Copertina
Autore Julio Cortàzar
Titolo Fantomas contro i vampiri multinazionali
EdizioneDeriveApprodi, Roma, 2006, narrativa 16 , pag. 128, ill., cop.fle., dim. 13x20x0,9 cm , Isbn 978-88-89969-14-4
OriginaleFantomas contra los vampiros multinacionales. Una utopia realizable narrada por Julio Cortázar.
EdizioneLibros de Excélsior, Città del Messico, 1975
CuratoreEmanuele Pirani
PrefazioneAlessandra Riccio, Gianni Tognoni
TraduttoreEmanuele Pirani
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe narrativa argentina
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Indice

L'esemplarità di Julio Cortàzar              5
Prefazione di Alessandra Riccio

Vanno gli echi in cerca della voce          11
Prefazione di Gianni Tognoni


Fantomas contro i vampiri multinazionali    21


Sentenza del Tribunale Russell II           83

Discorso per l'insediamento
del Tribunale permanente dei popoli         93
Julio Cortàzar

Lettere                                    100
Julio Cortàzar e Lelio Basso

Il taccuino dell'ispettore Gérard          109
Postfazione di Emanuele Pirani



 

 

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Pagina 21

Di come il narratore della nostra affascinante storia uscì dal suo albergo di Bruxelles, delle cose che vide per strada, e di ciò che gli accadde alla stazione ferroviaria.


La riunione di Bruxelles del Tribunale Russell II era finita a mezzogiorno, e il narratore della nostra affascinante storia doveva ritornare a casa sua a Parigi, dove lo attendeva una montagna di lavoro, ragion per cui non aveva troppa voglia di tornare. Questo spiegava una sua certa tendenza a indugiare nei caffè, a guardare le ragazze che passeggiavano nelle piazze, a gironzolare di qua e di là come una mosca, invece di incamminarsi verso la stazione.

Avrebbe avuto tempo in treno per riflettere su ciò che era accaduto in quella dura settimana di lavoro; per il momento gli interessava soltanto chiudere gli occhi del pensiero e dedicarsi a non far nulla, cosa che secondo lui aveva largamente meritato. Gli piaceva vagabondare per una grande città, fermarsi a guardare le vetrine, prendere ogni tanto un caffè o una birra in posti in cui la gente parlava di altre cose e viveva in un altro modo, e soprattutto gli piaceva guardare le ragazze belghe che come tutte le ragazze di questo mondo erano essenzialmente mirabili e ammirevoli. Fu così che il nostro narratore passò lunghe ore lasciandosi andare alla deriva, dandosi al cabotaggio, orzando e gettando l'ancora in diversi luoghi di Bruxelles, finché bruscamente, tra due sorsi di gin e una tirata di sigaretta che si situava esattamente tra i due suddetti sorsi, si rese conto di una cosa curiosa: della presenza inconfondibile di una moltitudine di latinoamericani nei posti più disparati della città.

Ricapitolando (stava per perdere il treno, ma d'altra parte si trovava ormai soltanto a un isolato dalla stazione e con il giusto sprint sarebbe arrivato in tempo), si ricordò dei due dominicani che parlavano animatamente nella piazza principale, del boliviano che spiegava a un suo compatriota come comprare una camicia in un supermercato del centro, degli argentini che pur dubitando della qualità del caffè si animarono a forza di grandi pacche sulle spalle a entrare in un locale da cui forse sarebbero usciti agonizzando. Pensò alle ragazze (colombiane, venezuelane?), il cui accento lo aveva spinto ad avvicinarsi loro il più possibile, per non parlare poi delle minigonne che costituivano un altro eccellente motivo di interesse. Insomma, Bruxelles sembrava largamente colonizzata dal continente latinoamericano, dettaglio che al narratore sembrò strano e bello allo stesso tempo. Pensò che forse una settimana di lavoro al Tribunale, dove lo spagnolo era stata la lingua dominante, lo aveva reso troppo sensibile nei confronti di fenomeni semplicemente turistici; ma allo stesso tempo ebbe l'impressione che non fosse così e che persino l'aria che respirava odorasse di pampa, selva e savana, cosa piuttosto infrequente in una città piena di belgi e di birrerie.

«Esiliati, è chiaro», pensò il narratore. «Non c'è niente di strano né qui né in qualsiasi altro posto». Dal Cile, dall'Uruguay, da Santo Domingo, dal Brasile: esiliati. Dalla Bolivia, dalla Colombia, la lista era lunga e sempre la stessa: esiliati.

