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| << | < | > | >> |IndiceMessaggio in bottiglia 5 Fine tappa 14 Il secondo viaggio 28 Satarsa 45 La scuola di notte 65 Disincontri 94 Incubi 115 Diario per un racconto 129 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Epilogo a un racconto - Berkeley, California, 29 settembre 1980 Cara Glenda, questa lettera non le sarà spedita per via ordinaria perché nulla fra noi può essere spedito così, e rientrare nei riti sociali delle buste e della posta. Sarà piuttosto come se la mettessi in una bottiglia e l'affidassi alle acque della baia di San Francisco sulla cui riva si leva la casa da dove le scrivo; come se la legassi al collo di uno dei gabbiani che passano come frustate d'ombra davanti alla mia finestra e oscurano per un istante la tastiera. Ma è comunque una lettera diretta a lei, Glenda Jackson, in qualche posto del mondo che probabilmente sarà sempre Londra; come molte lettere, come molti racconti, ci sono anche messaggi chiusi in bottiglia e gettati in mare che rientrano in quei lenti, prodigiosi sea-changes che Shakespeare cesellò nella Tempesta e che tanto tempo dopo amici inconsolabili avrebbero inciso sulla lapide sotto la quale dorme il cuore di Percy Bysshe Shelley nel cimitero di Caio Cestio a Roma. È così, penso, che avvengono le comunicazioni profonde, lente bottiglie che vagano su lenti mari, come lentamente si farà strada questa lettera che la cerca col suo vero nome, non più la Glenda Garson che era ma che il pudore e l'affetto hanno cambiato senza cambiare - esattamente come lei cambia senza cambiare da un film all'altro. Scrivo alla donna che respira sotto molte maschere, compresa quella inventata da me per non offenderla, e le scrivo perché anche lei adesso si è messa in contatto con me sotto le mie maschere di scrittore; per questo ci siamo guadagnati il diritto di parlarci così, ora che al di là di ogni possibilità concepibile mi è appena arrivata la sua risposta, il suo messaggio in una bottiglia che si è infranta sugli scogli di questa baia per colmarmi di una gioia sotto cui palpita una specie di paura, una paura che non soffoca la gioia, che la rende panica e la pone al di fuori di ogni carne e di ogni tempo, come io e lei abbiamo senza dubbio voluto ciascuno a modo suo. [...] Spenderò poche parole per un riassunto che ormai ci interessa ben poco. Nel film lei ama una spia che si è messa a scrivere un libro intitolato Hopscotch per denunciare gli sporchi traffici di CIA, FBI e KGB, simpatici uffici per i quali lui ha lavorato e che adesso si sforzano di eliminarlo. Con una lealtà nutrita di tenerezza lei lo aiuterà ad architettare l'incidente che lo farà credere morto ai suoi nemici; la pace e la sicurezza vi aspetteranno poi in qualche angolo di mondo. Il suo amico pubblica Hopscotch, che pur non essendo il mio romanzo dovrà per forza intitolarsi Rayuela quando qualche editore di best seller lo pubblicherà in spagnolo. Un'inquadratura verso la fine del film mostra alcune copie del libro in una vetrina, proprio come il mio romanzo dev'essere stato in qualche vetrina nordamericana quando Pantheon Books l'ha pubblicato anni fa. Nel racconto che è appena uscito in Messico io l'ho ammazzata simbolicamente, Glenda Jackson, e in questo film lei collabora all'eliminazione parimenti simbolica dell'autore di Hopscotch. Lei, come sempre, è giovane e bella nel film, e il suo amico è un vecchio scrittore come me. Insieme ai miei compagni del club ho capito che solo con la sparizione di Glenda Garson il nostro amore sarebbe rimasto perfetto per sempre; anche lei ha compreso che il suo amore esigeva una sparizione per mettersi in salvo. Adesso, al termine di quanto le ho scritto con il vago orrore di qualcosa altrettanto vago, so più che bene che nel suo messaggio non c'è vendetta ma una