Copertina
Autore Franco Cordero
Titolo L'opera italiana da due soldi
SottotitoloRegnava Berlusconi
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2012, Temi 221 , pag. 302, cop.fle., dim. 11,5x19,5x2,7 cm , Isbn 978-88-339-2287-4
LettoreGiorgia Pezzali, 2012
Classe politica , paesi: Italia: 2000 , paesi: Italia: 2010
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Indice


 IX      Breve ouverture a Regnabat Berlusco

         L'opera italiana da due soldi

  3  1.  La ferocia d'un re ringiovanito
  7  2.  Cos'avviene in Rutulia
 12  3.  I gusti del re
 16  4.  Esopo, un protocollo, due animali parlanti
 20  5.  Psiche condannata a vegetare
 25  6.  L'icona del re
 30  7.  Sisifo non era ciarlatano
 35  8.  Il tiranno visto da fra' Girolamo
 39  9.  Le serate del Caimano
 43  10. Privacy viziosa

 47  11. Priapismi e res publica
 51  12. Quarto e quinto potere
 55  13. Salvatelo dalla bestia rossa
 59  14. Le mani nella Carta
 63  15. La mannaia dei processi
 67  16. Morte del processo
 71  17. I tre poteri
 75  18. Proclama dal Reno
 79  19. Il carnevale della procedura
 83  20. Procedura criminofila

 87  21. Confugio
 91  22. L'Italia assuefatta
 95  23. Ne intercipiatur
 99  24. Ter in idem
103  25. Lesa maestà
107  26. Fobia della prova
111  27. La festa dei criminofili
115  28. Se c'è, batta un colpo
119  29. Contro l'eufemismo
123  30. L'assurdo d'un B. epuratore

127  31. Giochi di guerra
131  32. Cabala prognostica
135  33. Nero grottesco
139  34. Disvelamento
143  35. Farsa infinita
147  36. Prognosti alla specola
151  37. Fuga dal processo
155  38. Il tempo dell'Unto
159  39. Ancora eufemismi
163  40. Ermeneutica, sintassi, bienséance politica

167  41. Centoventi giornate nella reggia
171  42. Demiurgo
175  43. Hıbris
179  44. A carte scoperte
183  45. Due sultani
187  46. Dike in gabbia
191  47. Teatro d'Arcore
195  48. Maggioranza onnipotente
199  49. La giustizia in Parlamento
203  50. Estetica del berlusconismo

207  51. Scorci del vizio italiano
         1. Le nevi dell'anno scorso, 207
         2. Matrici, 208
         3. Storie italiane, 212
         4. Cos'ha di nuovo l'arnese vecchio, 216
         5. Demiurgo, 220
         6. Futuribili, 222
225  52. Bienséance verbale
228  53. Oratorio luttuoso
232  54. Non sa cadere
236  55. Mirabilia e difetti dell'essere Caimano
240  56. L'estremo esorcismo
244  57. Motus velocior
248  58. Mani adunche
252  59. Piccola storia de rebus futuris
256  60. Glosse al climaterio

271  61. In extremis

277      Indice dei nomi e degli argomenti


 

 

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Pagina IX

Breve ouverture a Regnabat Berlusco


La storia comincia negli anni ottanta, quando l'impresario edile ingigantito da capitali oscuri irrompe nel selvatico etere televisivo e, comprando favori governativi, allunga le mani fino a diventare duopolista, indi egemone. Questo libro racconta in sessantun quadri gli ultimi trentasette mesi: come un tre volte capo del governo, trionfante alle urne, dilapidi la fortuna politica (l'economica è nei forzieri); e qui la filosofia, intesa quale clinica della parola, svela meccanismi del comportamento. Che sia fantasma verbale la cosiddetta volontà libera d'optare tra vari impulsi (sui potestas ovvero autokínesis), l'aveva scoperto sant'Agostino: analisi sperimentali rilevano solo atti volitivi in trame causali; voglio ma era impossibile che non volessi. Mondo fisico e psichico soggiacciono alla stessa causalità (eimarméne). L'historia divi Berlusconis è prova sicura dell'ipotesi deterministica: nei movimenti sussultori somiglia alle statue d'un presepio meccanico; monco degli organi intellettuale e morale, miete profitto finché i riflessi scattino. Non s'era ancora visto l'eguale in frode, falso, plagio, estri d'astuto corruttore, e salta nel pantheon dei più ricchi al mondo soverchiando concorrenti meno disinibiti. Dagli affari alla politica, identica maniera. Cinque reti televisive su sette gli assicurano un dominio psichico capillare. A termine più o meno lungo, l'esito era prevedibile: seminano miseria gestioni piratesche della res publica, aperta al parassitismo famelico (P2, P4 ecc.); e nella crisi planetaria l'effetto risulta devastante perché l'organismo collettivo era minato dalla corruzione. Tisi economica. Dominus negava i sintomi del malessere organico, continuando imperterrito: da otto anni e mezzo tosa sessanta milioni d'anime perseguendo l'impunità; alla perdita dei consensi elettorali rimedia comprando qualche parlamentare.

Malgovernata così, l'Italia è malata contagiosa: l'Europa lo mette in mora e lui oppone furberie; mimica magliara, più che commedia dell'arte. Qualunque cosa dica, non gli credono: da Cannes, 3 novembre, torna come i debitori insolventi la cui parola vale zero; siamo paese infido, sorvegliato da due commissari. La nonchalance con cui sopporta tali figure indica un sensorio morale piatto, e che testa sia lo dicono farfugliamenti 4 novembre: gl'italiani stanno bene; consta da quanto spendono affollando ristoranti e aerei. Nella stessa occasione, rivolto al dissenso interno, chiama traditore chi gli neghi fiducia: felloni, rincara un nostalgico della Repubblica fascista; li vuole fucilati nella schiena, come i cinque a Verona, gennaio 1944. Suona psicotica anche l'idea che, se dura fino a Natale, cada il rischio d'un governo aperto agli oppositori: Dio sa perché; erano più razionali le cabale hitleriane in articulo mortis. Invano nella notte 4-5 novembre quattro devoti gli consigliano d'eclissarsi (plenipotenziario cardinalesco, gran visir reclutatore, segretario con dubbia investitura d'erede, sottosegretario flebile portavoce). No, risponde, perché intende il potere in chiave tirannica: deporlo significa essere finito; l'ultimo precedente è un ras libico le cui mani baciava. E l'impero Mediaset? Cos'abbia in mente, l'ha detto e ripetuto: stare lì finché esistano i numeri, anche fosse minimo lo scarto; e guardando negli occhi i perplessi (metafora d'esche e ricatti), conta d'acquisirli. Non sarebbe lui se ripiegasse come Cola di Rienzo 15 dicembre 1347, né ha scrupoli circa i mezzi. Dopo nuove pressioni notturne, lunedì 7 novembre le campane suonano a morto: lo spread tocca i 490 punti; l'interesse sui BTP è al 6,6%; soglia catastrofica; evade dal PDL una famosa ex show-girl; persino Angelus Panisalbus propheta lo dichiara leader «esausto». Siccome «ognuno muore come, secondo il suo carattere, deve morire» (nota mussoliniana manoscritta nell'explicit dei Colloqui raccolti da Emil Ludwig, primavera 1932), è congruo che l'avventura finisca in epica grottesca con risvolti sordidi (proclamava una «battaglia di civiltà»).

Qui sopravvengono i coups de théâtre. Martedì 8 novembre Montecitorio vota sul rendiconto 2010: trecentotto sì con trecentoventun assenti o astenuti svelano un governo senza numeri; e B., sinora ferocemente bellicoso (tanto più dopo un consulto familiare), sfodera la mossa imprevedibile; salito al Quirinale, anziché dimettersi, annuncia future dimissioni, quando le Camere abbiano approvato l'emendamento alla legge di stabilità contenente gl'impegni verso l'Europa. Vuol essere lui ad adempierli. Siccome l'emendamento non esiste ancora, ha l'aria d'una condizione «si voluero», congeniale alla calliditas belusconiana: così la intendono gli osservatori; l'indomani i titoli italiani sprofondano a livelli da default. Verso sera interviene il capo dello Stato garantendo dimissioni effettive entro sabato, appena la legge sia votata: viene finalmente fuori l'emendamento; e la crisi sarà subito sciolta. La stella berlusconiana cade, affossata dai mercati: l'uscente augura fortuna al successore in pectore (in termini analoghi Mussolini scriveva a Badoglio); nell'anomalo partito levano la testa i moderati, stridono i falchi.