Alcuni magari erano venuti per assistere alle sessioni del Tribunale Russell, per portare la propria testimonianza di persecuzione e tortura; altri sicuramente stavano già lì, guadagnandosi la vita come potevano o sopravvivendo in un mondo che non gli era neppure ostile, ma che semplicemente era altro, distante ed estraneo. A Monaco, a Parigi, a Londra era la stessa cosa, le voci latinoamericane, i gesti riconoscibili, i sorrisi o i lunghi, malinconici silenzi. Turismo: la sola parola era un insulto, uno schiaffo. Si distinguevano bene i turisti, col loro modo di vestire e la loro aria di vacanza. Di quelli che aveva appena visto, forse soltanto le due ragazze venezuelane erano turiste; tutti gli altri stavano lì perché erano stati spazzati via dall'odio di lontani despoti, e stavano affrontando il loro destino dall'esito incerto. Gli esiliati. Quel vago profumo di pampa, selva e savana.


Scrollandosi via quella tristezza inutile, il narratore percorse a velocità quasi supersonica la distanza che lo separava dalla stazione. Il viaggio sarebbe stato lungo, pensò quindi di comprare un giornale o una rivista; vide l'edicola multicolore poco prima dei binari, e poiché mancavano ancora sette minuti alla partenza del rapido per Parigi, si lanciò verso la possibile lettura. Non aveva tenuto conto dell'imprevedibile, che si manifestò sottoforma di signora occhialuta, la quale, acquattata nel suo fortino di carta stampata, lo guardò severamente e rimase in attesa.

– Signora, – disse stupefatto il narratore dopo aver dato uri occhiata all'edicola – ma qui vedo solo giornali messicani.

– Eh, cosa vuole, – disse la signora con rassegnazione – certi giorni capita di tutto.

– Ma è impossibile, lei mi sta ingannando e ha nascosto i giornali belgi.

– Moi, monsieur?

– Sì, signora, anche se le ragioni del suo insolito comportamento mi appaiono alquanto inconcepibili.

– Ah, merde alors, – disse la vecchia – non venga qui da me a reclamare, io vendo quello che il distributore mi mette sui ripiani, ho già abbastanza pensieri con le vene varicose e con mio marito che si è preso la radioattività per colpa dei merluzzi contaminati, mi dica lei se questa è vita.

– Ma allora, signora, se io da qui a Parigi voglio tenermi al corrente del corso della storia, devo sciropparmi per forza un giornale azteco?

– Guardi, signore, – osservò inaspettatamente la vecchia – la storia è come una bistecca con le patate fritte, in qualsiasi posto la ordini ha sempre lo stesso sapore.

– D'accordo, ma...

– Eppure, vai a sapere, – disse la signora – perché in effetti se uno ci pensa bene, questo fatto dei giornali messicani sembra proprio una presa in giro, non le pare?

– Meno male che lo ammette, – si rallegrò il narratore – che diavolo, il Messico non sta a due passi dal Belgio, e...

– Ma certo, – disse la signora – quei paesi là stanno dalle parti dell'Asia, si sa. Secondo lei anche in Messico il merluzzo è contaminato?

– Io il merluzzo non so quasi cosa sia, – confessò il narratore – cosa vuole, il mio menù è invaso dal manzo.

– È un peccato – disse la signora – perché gratinato e con un pizzico di prezzemolo è veramente ottimo, senza contare che di notte uno spegne la luce e col fatto che quello è fosforescente vedesse che bello a centro tavola; il medico dirà quello che vuole ma la radioattività ha il suo fascino.

– E io questa rivista gliela devo pagare in aquile messicane, signora?

– Ma per niente proprio, il distributore non accetta uccelli, qui siamo in Belgio e lei per questa rivista mi sgancia due franchi.

– Signora, mi parte il treno – disse agitato il narratore.

– È colpa sua che non ha spiccioli. Due, tre, quattro, cinque, e questa da cinque e un'altra da cinque fanno quindici, aspetti che non ho più monete, allora le do uno, due, tre, quattro e cinque, in tutto venti, merci beaucoup.

– Che binario sarà, Dio mio.

– Il quattro, signore, tutti i treni per Parigi partono dal quattro, tranne alcuni che partono dall'otto, e adesso che mi ricordo ce n'è un altro di sera che...


Di come il narratore riuscì a prendere il treno in extremis (e a partire da qui finiscono i titoli dei capitoli, poiché iniziano a comparire numerose e belle immagini allo scopo di suddividere e allietare la lettura di questa affascinante storia).

Procuratosi da leggere nel modo che è stato appena spiegato, il narratore s'inerpicò sull'espresso per Parigi che stava già cominciando a prendere velocità e dopo aver attraversato quattordici vagoni strabordanti di turisti, uomini d'affari e di un tour completo di giapponesi, trovò uno scompartimento da sei, dove già erano in cinque a sperare di avere, con un po' di fortuna, dello spazio in più. E invece plok, il narratore mise la sua valigia nella rete e si sedette dalla parte del corridoio, non senza notare che di fronte a lui era seduta una bionda che cominciava con un paio di zatteroni con una piattaforma di lancio stratosferico, e continuava per varie tappe fino ad arrivare a una capsula spaziale platinata, già avvolta nel fumo che precede lo zero finale a Cape Canaveral.

Ossia, questi tipi erano sistemati così:

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