simmetria d'incalcolabile bellezza, che il personaggio del mio racconto ha appena incontrato il personaggio del suo film perché lei l'ha voluto, perché solo questa doppia simulazione di morte per amore poteva avvicinarli. Là, in quel territorio fuori da ogni bussola, io e lei ci stiamo guardando, Glenda, mentre io qui finisco questa lettera e lei da qualche parte, penso a Londra, si trucca per entrare in scena o studia il copione del suo prossimo film. | << | < | > | >> |Pagina 94Non avevo più alcuna ragione particolare per ricordarmi di tutte quelle cose, e anche se in certi periodi mi piaceva scrivere e c'erano amici che apprezzavano i miei versi e i miei racconti, a volte mi veniva da domandarmi se quei ricordi d'infanzia meritassero di essere scritti, se non nascessero da un'ingenua tendenza a credere che le cose erano state più vere quando le mettevo in parole per fissarle a modo mio, per averle lì come le cravatte nell'armadio o il corpo di Felisa la notte, qualcosa che non si sarebbe potuto rivivere ma che diveniva più presente come se nel semplice ricordo si aprisse una terza dimensione, una quasi sempre amara ma anelata contiguità. Non ho mai capito bene perché, ma tornavo e ritornavo su cose che altri avevano imparato a dimenticare per non trascinarsi nella vita con tutto quel tempo sulle spalle. Ero sicuro che fra i miei amici ce ne fossero pochi che ricordavano i loro compagni d'infanzia come io ricordavo Doro, anche se quando scrivevo di Doro non era quasi mai lui a muovermi a scrivere ma qualcos'altro, qualcosa in cui Doro era soltanto il pretesto per l'immagine di sua sorella maggiore, l'immagine di Sara a quell'epoca, quando io e Doro giocavamo nel cortile o disegnavamo nel salotto della casa di Doro. Eravamo stati così inseparabili ai tempi delle medie, dei dodici o tredici anni, che non ero capace di percepire separatamente me stesso che scrivevo di Doro, di accettarmi fuori dalla pagina a scrivere di Doro. Vederlo significava contemporaneamente vedermi come Aníbal con Doro, e non sarei riuscito a ricordarmi nulla di Doro se al tempo stesso non avessi sentito che anche Aníbal era lì in quel momento, che era stato Aníbal a tirare la pallonata che un pomeriggio d'estate aveva rotto un vetro della casa di Doro, lo spavento e la voglia di nascondersi o di negare, l'arrivo di Sara che li chiamava mascalzoni e li spediva a giocare nel prato all'angolo. E con questo ecco che arrivava anche Bánfield, è chiaro, perché tutto era successo laggiù, né Doro né Aníbal si sarebbero potuti immaginare in un paese che non fosse Bánfield dove le case e i prati erano allora più grandi del mondo intero.
Bánfield, con le sue strade sterrate e la stazione del
Ferrocarril Sud, coi suoi campi incolti che d'estate,
all'ora della siesta, brulicavano di cavallette multicolori, un paese che di
notte si acquattava come impaurito
intorno ai pochi lampioni sugli angoli delle vie, con
qualche fischio delle guardie a cavallo e l'alone vertiginoso degli insetti che
svolazzavano intorno a ogni lampione. Le case di Doro e di Aníbal così poco
distanti che la strada era per loro come un corridoio in più,
qualcosa che li teneva uniti di giorno e di sera, nel prato quando giocavano a
calcio all'ora della siesta o sotto
la luce del lampione all'angolo quando guardavano i
rospi disposti in cerchio per mangiarsi gli insetti ubriachi a forza di girare
intorno alla luce gialla. E l'estate,
sempre, l'estate delle vacanze, la libertà dei giochi, il
tempo tutto per loro, per loro, senza orari né campanelle di entrata in classe,
l'odore dell'estate nell'aria calda dei pomeriggi e delle sere, sulle facce
sudate dopo aver vinto o perso o litigato o corso, dopo aver riso e a
volte pianto ma sempre insieme, sempre liberi, padroni del loro mondo di
aquiloni e palloni e angoli di strada e marciapiedi.
