et ses tours dans cet abime», sicché «l'homme est plus inconcevable sans ce mystère que ce mystère n'est inconcevable à l'homme». Frasi gonfie, vuote, da quaresimalista. La formula teologale trasuda malinconie ossessive. Cose analoghe scrive Baudelaire, naturalmente cattolico (s'è formato su de Maistre o almeno lo racconta), non avendo mai letto Pier Lombardo: rimbecca Voltaire, colpevole d'ironia sull'anima immortale dimorante nove mesi «inter feces et urinas» (come tutti i tardigradi, odiava «le mystère»); e loda la Chiesa perché, non potendo abolire l'amore, l'ha almeno «désinfecté» nel matrimonio. |