Vaghe prospettive sul poi. Se Dio vuole, siamo fuori dal pericolo d'una monarchia caraibica, ma trent'anni d'inebetimento televisivo hanno allevato una specie umana berlusconoide (nei desideri: molti sono poveri diavoli), disintegrando pensiero, sentimento morale, gusto; sarà affare duro ricostituirli. È triste dirlo, dettava uno stile: avversari malfermi gli stavano davanti col cappello in mano; era luogo comune che l'antiberlusconismo fosse sterile, quindi perdente, mania d'ossessi. «Chi», organo del culto d'Arcore, raccontava i fasti delle regge, non essendo ancora trapelati al pubblico i riti d'Eliogabalo ivi consueti. Nelle file blu spiccano tre tipi umani: gl'incantati pronti al giuramento purgatorio sull'onore del Capo; lo sgherro, furioso all'idea che la baldoria finisca; e un più o meno bienséant ammiratore dei malaffaristi dai forti spiriti animali (lo chiamavano «imprenditore geniale»). Ancora l'anno scorso consulenti dell'opinione moderata condannavano la scissione nel PDL. In vent'anni almeno un italiano su tre ha bevuto la favola, quindi niente esclude un revival minoritario, dove l'Estinto o sopravvivente innocuo sia figura celeste: i pretendenti hanno taglia esigua; scoppieranno piccole guerre. L'area lato sensu sinistra dava spettacoli poco edificanti: se ha imparato qualcosa, non ripeta le liti tra pavoni 2006-08, ma pesano tare ataviche, incluso quel Mussolini direttore dell'«Avanti». I malinconicamente disadatti al clima dell'ultimo ventennio sognano una destra e sinistra pulite, leali, laiche, ingegnose, la cui alternanza non scalfisca valori fondamentali. Deo adiuvante, la baldoria ipnotica pare svanita. Il mercato batte colpi terribili: dopo otto anni e mezzo d'un governo piratesco, l'Italia aveva l'acqua alla gola; le borse la salvano. O meglio: uscito lui, esistono i presupposti d'un costoso riassestamento; l'opera richiede coraggio, idee chiare, anime rette. Sarebbe imperdonabile scannare la paziente in ossequio al cosiddetto primato della politica.

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Pagina 3

I.

La ferocia d'un re ringiovanito


Come nelle storie d'alchimia, riappare dopo quattro giorni tra fanghi e pietre vulcaniche; suona cupo, fuori dei denti, l'avvertimento alla Corte costituzionale: se gli toccano l'immunità, ridisegna l'ordinamento a modo suo. Non è più tempo d'eufemismi. Cosa dicono in via Solferino i cantori dello stile d'Arcore? Ottantasei anni fa, al culmine d'una congiuntura simile, Albertini salvava l'anima in extremis col rifiuto del regime al cui avvento aveva largamente contribuito.


Il re decrepito, tema della fantasia alchimistica: le sue terre decadono; non cresce più niente. Bisogna ringiovanirlo e l'opus comincia da una «mortificatio»: nel Viridarium chymicum muore massacrato dai rivoltosi; in Maier, Scrutinium chymicum, un lupo lo divora affinché rinasca dal fuoco (cito da C. G. Jung, Psicologia e alchimia, in Opere, XII, Bollati Boringhieri, Torino 1992, figg. 173 e 175). Sir George Ripley, canonico di Bridlington (1415-1490), racconta una metamorfosi meno cruenta: acquattato sotto le vesti materne, ridiventa feto; lei mangia carne di pavone e beve sangue d'un leone verde (nell'iconologia alchimistica corrisponde all'unicorno); il rinato riceve carismi da luna, sole, stelle attraverso una vergine inghirlandata il cui latte è vita; trionfa sui nemici, guarisce gl'infermi, estingue i peccati. Non era digressione oziosa.

Abbiamo un presidente del Consiglio fuori misura: cantastorie stipendiati vantano mirabilia e ne è convinto; «toccatela», diceva offrendo la mano in un convegno, «ha fatto il grano»; quanto più taumaturgo dei re che guarivano gli scrofolosi. Ma deperiscono anche i corpi regali. Nell' Allegoria Merlini fenomeni d'idropisia preludono alla rinascita: pronto alla battaglia, chiede da bere e beve troppo gonfiandosi; non può salire in sella; vuol sudare in una camera calda; vi rimane esanime; allora vari mediconi lo tritano, poi riplasmano con ammoniaca e nitro; cuoce nel crogiolo. Quando l'ultima stilla è caduta nel vaso sottostante, salta su gridando: dov'è il nemico?; vengano a sottomettersi; se qualcuno resiste, l'ammazza. Sudava umore tossico anche Re Lanterna, padrone degli ordigni con cui s'alleva un popolo d'elettori mossi dal segnale televisivo, e nel quarto giorno esce, dovendo assistere al derby milanese.

L'unica differenza dall' Allegoria Merlini è che non l'abbiano tritato: resta qual era, compatto, nerovestito, arrembante; e stermina i nemici; non vuol più sentire la parola "dialogo" (scelta semantica seria, diamogliene atto). Seguono due battute: la Corte costituzionale renda ossequio al cosiddetto lodo Alfano, del cui valore un collegio del Tribunale milanese osa dubitare; altrimenti, e la voce assume toni gravi, ha in serbo una «profonda riflessione sull'intero sistema giudiziario». Parlava chiaro: qualcuno s'illude d'imprigionarlo in ragnatele legali?; numeri elettorali e curva dei consensi dicono chi comandi; avendo l'«omnipotence de la majorité», fa quel che vuole; può rifondare Carta, codici, personale. Non lo fermano due o tre parrucche, o quante risultino determinanti dell'ipotetica decisione ostile: s'infuria ogniqualvolta dei giudici non deliberino nei termini convenienti; è lesa maestà contraddirlo. Che lo pensi, era chiaro: gli ripugnano diritto, etica, grammatica; lo Stato è una delle sue botteghe; sinora però teneva l'idea dentro e finché stia al gioco pudibondo, l'ipocrisia vela i più tristi spettacoli. Domenica sera l'ha detto, spiazzando cosmetologhi e consiglieri legali. L'outing scoperchia retroscena visibili da chiunque non chiuda gli occhi: sarà arduo sostenere che l'immunità tuteli un interesse generale; l'ha smentito dai telegiornali; la pretende come scudo nei prossimi dodici anni, ritenendosi diverso da tutti.