Di Sara gli restavano poche immagini, ma ognuna si stagliava come una vetrata nell'ora del sole più alto, con azzurri e rossi e verdi che fendevano lo spazio fino a fargli male, a volte Aníbal vedeva soprattutto i capelli biondi che le scendevano sulle spalle come una carezza che lui avrebbe voluto sentire sul viso, a volte la pelle bianchissima perché Sara non usciva quasi mai al sole, assorbita com'era dalle faccende di casa, la madre malata e Doro che tornava ogni pomeriggio coi vestiti sporchi, le ginocchia sbucciate, le scarpe piene di fango. Non aveva mai saputo l'età di Sara all'epoca, solamente che era già una signorina, la giovane madre di suo fratello che diventava più bambino quando lei gli parlava, quando gli passava la mano sulla testa e poi lo mandava a comprare qualcosa o chiedeva a tutti e due di non gridare così tanto nel cortile. Aníbal la salutava timido, dandole la mano, e Sara gliela stringeva gentilmente, quasi senza guardarlo ma accettandolo come l'altra metà di Doro che quasi quotidianamente veniva a casa a leggere o a giocare. Alle cinque li chiamava per dargli caffellatte e biscotti, sempre sul tavolinetto del cortile o nel salotto tetro; Aníbal aveva visto solo due o tre volte la madre di Doro, dolcemente dalla sua sedia a rotelle diceva il suo ciao bambini, state attenti alle macchine, anche se c'erano così poche macchine a Bánfield e loro sorridevano sicuri di poterle schivare per strada, della loro invulnerabilità di giocatori di calcio e corridori. Doro non parlava mai di sua madre, che stava quasi sempre a letto o ascoltava la radio in salotto, casa sua erano il cortile e Sara, a volte qualche zio in visita che domandava cos'è che avevano studiato a scuola e regalava cinquanta centesimi ciascuno. E per Aníbal era sempre estate, degli inverni quasi non aveva ricordo, la sua casa diventava una prigione grigia e nebbiosa dove contavano solo i libri, la famiglia intenta nelle proprie cose e le cose piazzate al proprio posto, le galline a cui doveva badare, le malattie con lunghe diete e tè e solo a volte Doro, perché a Doro non piaceva restare tanto in una casa dove non lo lasciavano giocare come nella sua. | << | < | > | >> |Pagina 1292 febbraio 1982
A volte, quando mi prende come un prurito di racconto, quel cauto e
progressivo posizionamento che mi porta a poco a poco e brontolando davanti a
questa Olympia Traveller de Luxe
(di luxe non ha nulla, poveretta, ma in cambio
ha travelleggiato per i profondi sette mari blu
sopportando tutti i colpi diretti e indiretti che
può prendersi una portatile infilata in valigia
tra pantaloni, bottiglie di rum e libri),
così a volte, quando scende la sera e infilo un foglio
bianco nel rullo e accendo una Gitanes e mi do dello stupido,
(perché un racconto, in fondo, perché non aprire un libro di un altro
scrittore o ascoltare uno dei miei dischi?),
ma a volte, quando ormai non posso far altro che cominciare un racconto come vorrei cominciare questo, ecco che allora mi piacerebbe essere Adolfo Bioy Casares. Vorrei essere Bioy perché l'ho sempre ammirato come scrittore e stimato come persona, anche se le nostre rispettive timidezze non ci hanno aiutato a diventare amici, accanto ad altre ragioni di un certo peso, fra le quali un oceano già in precedenza letteralmente disteso fra di noi. Facendo il conto come meglio posso, credo che io e Bioy ci siamo visti solo tre volte in questa vita. La prima è stata a un banchetto della Cámara Argentina del Libro, a cui ho dovuto partecipare perché negli anni Quaranta dirigevo quell'associazione, e lui chissà perché era lì, incontro nel corso del quale ci siamo presentati sopra a un vassoio di ravioli, ci siamo sorrisi con simpatia, e la nostra conversazione si è limitata a quando a un certo punto mi ha chiesto di passargli il sale. La seconda volta Bioy è venuto a casa mia a Parigi e mi ha scattato alcune foto la cui ragion d'essere ora mi sfugge ma non la bella chiacchierata che abbiamo fatto su Conrad, credo. L'ultima volta è stata simmetrica, a Buenos Aires, io sono andato a cena a casa sua e quella sera abbiamo parlato soprattutto di vampiri. Naturalmente in nessuna delle tre occasioni abbiamo parlato di Anabel, ma non è per questo che adesso vorrei essere Bioy, è solo perché mi piacerebbe tanto poter scrivere di Anabel come avrebbe fatto lui se l'avesse conosciuta e se avesse scritto un racconto su di lei. In questo caso Bioy avrebbe parlato di Anabel come io non riuscirò a fare, mostrandola da vicino e a fondo e al tempo stesso mantenendo la distanza, il distacco che decide di mettere (non posso pensare che non sia una decisione) fra il narratore e alcuni dei suoi personaggi. A me sarà impossibile, e non perché io abbia conosciuto Anabel, visto che nemmeno inventando i personaggi riesco a tenere le distanze da loro, anche se a volte mi pare necessario, alla stregua del pittore che si allontana dal cavalletto per abbracciare meglio la totalità dell'immagine e capire dove dare le pennellate definitive. Mi riuscirà impossibile perché sento che Anabel mi invaderà subito come quando l'ho conosciuta a Buenos Aires alla fine degli