La frode è una costante della storia berlusconiana ma stavolta siamo sul côté violento, emerso tre mesi fa quando un emendamento al decreto sicurezza, fuori dei termini convenuti al Quirinale, minaccia scempi se non gli garantiscono l'immunità: centomila processi al diavolo; gliela votano e l'emendamento cade; caso classico d'estorsione. Eguale odore manda l'ultimo fosco avviso: e l'art. 289 c. p. incrimina «ogni fatto diretto a impedire anche temporaneamente» che la Corte eserciti le sue funzioni; la pena va dai dieci anni in su ma è questione accademica, essendo lui immune dal processo, qualunque sia l'ipotetico reato, anche fossero in ballo i presupposti della convivenza civile. Segnaliamo l'argomento ai cultori della «moderna democrazia liberale», impersonata dal plutocrate populista. Novant'anni fa discorsi analoghi correvano sotto la stessa testata. Post ottobre 1922 Luigi Albertini ha la coscienza inquieta: non l'ammette, anzi ripete vecchie invettive; secondo lui, le sventure italiane vengono da Giolitti, ma i cinque volumi dei Venti anni di vita politica dicono quanto basta al giudizio storico. Ha pochi motivi d'orgoglio: insisteva nell'assurdo tentativo d'escludere le masse dalla scena politica; patrocinava teste piccole e torbide come Sonnino e Salandra; guerrafondaio quando è chiaro che nel caso migliore l'Italia uscirebbe stravolta; sostiene lo squadrismo fascista, risposta salutare al pericolo rosso, nonché alla neoplasia cattolica. Dio sa come potesse vedere nei neri un partito liberale giovane; e ancora dopo l'insediamento mussoliniano spera una metamorfosi virtuosa, ma precede tutti gli esponenti del vecchio establishment contro la dittatura nascente: in extremis salva l'anima. Siamo a quel punto? Il teatro storico non concede bis perfetti: nel 2008, ad esempio, manca l'equivalente d'un braccio armato quale la Milizia volontaria; cose d'allora sono impensabili ormai, fermo restando lo sfondo antropologico (Achille Starace e simili vengono su come funghi). L'analogia sta nel grave pericolo. Sotto qualche aspetto rischiamo più d'allora: Mussolini era uomo politico, con difetti calamitosi ma non affarista né pirata; e intellettualmente valeva alquanto più del musicante da crociera, impresario edile, piduista, spacciatore della droga televisiva. Nelle desinenze latine s'equivalgono: «unguibus et rostribus», declama il furibondo maestro elementare romagnolo; l'altro, laureato, infila nella loquela d'imbonimento un «simul stabunt, simul cadunt», ma racconta d'avere tradotto Erasmo, il cui latino umanistico non è dei più facili.

(La battaglia finale, «la Repubblica», 30 settembre 2008)


Post scriptum. Ragioniamo del corpus Berlusconis: falsi sorrisi, occhio torbido, mandibole d'alligatore, cosmesi sguaiata, fonemi da fiera, silhouette corta e voluminosa; anche Margherita Sarfatti, critica d'arte, panegirista, ex amante, rileva una mole compatta nel Dux 1926, ma l'uomo d'allora figura assai meglio. Immagini artefatte (esisteva un ministero ad hoc, della Cultura popolare) indicano qualche fondo d'anima: ha stile il maestro elementare autodidatta dagli occhi accesi; s'intende d'affari intellettuali; i «Colloqui» raccolti da Emil Ludwig, 1932, svelano una mente mobile (notevole l'explicit: ognuno muore come doveva, «secondo il suo carattere»). Rispetto a B., è una miscela d'Immanuel Kant e Blaise Pascal.

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Pagina 167

41.

Centoventi giornate nella reggia


Qualcuno lo vede cadere, tanto repellente è l'immagine in cui appare dalle carte milanesi, ma Leviathan ha sette vite, refrattario ai sentimenti morali: resterà in sella, dichiara al pubblico devoto (i cosiddetti promotori della libertà), minacciando castighi ai magistrati irrispettosi; e possiamo credergli; quale deputato inter alios, sarebbe troppo vulnerabile. Dignitari, cantori, reggicoda, famigli lo difenderanno con i denti perché, tolto lui, sprofondano. Il pensatoio giuridico elucubra argomenti adeguati alla costellazione intellettuale berlusconiana.


L'impero berlusconiano era un Golia dai piedi malfermi, anzi usiamo i verbi al presente: s'è appena aperta la crisi acuta; incombono terribili convulsioni. Leviathan, coccodrillo biblico, incute spavento persino agli angeli ma ha un punto debole, la fobia delle norme, senza le quali l'organismo collettivo decade: vigono regole persino nelle compagnie brigantesche (Cicerone, De officiis, II, 11, 39-40), come minimo sulla spartizione del bottino (sant'Agostino, De civitate Dei, IV, 4). L'uomo regnante non le tollera: mediante lanterne magiche comanda milioni d'anime; ammette solo caudatari, flabellieri, buffoni, sgherri, strimpellatori, fedeli adoranti; l'unico disegno politico è «sterminio del pensiero»; succhia profitti da ogni parte ma, essendo l'Unico, non rende conti né divide le prede; ai famigli, fissi o precari, lascia qualche grassa briciola (è un segno che P. Battista parli del brulichio questuante: «Corriere della Sera», 19 gennaio 2011; lasciamolo al semiologo). Corre il XXI secolo, dopo varie rivoluzioni, dalla guerra inglese Corona-Parlamento al marasma e collasso sovietico: in mani piratesche l'Italia offre spettacoli senza precedenti; e siccome l'atrofia mentale richiede tempi lunghi, qualcuno resiste ancora; in particolare, sopravvive un sistema giudiziario duramente combattuto. Lo scempio italiano significa illegalità organica, perciò Dominus Berlusco s'era proclamato intoccabile perdendo lo scudo tre volte: secondo un'odiosa norma, siamo tutti eguali davanti alla legge; voleva adeguarsela istituendo un'eguaglianza relativa (vedi la Carta dell' Animal Farm) ma disturbi interni gliel'hanno impedito. L'ultimo affronto, appena sei giorni fa, prelude al pandemonio.

I tableaux vivants nelle regge erano emersi due estati fa, breve scandalo. Riconsacrato dalla miniatura che un matto gli scaglia in viso, gode del sostegno vaticano, quale defensor Ecclesiae, e comprando anime transumanti nell'ultimo Avvento, schiva la sfiducia per tre voti. Stavolta l'affare è grave, nato da casi d'ordinario malcostume: era irregolare la minorenne Karima El-Mahroug, accompagnata in Questura giovedì sera 27 maggio; fuggiasca da una comunità messinese, non ha documenti; e dopo i passi della routine, andrebbe in uno degli asili che accolgono i minori nel suo stato, se quando mancano pochi secondi a mezzanotte, come spesso avviene nelle fiabe, il capo-gabinetto del questore non fosse svegliato dal telefono. Chi parla? Lui, Dominus quasi omnipotens, bisognoso d'un favore: la rilascino de plano, senza formalità; è nipote del premier egiziano Mubarak. Essendo ancora imperfetto l'adeguamento italiano al modello sultanesco, l'illegale passo riesce meno fulmineo del desiderabile: convulse telefonate interne, nuovi interventi dall'altissima sede; finalmente (sono già suonate le due), Karima esce, attesa dall'emissaria dell'augusto suasor e subito scaricata nelle mani d'una signora poco idonea a mansioni samaritane (contro la pseudoaffidataria pende un procedimento relativo al viavai prossenetico nella famosa villa). La Procura, ancora indipendente dal potere esecutivo, doveva indagare: reperti d'ufficio, esami, discorsi intercettati formano materiali da abbattere i tori, se sapessero l'alfabeto; Sua Maestà riceve dalla Procura l'invito a un colloquio, preliminare del possibile salto al dibattimento. Due capi d'accusa. Nel primo figura sotto la qualifica «concussore»: lo è il pubblico ufficiale che abusando della qualità, costringa o induca «taluno a dare o promettere indebitamente» qualcosa («denaro o altra utilità»), a lui o a terzi; pena da quattro a dodici anni. Sono due i profitti, dicono gl'inquirenti: lei ripiglia la vita d'avventure sottraendosi alla tutela dei minori; lui previene disvelamenti molesti sulle notti d'Arcore. Qui entriamo nella seconda accusa: atti sessuali con la predetta, in tredici giorni tra due domeniche, 14 febbraio e 2 maggio, pagata in contanti o gioielli et similia, direttamente ovvero attraverso il cassiere (pena da sei mesi a tre anni).

Viene da pensare che stavolta sia nel brago, ma vola tra i più ricchi al mondo, felicemente monco degli organi intellettivo, morale, estetico, spesso tormentosi in hac lacrimarum valle, quindi sbraita nel suo stile: non gli passa per la testa d'andare in tribunale; riformerà subito la giustizia punendo i violatori della santa privacy, cospiranti contro il popolo sovrano; e nessuno s'allarmi; sono accuse risibili, cadranno appena se ne occupi la Camera. Il giuspensatoio PDL conclude a colpi inesorabili: erano ricerche abusive, quindi materiali da buttare perché, trattandosi d'un reato ministeriale, è competente l'organo collegiale individuato dall'art. 96 Cost.; Villa San Martino sta nella circoscrizione del Tribunale di Monza (e l'art. 51, c. 3-quinquies, c. p. p.?); niente da temere nel merito, visto che il concusso nega d'esserlo e mademoiselle d'essersi prostituita; infine, le intercettazioni costituivano atto sovversivo, nonché attentato ai valori supremi. Discorso esilarante. Il Tribunale dei ministri giudica reati commessi da chi esercitava funzioni ministeriali: tale non risulta l'intervento d'un presidente del Consiglio in Questura affinché rilasci discretamente minorenni spericolate; i rapporti con i questori competono al Viminale, quindi cadrebbe sotto l'art. 96 il telegramma con cui Mussolini, titolare del dicastero, segnalava Piero Gobetti al prefetto torinese perché gli mandasse dei manganellatori; idem i peculati commessi dal ministro dei Lavori pubblici nella gestione d'appalti. Qui manca ogni rapporto funzionale: l'insonne spendeva la qualità d'una persona strapotente; solo all'attuale guardasigilli può venire in mente che ogni reato berlusconiano sia ministeriale. Lasciamoli cantare. Due cenni pour les rieurs. Piero Ostellino, oracolo d'una dolente opinione moderata, accusa gl'indaganti d'avere barbaramente trasformato in prostitute le ospiti: no, era uso privato del corpo («Corriere della Sera», 19 gennaio); niente vieta che l'interessata se ne serva ad lucrum captandum; che male c'è? E come irrompe, impavido, un berlusconiano ferreo, cattolico militante, ivi intervistato. La commedia italiana spesso disgusta ma non annoia mai.

(Il Golia dai piedi d'argilla, «la Repubblica», 22 gennaio 2011)


Post scriptum. Trame perfette, nemmeno fossimo nella «Comédie humaine»: le serate d'Arcore sono quel che i lettori aspettavano dalla molto coerente storia berlusconiana; sarebbe sbalorditivo scoprire che le consumasse sul latino d'Erasmo o in dispute de immortalitate animarum o nei classici dell'economia, della quale non sa un'acca, astutissimo però in fraudibus.

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Pagina 171

42.

Demiurgo


Forse siamo alla fine della lunga guerra condotta dall'Olonese contro Dike: qualcosa avverrebbe se nel mese prossimo andasse a giudizio sui due capi d'accusa irrispettosamente formulati dalla Procura di Milano, senza contare i tre dibattimenti che già pendono; è lesa maestà accusarlo; e il clamore cortigiano modula teoremi asinini. Dalle figure grottesche esce quasi incolume nelle previsioni elettorali: ha «un suo popolo», come non l'aveva Mussolini; riconosciamogli il titolo d'unico demiurgo della storia italiana.


La Procura di Milano chiede il giudizio immediato contro Sua Maestà su due accuse, concussione, diretta a occultare atti sessuali con una prostituta minorenne, e com'era prevedibile, esplode il pandemonio: l'ultima storia politica è il romanzo nero del come un pirata insediato a Palazzo Chigi moltiplichi l'immenso bottino avvilendo la giustizia; piene d'uomini e donne suoi, le Camere cantano, ringhiano, votano, applaudono qualunque cosa comandi. «Giudizio immediato» significa andare al dibattimento, omessa l'udienza preliminare, essendo evidenti le prove: se tali siano, lo dirà il giudice delle indagini preliminari; opprimono l'imputato discorsi raccolti dagl'inquirenti, carte bancarie, voci nei nastri. Dal chat emergono interni d'una Maison Tellier con demoiselles, maitresses, lenoni, ma Guy de Maupassant la evoca decorosa, seria, pulita, senza annessi al malaffare politico. Qui regnano atmosfere cupe.

Non è chiaro dove stia il sopruso: sono due reati perseguibili d'ufficio; essendo obbligatoria l'azione, la Procura doveva muoversi; perciò nei piani berlusconiani il pubblico ministero sta agli ordini del governo; e fosse così, la Maison fiorirebbe rigogliosa. Non tiri in ballo l'ordigno inquisitorio. Cercava rogne telefonando alla Questura affinché, illegalmente, restituisse al mercato una minorenne ivi accompagnata, già ospite delle lugubri soirées; donde la connessione delle accuse; premendo sul questore schiva pericolose scoperte se Karima el-Mahroug, in arte Ruby, parlasse; che poi, oltre al buon cuore (dalla fisiognomia nessuno l'arguirebbe), l'intervento abbia fine politico, essendo costei nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak, è favola d'un genere spiritosamente coltivato da Boccaccio, Machiavelli, Aretino. Le procure non emettono sentenze, quindi ha poco da temere, supponendo che sia innocente, quale afferma d'essere (non ricordiamo se anche stavolta giurasse sulla testa dei figli). Il tribunale stabilisce cosa sia avvenuto: l'accusa conduce alla condanna qualora risulti fondata, altrimenti cade; aperta la via al dibattimento, bastano poche settimane; il soccombente appellerà e resta il ricorso in cassazione. È ferma regola ma nella logica paranoica della Tortuga italiana, Lui non soggiace a regole: se le fa e disfa; l'investitura elettorale gli conferisce poteri illimitati. Qualche fine intelletto taglia corto: «a maggioranza assoluta» Montecitorio ha dichiarato incompetente quel Tribunale; «Roma locuta, causa finita». Nella Carta futura, scandita in dialettica d'asino, può darsi che le Camere abbiano giurisdizione ma finché viga la divisione dei poteri, la competenza è una delle tante questioni risolte nel processo. Gli uomini del re vogliono il Tribunale dei ministri: o meglio fingono di volerlo; siccome i giudizi lì dipendono dal permesso assembleare, il caso B. va in scena nella settimana dei tre giovedì; e perché sarebbe reato ministeriale l'intervento notturno a beneficio della signorina? Il benefattore la credeva nipote del raìs d'Egitto, col rischio d'un conflitto internazionale: siamogli grati d'averlo scongiurato; venerdì notte 28 maggio 2010 tutelava interessi dello Stato. Buffonate d'avanspettacolo.

In sede legale c'è poco o niente da dire. Molto interessante, invece, l'aspetto antropologico. Fa testo lo scritto leopardiano sullo «stato presente dei costumi degl'italiani» (marzo 1824): era appena riapparso presso Bollati Boringhieri con un lungo sèguito dove chi scrive sfoglia i centottantasette anni seguenti. I due secoli della malata culminano nel Re Lanterna, al quale sono legate le sue sorti. L'escursione trova ex adverso un'intelligente, colta, empaticamente solidale recensione nella pagina su cui incombe il disumano Bibliotecario d'Arcimboldo, 1566 (Sandro Fusina, «Il Foglio», 8 febbraio 2011: in chiave arcigna trapelano assensi anche dalla nota d'Alessandro Giuli, ivi). Bene, siamo d'accordo in vari punti ma eccone uno sul quale bisogna intendersi. Quando chiamo B. demiurgo, l'unico della storia d'Italia, la parola suona nel senso in cui Doctor Frankenstein ricompone l'uomo da materiale cadaverico o il rabbino di Praga fabbrica i golem, omuncoli d'argilla. Non c'entrano le fantasmagorie gnostiche o ripulsioni catare. Semmai rivediamo spettrali film muti tedeschi. Alleva animali umani questo Joker: Caimano, Leviathan, Minotauro; i nomi designano aspetti estranei alla nostra specie. Guardatelo: ignora la logica a due valori, vero-falso, confusi nell'indefinitamente trasmutabile virtuale; privo dell'organo, non formula né intende valutazioni morali o estetiche; aveva riflessi infallibili (la vecchiaia li offusca). Quanti crani s'era annessi in trent'anni d'inesorabile ipnosi televisiva. I programmi operavano colossali lobectomie cerebrali. Che l'Italia tardofascista stesse meglio in risorse intellettuali, lo dicono i fatti: Mussolini piace; vent'anni d'un rituale invasivo l'hanno assuefatta al carnevale nero ma pochi pigliano sul serio la mistica del credere, obbedire, combattere, corrosa dall'atavico cinismo (in acume maligno gl'italiani non hanno eguali, nota Leopardi); sono quasi tutti fascisti, cum iudicio, quindi vedono dove portino le bestialità belliche mussoliniane, e domenica sera 25 luglio 1943 cambiano casacca. Era fulminea la percezione del pericolo. Sessantotto anni dopo, non esiste più futuro, se è vero che l'Olonese conserva il grosso dei consensi, Dio sa come. Martedì sera sedeva al centro della tavola, farfugliante torvo; «è uno schifo» che la Procura milanese, «partito politico», macchini «processi farsa», su «accuse risibili», ma non tanto, vista la furia con cui tenta d'eluderli (l'ultimo colpo d'ingegno manicomiale è un decreto legge che spenga le confidenze telefoniche); medita cause allo Stato; ventila terribili vendette; dedica troppo tempo all'amatissima Italia, anziché godersi i soldi costruendo ospedali infantili. Fanno spettacolo i visi ministeriali, dal bronzo al nodding commosso e occhi umidi.