anni Quaranta, e anche se lei non sarebbe capace di immaginare questo racconto - se è viva, se è ancora in giro, vecchia come me - farà lo stesso tutto il necessario per impedirmi di scriverlo come mi sarebbe piaciuto, cioè un po' come avrebbe saputo scriverlo Bioy se avesse conosciuto Anabel. | << | < | > | >> |Pagina 15219 febbraioA volte però non è così, è qualcosa di molto più sottile. A volte si entra in un sistema di parallele, di simmetrie, e sarà per questo che ci sono momenti e frasi e fatti che si fissano per sempre in una memoria che non ha troppi meriti (la mia senz'altro) perché dimentica un sacco di roba importante. No, non sempre c'è invenzione o copia. Stanotte ho pensato che dovevo continuare a scrivere queste cose su Anabel, che forse mi avrebbero portato al racconto come verità ultima, e di colpo ecco di nuovo la stanza di calle Reconquista, il caldo di febbraio o di marzo, il riojano coi suoi dischi di Alberto Castillo dall'altra parte del corridoio, quel tizio non finiva mai di dire addio alla sua famosa pampa, perfino Anabel cominciava a scocciarsi, e sì che lei per la musica, adióóós pááámpa mííía, e Anabel seduta nuda sul letto che ricordava la sua pampa giù verso Trenque Lauquen. Quanto casino fa quello là per la pampa, Anabel sprezzante accendendosi una sigaretta, che rottura di coglioni per un posto di merda pieno di vacche. Ma Anabel, bambina mia, ti credevo più patriottica. Un posto di merda e pallosissimo, caro mio, se non venivo a Buenos Aires finiva che mi buttavo in un canale. A poco a poco i ricordi a conferma e di colpo, come se avesse bisogno di raccontarmela, la storia del commesso viaggiatore, non aveva quasi neanche cominciato e già sentivo che la sapevo, che me l'avevano già raccontata. La lasciai parlare come aveva bisogno di fare (a volte la bottiglietta, ora il commesso viaggiatore), ma in qualche modo non ero lì con lei, quello che mi stava raccontando mi arrivava da altre voci, altre stanze, con buona pace di Capote, mi arrivava dalla sala da pranzo di un albergo del polveroso Bolívar, quel paesello della pampa dove avevo vissuto per due anni ormai così lontani, da quelle serate con amici e gente di passaggio in cui si parlava di tutto ma soprattutto di donne, di ciò che allora noi ragazzi chiamavamo le pollastre che tanto scarseggiavano nella vita degli scapoli di paese. Certo che mi ricordo di quella sera d'estate, Rosatti il pelato con le chiacchiere dopo cena e il caffè con la grappa si ricordava di cose d'altri tempi, era un uomo che apprezzavamo per l'umorismo e la generosità, lo stesso uomo che, dopo una storiella piuttosto piccante di Flores Díez o di quel fanfarone di Salas, si metteva a raccontare di una donna non più così giovane che lui andava a trovare in un rancho dalle parti di Casbas dove lei viveva di qualche gallina e di una pensione da vedova, crescendo nella miseria una figlia di tredici anni. | << | < | > | >> |Pagina 16026 febbraioScrittori che apprezzo hanno saputo ironizzare amabilmente sul linguaggio di persone come Anabel. Mi divertono molto, è chiaro, ma in fondo queste operazioni della cultura mi sembrano un po' spregevoli, anch'io potrei ripetere tante frasi di Anabel o del portinaio spagnolo, e magari addirittura mi capiterà di farlo se alla fine scriverò il racconto, niente di più facile. A quei tempi però mi dedicavo invece a confrontare mentalmente il modo di parlare di Anabel e quello di Susana, che le metteva a nudo molto più delle mie mani, e rivelava l'aperto e il chiuso in ciascuna di loro, lo stretto e l'ampio, la dimensione delle loro ombre nella vita. Non sentii mai la parola «democrazia» in bocca ad Anabel, che però l'ascoltava e leggeva venti volte al giorno, e al contrario Susana la usava per qualunque motivo e sempre con la stessa comoda coscienza da proprietaria. Nelle cose intime Susana poteva alludere al suo sesso, mentre Anabel diceva la fica o la parpaiola, parola quest'ultima che mi ha sempre affascinato per quello che ha di palpebra e di onda. E così sono già passati più di dieci minuti e non mi decido a dire il seguito (che non è molto e non corrisponde troppo a quello che vagamente speravo di scrivere), e cioè che per tutta la settimana non seppi nulla di Anabel come era prevedibile, dato che doveva essere stata tutto il tempo con William, ma una mattina sul tardi comparve con quel che sembrava una parte dei regali di nylon che le aveva portato William, e una borsetta nuova di pelliccia di non so che dell'Alaska, che in quella stagione faceva venire caldo solo a guardarla. Venne a raccontarmi che William se n'era appena andato, il che non era una notizia per me, e che le aveva portato quella cosa (curiosamente evitava di chiamarla bottiglietta) che era già nelle mani di Marucha.
Ormai non avevo più motivo di agitarmi, ma era
bene fare il preoccupato, chiedere se Marucha era ben
conscia della follia che significava, eccetera, e Anabel
mi spiegò che l'aveva fatta giurare sulla testa della sua
santa madre e sulla Vergine di Lujàn che solamente se
Dolly avesse di nuovo, eccetera.
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