(Il Joker alla Tortuga, «la Repubblica», 16 febbraio 2011)


Post scriptum. L'onnipotente s'immischia nell'affare penale d'una traviata minorenne: scatta l'indagine; i telefoni evocano scenari borgeschi a Villa San Martino. Inutile dire quanto baccagli. Il primo impulso è seppellire l'osceno chat con un DL urgente che vieti l'ascolto nei casi in questione, ma non è ancora padrone dello Stato ed esiste una Carta, tanto scomoda: deve stare al gioco; gli argomenti difensivi lambiccati dal brains trust destano scoppi d'ilarità.

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60.

Glosse al climaterio


Con le differenze attribuibili ai tempi nonché ai cromosomi, i tre hanno qualcosa in comune: un rigorista domenicano, parlatore inesorabile; l'ex cardinale figlio del papa, meteora sanguinosa dell'Italia rinascimentale; e dopo mezzo millennio, l'affarista giulivo che la porta all'abisso arricchendosi. Abbiamo ancora due precedenti: un notaio latinista, antiquario, cultore della virtus nella Roma trecentesca, poi paranoicamente gonfio; e un moderno maestro elementare, egomane talentuoso. Finiscono male: spettacolo orribile ma l'analogia non arriva fin lì, sebbene l'Olonese commetta tante bestialità. Infine, l'Italia anno zero.


Da diciassette anni gli affari d'Italia ruotano sulla finzione che i governi berlusconiani siano fenomeno politico, valutabile secondo categorie classiche. Gli arruolati e sedicenti neutrali scuotono le insegne d'una destra liberale, liberista, meritocratica, aperta alle novità, in guerra col parassitismo politicante. Non s'erano mai udite tante tartuferie. Come stiano le cose, lo confessano gl'intimi, ritenendosi ormai invulnerabili. Silvio Berlusconi, alias Olonese, è un pirata dei secoli XX e XXI, impunito: i predecessori nelle Antille ogni tanto andavano sulla forca; lui arremba con patente governativa; costa cara ma rende mille volte tanto. Anziché i mari, batte l'etere incretinendo l'audience. Non ha concorrenti. Ormai ricchissimo, allunga le mani dappertutto, dall'editoria agli empori: sarebbe storia d'ordinaria criminalità in colletto bianco, se non cadesse la consorteria che lo ingrassava. Niente d'irreparabile: basta cambiare cavallo pagando nuovi protettori, e ve ne sono, pronti, ma Re Lanterna non è un tycoon qualunque; l'abito gli stava stretto. Ha l'Io elefantiaco: ingordo, volgare, esibizionista, efferato sotto maschera allegra, pativa la parte dell'arricchito quasi ignoto, genuflesso davanti ai patroni che paga; e salta sul palco vuoto convertendo la macchina d'affari in partito. Tre reti televisive regolano quotidianamente cervelli e midolla: il pubblico ha mente infantile, ripete ai suoi; meno pensa, meglio è; i quali slogan, benissimo attuati, compendiano una moderna stregoneria.

Anche nell'autunno fiorentino 1494 era caduto un regime: Savonarola è animale da pulpito; degli oligarchi lo chiamano per servirsene, e lui piglia tutto. Corrono profonde differenze. Fra' Girolamo vuole uno Stato totalitario teocratico, dove regni Gesù Cristo: ma sta lassù, lontano, e lui fa da luogotenente; mediatore insostituibile, va ambasciatore alla Madonna riportando sicure garanzie. Silvius Caesar era e rimane pirata. L'alter Ego parla chiaro: doveva impadronirsi della res publica, se no «saremmo in prigione o sotto un ponte»; bella sintesi. Altrettanto visibili le affinità: uomo nuovo il Frate, e così platee di bocca buona percepivano quel grosso parassita della casta fallita; entrambi usano l'arnese mediatico; nessuno dei due segue i consueti modelli. In spiritualità B. ricorda Millán Astray, generale franchista, la cui massima era «abajo la inteligencia!» (lo grida a Miguel de Unamuno, Salamanca, 15 settembre 1936). Il primo governo vive sei mesi. Cinque anni dopo, sgomina un coacervo dissonante, screditato da errori e collusioni, poi ne spende altrettanti in leggi sulla sua misura; se le taglia e cuce addosso. Governa talmente male da farsi battere ma dopo due anni risale, forte d'uno schieramento parlamentare monstre.

Stavolta va peggio. L'Italia scivola verso la bancarotta; mentre lui mischia privato-pubblico allungando tentacoli dappertutto: siccome trascina conti penali, s'è proclamato immune, furente quando lo scudo risulta invalido; era un bis e sopravviene il ter. Serate d'Arcore svelano passatempi postribolari dal forte fumus delicti (prostituzione minorile e concussione). Emergono P3 e P4, agenzie d'interessi sporchi a sponda governativa. Consta che il berlusconismo sia malaffare organico. Corrono tre anni neri. L'antagonista interno, espulso in stile bolscevico, gli oppone un partito della destra pulita e lui sfiora la débâcle salvandosi con l'acquisto d'alcune anime. Coatto a regnare (così Adolf Hitler macina vite a milioni finché lo stanano dal bunker), sbraita d'avere le mani legate: vuol riscriversi la Carta accumulando poteri quali sì e no eserciterebbe Re Sole, finché gli andassero bene le guerres de magnificence; i due Luigi seguenti se li sognano. Lo spettacolo incute spavento: chi vive fantasie paranoiche va nell'ospedale psichiatrico o l'accudiscono costose cliniche, ma fosse uno dei più ricchi al mondo, servito da masnade incallite, forse s'imporrebbe; psicosi acted out diventano sciagura storica. Va letto così l'anno berlusconiano 2011, aperto dai baccanali d'Arcore. Come al solito, oppone ostacoli al processo, anziché difendersi. Quando Torino, Milano, Napoli eleggono sindaco e consigli comunali, gli converrebbe stare tra le quinte, perché spira aria infida, invece scatena pandemoni e perde male. Due settimane dopo, seconda batosta: chiamati al referendum, gl'italiani abrogano quattro leggi sue; li aveva esortati a non votare; i sì straripano. L'estate svela un'Italia quasi decotta. Schifato dall'opinione mondiale, resta furiosamente in sella.

[...]

Epiloghi macabri. L'attuale premier cadente non corre rischi simili. Con un fondo lugubre affiorato nelle soirées, appartiene ai diavoli farceurs, benvisti nei trivi delle società mercantili. Al massimo può perdere un dente, ma ne bis in idem: era successo in piazza Duomo, dicembre 2010, e don Luigi Verzè l'ha diplomato santo; è un'armatura la volgarità malavitosa. Male che vada, sarà sempre ricchissimo, tanto da comprarsi ugole, mani, turiboli, canne d'organo, femmine. Sta malissimo invece l'Italia e i conti da bancarotta sono il meno: ha subito un danno cromosomico; Dio sa quanto ci vorrà a smaltirlo. Lui ripete «non mollo» ma che l'era sia chiusa consta dal «Corriere della Sera», infallibile ricognitore: l'editoriale 25 settembre manda rintocchi funerei; chiamiamolo «arringa del non contrito»; e l'enfasi deprecatoria stona, come se lunedì mattina 26 luglio 1943 Giovanni Ansaldo, assiduo cultore dei fasti mussoliniani, dal «Telegrafo» regolasse i conti all'ex duce chiamandolo occupante abusivo, oppressore, guitto d'un impero farsesco, condottiero nefasto. Meglio così, prendiamone atto.

A guisa d'epilogo, parliamo dell'Italia anno zero. La XVI Legislatura offre materia insigne. Aprile 2008: abortito l'ultimo governo centrosinistro (dove sedeva, inverosimile guardasigilli, un nomade berlusconoide), B. stravince; non s'erano mai viste maggioranze simili. Cappello in mano, gli sconfitti rendono ossequio al trionfante riconoscendo che incarni l'anima italiana e schieri un rispettabile parterre, specie sul cóté rosa. Ergo, vada al diavolo l'antiberlusconismo, roba maniacale: «non porta da nessuna parte»; «tra vent'anni perderemmo ancora». L'asse gira storto se i perdenti dissertano così. I fatti erano più grossi d'una casa. L'uomo al potere, presunto reinventore del liberalismo (il veleno sta nell'aggettivo "moderno"), è pirata in colletto bianco, voracissimo malaffarista, dedito al monopolio parassitario, egemone nel medium televisivo, col quale disintegra gli organi pensanti disseminando un immorale culto del successo aperto a chiunque, purché sia abbastanza furbo e svelto (ad esempio, Walter Lavitola); dei poveri diavoli vanno in estasi ipnotica. Figura, cosmesi, voce, parole, gesti segnalano mente corta e un'asfissiante volgarità. Le sue doti, cospicue nel codice malavitoso, appartengono al genere fraudolento, senza escludere atti brutali quando possa permetterseli: addetto alla res publica, la devasta; a parte gl'istinti da predone, tecnicamente è maniscalco in lavori d'orafo; nella XIV Legislatura governa talmente male da cadere contro avversari poco temibili. Cosa sia l'establishment, poi, lo dicono immagini e cronache, una corte dei miracoli.

L'aprile 2008, dunque, presenta l'Italia in spirale involutiva: quel regime piratesco infirma le radici morali (fa testo Max Weber, etica calvinista e spirito del capitalismo): regrediamo nella gara economica ma sull'onda d'una congiuntura favorevole pochi se ne accorgono; e se ha mano libera, in cinque anni l'occupante riconfigura lo Stato quale monarchia caraibica, applaudito dai cantori della «moderna democrazia liberale». L'ha detto mille volte: trasciniamo anticaglie che legano i passi; potendo, governerebbe come guida le aziende, a colpi fulminei (sbracato conflitto d'interessi e pudibondo silenzio nel coro); cova riforme radicali; il modello è la Protezione civile, organo d'un management risoluto, tra «uomini del fare» (diciotto rinviati a giudizio). Gli guasta i piani la crisi americana nata dai mutui subprime, poi planetaria. Dapprima nega l'evento, incolpando gufi del malaugurio, senonché i fatti hanno logiche testarde, insensibili all'imbonimento: gl'impoveriti avvertono sulla pelle quanto male vadano le cose; milioni d'italiani aprono gli occhi. L'incantatore pifferaio zufola refrains monotoni, ogni volta meno credibili. Dove non abbia tornaconti, sta immobile confidando nelle stelle, furiosamente attivo sul fronte giudiziario: l'unico che gl'importi; aveva sfondi criminali l'irresistibile ascesa, dissimulati da mani esperte, ma qualcosa affiora; e lui perverte l'arnese legislativo rabberciandosi espedienti d'immunità penale. Lavorio da stregone apprendista: norme costituzionali ostano a tali scempi; però iberna i processi, disfarsi dei quali diventa il clou dell'agenda governativa. Il tutto nell'occhio pubblico, acuito dal malessere: aggravano l'effetto nuove accuse; le cercava inscenando serate postribolari penalmente valutabili.

In quarantun mesi dilapida il capitale elettorale, un colpo dopo l'altro come alla roulette, ed ecco il senso clinico dell'avventura berlusconiana, una conferma d'arcaiche teorie greche. Esiodo è contadino religioso in lite col fratello che lo deruba dell'eredità corrompendo il giudice: non sappiamo come finisca la causa; ma Le opere e i giorni postulano un ordine garantito dagli dèi. Dike non accorda sconti. Solone la intende immanente nell'organismo collettivo, i cui disordini costituiscono pena: i trasgressori commettono hıbris, gonfiandosi contro natura; e l'atto riesce autodistruttivo. Pura fisica sociale. Avesse sul tavolo anatomico Silvio B., l'arconte pacificatore ateniese (VII-VI secolo a. C.) l'addurrebbe quale caso classico. La berlusconeide è epopea del fuori legge: crede d'essere onnipotente; sfoga l'incontenibile bulimia; mercenarie arruolate gli cantano inni nelle soirées; padrone del partito, incrimina i dissensi. In lingua psichiatrica l' hıbris è paranoia: gonfio a dismisura, imperversa; chi gli aveva creduto lo vede nudo, un vecchio, ricchissimo, squallido blagueur; e nel disinganno svaniscono i carismi. Risponde alla logica dell' hıbris negare i fatti presupponendo un dominio ormai allucinatorio: vedi Hitler 1945; «non molla» nemmeno l'attuale Führer; comanderà fino alla primavera 2013, ringhia; e ogni tanto minaccia inchieste parlamentari sulle procure. Non è più Re taumaturgo: i vescovi l'hanno sconsacrato (26 settembre, con un sommesso cenno collaterale sulla mole dell'impegno investigativo verso l'Innominato); in via Solferino la campana suona a morto; nell'assemblea lombarda PDL (1° ottobre) Angelino Alfano, invocando «affetto e gratitudine», chiama gli amministratori locali intorno al sire, perché ne ha bisogno, lui che sinora volava trascinando l'orda. Lo dà defunto persino A. Panebianco, vista anche «l'immagine internazionale del paese» (come mai?, non se lo domanda: «Corriere della sera», 28 settembre), ma tiene bellicosamente vivo lo spirito berlusconiano profetando una resa dei conti con la magistratura, colpevole d'avere insidiato l'augusto de cuius: secondo lui, l'epidemica corruzione richiede vie d'uscita politiche, non penali (regime consortile dei lucri?); e gli ascolti investigativi vanno praticati in dosi minime, mai contro chi abbia cariche pubbliche, nemmeno se l'apparecchio captato portasse nomi sporchi. Teorema osé, asinino-criminaloide. L'epifania d'Arcore toccava le midolla e non è liquidabile senza residui.

I vizi preesistevano. Berlusco Magnus li decora d'una patente politica impennacchiando persone d'ambo i sessi. Le solite furie e l'ultimo pubblico happening turpiloquo, 6 ottobre (cerca un nuovo nome al partito, perché l'attuale ha poco appeal), qualificano uno straparlante incurabile. Parassiti dell'oscena anomalia italiana l'applaudono. Fino a quando? I sintomi parlano: falsa allegria, ciarle folli, sordità ai fatti; tre agenzie del rating degradano l'Italia, in mano sua da dieci anni e mezzo, con l'intervallo dei due d'un flebile centrosinistra; e lui dichiara priorità assoluta l'incenerimento dei nastri dove appare qual è. In dialetto incarna un Tartuffe padano 2011: il governo è «grave fardello»; vorrebbe liberarsene ma non può; deve salvare l'Italia, essendo l'unico idoneo terapeuta (7 ottobre). Forse lascerà un sedimento onomastico: "berluscone", nome comune; la radice "lusco" o "losco" significa guercio ossia sguardo storto e, in senso traslato, persona equivoca. Nei cataloghi duecenteschi erano indizi ad inquirendum «mala physiognomia» e soprannomi infami (su «mala conversatio», Alberto Gandino, Tractatus de maleficiis, ed. Kantorowicz, 76).

(Uscito in parte come L'Italia dei veleni, «la Repubblica», 5 ottobre 2011)

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61.

In extremis


Dopo la Grecia, l'Italia, molto malata, poi l'inferno. Il parterre mondiale non ha dubbi sul fattore patogeno: è l'uomo che da otto anni e mezzo vi tiene banco dissanguandola, patrono della corruzione; e lui resta avvinghiato alle porte del potere. Speriamo d'essere all'ultimo atto.


Anche le storie ipotetiche istruiscono. L'ipotesi è che a Palazzo Chigi, novembre 2011, sieda un uomo politico qualunque: fra i tanti pigliamo Marco Minghetti, 1818-1886, capofila d'una destra che tramonta; l'espertissimo Agostino Depretis, 1813-1887; Francesco Crispi, 1818-1901, visionario; Giovanni Giolitti, 1842-1928, magnus practicus; Sidney Sonnino, 1847-1922, austero maniaco; Francesco Saverio Nitti, 1868-1953, intellettuale ombroso; lo stupido Luigi Facta; 1861-1930; e persino l'autodidatta Benito Mussolini nel secondo semestre 1924. Stiamo considerando due soli aspetti dell'attuale congiuntura: B. negava la crisi economica planetaria in cui l'Italia affonda; stiamo bene, garantiva; il marasma dura tre anni, alimentando un debito pubblico monstre (120% del PIL), finché l'UE gl'impone misure draconiane; e lui firma una lettera d'intenti. Il quesito è: cosa farebbe uno statista; ovvio, se ne va sotto il peso degli errori, anche fosse ammirevole sotto altri aspetti. Il caso italiano 2011 risulta diverso e cominciamo dalla persona. Uomo nuovo, indubbiamente: non s'era mai visto premier chi a quarant'anni suonati posasse in ritratti neri (sembra Walter Lavitola), e a sessantasei, nella fotografia d'un evento diplomatico, mimi le corna; quel sorriso a labbra chiuse indica una volgarità psicotica, compiaciuta, stupida, pericolosa, né erano finte le pose da gangster marsigliese, visto quali gesta vanti in frode, falso, corruzione, inquinamento televisivo. Fondatosi così un impero, salta sul carro politico nella tempesta dei primi anni novanta, subito egemone, sebbene governi solo sei mesi. Tolto il biennio 2006-08, post marzo 2001 siamo in mano sua: recluta ciurme dai bassifondi; in conflitto permanente con i tribunali, governa e legifera pro seipso, dalle successioni legittime alla bisca on line; accumula tesori mentre l'Italia disoccupata va in bolletta; e che i passatempi d'harem siano affare privato irrilevante, lasciamolo cantare da un accolito habitué della messa quotidiana, pellegrino in Terrasanta. Nossignore: dicono molto sulla selezione del personale politico; pendono accuse gravi; destano irresistibile ilarità gli argomenti con cui risponde; e le messinscene svelano interni mentali allarmanti (ad esempio, gl'inni al dominus cantati dalle ospiti).

Iddio perdoni l'Italia succuba. Siccome esiste una giustizia immanente, predicata da Esiodo e Solone, gli abusi diventano castigo: sotto Natale 2010 schiva d'un soffio la sfiducia comprando voti. Nei dieci mesi seguenti sprofonda: sonde elettorali lo danno sicuro perdente; ed era dead man walking quando da Bruxelles riporta l'assenso europeo alla lettera d'intenti (gliel'avevano dettata). Nella stessa notte, 26-27 ottobre, canta vittoria in «Porta a porta». Solisti, orchestrali, coro gli tengono dietro: rischiamo la bancarotta; come salvare l'Italia?; solo uno può riuscirvi, lui; e invoca l'union sacrée, incriminando vari fantasmi. Li nomina spesso: procure rosse, tribunali ostili, stampa disfattista; infine condanna l'euro, come se i conti fallimentari italiani fossero sortilegio degli gnomi europei. I mercati hanno midolla fredde e non bevono fandonie: lunedì 31 i BTP decennali toccano quota 6.18%, l'indomani, 6.33%; manca pochissimo alla soglia considerata irreversibile (6.50%, vedi Irlanda, Portogallo, Grecia); l'anno scorso li collocavamo al 4%. Motus in fine velocior: salendo gl'interessi lucrati dall'acquirente, cresce il debito pubblico, alla cui riduzione miravano costose manovre; la spirale s'avvita. I corpi siderali non c'entrano. La malattia italiana dipende in larga misura dalla corruzione, cresciuta dodici volte in vent'anni: secondo un calcolo stretto (Corte dei conti), costa 60 miliardi annui, quanti ne valeva la manovra d'agosto; e chi cova l'uovo? Luigi Bisignani, stratega della P4 intanato a Palazzo Chigi, schiva il dibattimento pattuendo la pena. Nella prassi berlusconiana corrompere costituisce fattore metabolico insostituibile: in metafora medica l'agente tossico è lui; l'ostetrico dalle mani infette diffonde febbre puerperale (se n'era accorto Ignazio Filippo Semmelweis, sul quale Céline scrive la tesi di laurea, 1924); appena B. tolga il disturbo, può solo calare lo spread dai titoli tedeschi, schizzato a 459 punti, 1° novembre.

L'ha detto: mai se ne andrà spontaneamente; segue le orme del cugino Gheddafi, al quale baciava le mani. L'inseparabile Fedele C. racconta perché fosse sceso in politica: con quel passato non voleva finire in galera o sotto un ponte; il rendiconto sarebbe duro dopo tanti soprusi; e difende con i denti la premiership usandola quale scudo. Gl'italiani vadano al diavolo. Bravo, commenta l'amico, vedendolo in euforia bellicosa. Non l'aveva mai persa: monco dei sentimenti morali e dell'organo pensante, vive d'animal spirit; mascelle, zanne, tubo digerente, gonadi, e qualcosa resta dei riflessi infallibili d'alligatore, sebbene gli anni l'abbiano segnato (appare cupo e pletorico, lontano dal ganimede canterino d'una volta). Nell'imbonimento eccelle, è la sua partita. Parlando d'Europa, v'infila le rogne penali: da qui a febbraio gli hanno fissato trentasette udienze, «trentasette, dico»; non potrà difendersi; da che cosa?; cene eleganti e il soccorso a Ruby nell'apertura d'un atelier estetico; la credeva nipote del premier egiziano. Sa d'avanspettacolo l'arte dialettica berlusconiana ma non dimentichiamo l'aprile 2006 quando, gravato dal pessimo governo, in rimonta sfiora l'exploit elettorale. Sarà guerra senza quartiere: pretoriani furiosi difendono carriere piovute dalle stelle; agl'industriali rimostranti assicura «flessibilità in uscita» ossia comodi licenziamenti; il garrulo e gesticolante ministro del lavoro apre gli psicodrammi evocando quinte colonne terroristiche. Mancano solo le stragi. Arie simili spiravano ottantasette anni fa: corrono voci d'imminente caduta del governo (Filippo Turati ad Anna Kuliscioff); e sabato 3 gennaio 1925 Musssolini taglia corto. Sarebbe triste spettacolo l'Italia sul banco del beccaio in bassa macelleria.

(Un uomo qualunque a Palazzo Chigi, «la Repubblica», 6 novembre 2011)


Post scriptum.

Siamo in pieno contrappasso. Nel G20 sulla Costa azzurra, 3 novembre, Berlusco tristis sperimenta il senso della metafora «cane in chiesa»: «non credibile», rispondono i partners quando tenta mosse captatorie. L'Italia da lui malgovernata non è più paese sui iuris; la sorvegliano Unione Europea e Fondo Monetario. Immagini da Cannes presentano un alligatore che storce le mascelle: non s'era mai svelato così; e il partito perde le falde, comunicano gl'intendenti in due sedute notturne 5-7 novembre, consigliando l'esodo spontaneo. Non vuole ma la settimana di passione s'apre sotto segni obituari.

Martedì 8 novembre, derelitto da otto dei suoi, raccoglie trecentotto voti sul rendiconto del bilancio 2010: astenuti o assenti trecentoventuno; l'esigua maggioranza va squagliandosi. Tre anni fa era soverchiante. Verso sera sale al Quirinale. Va a dimettersi, pensano gli ottimisti. No, effonde malinconia (l'hanno tradito persone che reputava fedelissime): «sic transit gloria mundi», aveva bisbigliato sulla salma dell'amico Gheddafi; e dichiara l'intento d'andarsene quando le Camere approvino l'emendamento alla legge di stabilità 2012 concertato con l'UE. Caso senza precedenti: teoria e prassi ignorano le dimissioni sub condicione; dimettersi significa deporre i poteri. Callidus Berlusco se li tiene: ha formulato un'intenzione legata a fattori variabili, mutando i quali, muta lo scenario psichico. Quel voto futuro dipende da lui: gli restano due o trecento ubbidienti perinde ac cadavera; supponendolo negativo, la condizione viene meno; nell'altro caso sarebbe moralmente impegnato ad andarsene ma lo sappiamo insensibile in materia. La sua storia è una lunga epopea della parola falsa: destano dubbi persino banali frasi factual (che giorno della settimana sia, se piova o no, et similia); quando anche fosse obbligo legale, mancano gli strumenti d'esecuzione coatta. Era casus omissus, non essendosi ancora visto un suo pari, planante au dessus des règles. Supponiamo che dica: «martedì 8 novembre sotto influssi saturnini ero incline a deporre l'incarico ma, visti i pericoli incombenti sull'amata Italia, sarebbe gesto irresponsabile; solo io posso salvarla». Nel pandemonio parte favorito: su sette reti televisive, tre sono sue e due gli ubbidiscono; è ricchissimo; non ha scrupoli; attira la schiuma e se ne serve; finché stia in sella, comanda potenti apparati statali. Pensieri maligni? (Ancora ammesso alla corte celeste tra i figli d'Iddio, Satana ne insuffla sul conto del povero Giobbe nel prologo all'omonimo libro biblico). No, dal più al meno lo pensavano tutti, in particolare le borse: l'indomani i titoli italiani sprofondano: i 570 punti dello spread dai tedeschi dicono bancarotta. Parole solenni dal Quirinale garantiscono l'esito terapeutico a brevissimo termine. Sua Maestà cadente ammette che non esistano alternative al governo tecnico.

L'era forzaitaliota durava da diciassette anni e nove mesi, aperta nei nove minuti e ventiquattro secondi d'una epifania televisiva: «l'Italia è il paese che amo...» (mercoledì 26 gennaio 1994); trucco già pesante, mezzo sorriso, voce sommessa; raccontava d'avere la formula dei miracoli. Venerdì 11 novembre desperados arciberlusconiani inscenano un vaudeville chiedendo l'ordalia elettorale, e l'Italia vada in malora. Corre voce che l'Olonese risfoderi gli spiriti, nonostante sofferenze psicosomatiche causate dall'umana perfidia (quei traditori: «tu quoque?»): ma non gli conviene qualificarsi uomo del default inalberando bandiera nera; la sola notizia d'una svolta finalmente seria ha tolto 110 punti allo spread. Sabato 12 novembre 2011, San Martino, data da scolpire nel marmo, i suoi l'applaudono a Montecitorio: nel palazzo privato acquieta i falchi con una vanteria (il nuovo governo morrà quando lui voglia); «buffone», gridano dei manifestanti; sale al Quirinale; stavolta le dimissioni suonano come Dio comanda, ed è festa. Se il trauma gli sviluppasse un filone razionale, lo vedremmo gentiluomo convertito alle regole: è l'unica parte che gli convenga, ma i caimani non ragionano e gli ultras invocano catastrofi (elezioni subito ossia suicidio PDL e bancarotta italiana): non rassicura l'affinità ostentata domenica 13 con lo squadrista che vuol fucilare nella schiena i dissidenti; speriamo che sia innocuo teatro, quale hanno l'aria d'essere grida in piazza e proclama ai fedeli. Altrimenti la storia resterebbe pericolosamente aperta.

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Indice dei nomi e degli argomenti


Ades, 22, 34, 219

Agostino, Aurelio: santo: autore d'una psicoanalisi deterministica, IX; ventila l'ipotesi d'un meccanismo generativo delle anime (nella dottrina catechistica, carica d'intuibili paradossi, le crea Dio, con tanti atti cronologicamente puntuali quanti sono gli animali umani), 22-23, 219; fautore d'una politica ecclesiastica indulgente verso i fedeli e rispettosa degl'interessi costituiti, 49; nelle creature deformi vede una componente necessaria all'armonia del mondo, 69; rilievi sugli ordinamenti pirateschi, 123, 167

Albertini, Luigi: antigiolittiano viscerale, interventista nel 1915, forma l'opinione bienséante dal «Corriere della Sera», sostenendo un fascismo virtuoso che, castigate le mattane rosse, restituisca i poteri alla vecchia classe politica, poi dissente dalla dittatura, 5-6, 118, 213

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Alfano, Angelino: chierico devotissimo, nella notte 4-5 novembre 2011 consiglia a Sua Maestà d'eclissarsi, X: guardasigilli obbediente, qualunque cosa Lui comandi, autore del lodo d'immunità, infine segretario del partito infermo, 4, 58, 101, 106, 220-21; col ministro della cosiddetta Innovazione escogita una memoria universale poliziesca, 16-19; suo DDL sui colloqui intercettati, 46; interloquisce nel caso Mills, 80-81; lo ukase berlusconiano è allestire in due mesi il processo cosiddetto breve o perde i sigilli, 87; studia la riforma del pubblico ministero, 117, 124; ogni sua sillaba viene ex ventre Domini, 131-32; nelle telefonate alla Questura pro Ruby vede un caso da Tribunale dei ministri, ossia niente, perché tali giudizi dipendono dal beneplacito della Camera, 170; a fianco del Sire in una conferenza stampa cum figuris, 187; varia discorso secondo i salti d'umore padronali, ad esempio quando finge ripensamenti, 192-94, 198; Sua Maestà lo designa successore ma verba volant, molti essendo i pretendenti, 202, 220; non teme l'assurdo e l'Olonese se ne vanta ridendo, 220-21; aveva nel gabinetto ministeriale A. Papa (P4, secondo gl'inquirenti), 238; chiama gli amministratori locali intorno al Capo in pericolo, 269

Almirante, Giorgio: leader d'un neofascismo i cui residui rifioriscono nel PDL, 141

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Battista, Pierluigi: distribuisce biasimi, blandi a destra, e stavolta rileva un'insofferenza del dissenso interno nel PDL («Corriere della Sera», 23 aprile 2010), 105; dà atto a Sua Maestà d'avere rimosso A. Brancher, lodevolmente emendandosi, e consiglia un rinvio del rendiconto con G. Fini, 122 (6 luglio); definisce giusta l'immunità berlusconiana, 145-46 (22 ottobre); e «irrealistico», quindi «velleitario», il disegno d'un centrodestra che non abbia l'Olonese quale «indiscusso e carismatico leader» (8 novembre), 149; ammette che lì dentro siano tanti i parassiti (19 gennaio 2011), 168; auspica un'Italia concorde sotto chi la governa, perché «siamo sull'orlo del precipizio» (31 marzo 2011), 198; B. ha subito una sconfitta milanese, dunque non era pericoloso (18 maggio: tra gli «equidistanti», la logica empirica è sesta o settima ruota del carro), 230-31

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Berlusconi, Silvio: gli ultimi trentasette mesi d'una parabola, IX-XII; prospettive dell'après lui, XI-XIII; bisognoso d'un ringiovanimento alchemico, 3-4, 48, 115, 150; taumaturgo, 4; «toccatela», ordina ai fedeli porgendo la mano, «ha fatto il grano», 4; ritratto, 4, 6, 26, 33, 36, 41; minaccia «una profonda riflessione sull'intero sistema giudiziario» se la Consulta dichiarasse invalida l'immunità conferitagli dal cosiddetto lodo Alfano, 4-5; insuperabile nella frode, da qualche tempo sfoga conati violenti, 5, 11, 33-34, 219-220; corpus Berlusconis, 6; egocrate impenitente, 6, 17, 176, 192-93, 204-06; lui e B. Mussolini, 6, 33, 37,

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