Copertina
Autore Julio Cortázar
Titolo Fine del gioco
EdizioneEinaudi, Torino, 2003, Tascabili Classici moderni 1151 , pag. 156, cop.fle., dim. 120x195x10 mm , Isbn 978-88-06-16643-4
OriginaleFinal del juego [1954]
TraduttoreFlaviarosa Nicoletti Rossini, Ernesto Franco
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe narrativa argentina
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Indice


    Parte prima

  5 Continuità dei parchi
  7 Non si dia colpa a nessuno
 12 Il fiume
 15 I veleni
 30 La porta condannata
 39 Le Menadi

    Parte seconda

 55 L'idolo delle Cicladi
 64 Un fiore giallo
 72 Dopocena
 80 La banda
 86 Gli amici
 88 Il movente
 96 Torito

    Parte terza

107 Racconto con un fondo d'acqua
114 Dopo pranzo
124 Axolotl
130 La notte supina
139 Fine del gioco

 

 

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Pagina 5

Continuità dei parchi


Aveva incominciato a leggere il romanzo alcuni giorni prima. Lo abbandonò per affari urgenti, tornò ad aprirlo mentre rientrava in treno al podere; si lasciava interessare lentamente dalla trama, dal disegno dei personaggi. Quella sera, dopo aver scritto una lettera al suo procuratore e aver discusso con il fattore una questione di mezzadria, tornò al libro nella tranquillità dello studio che si apriva sul parco di roveri. Sdraiato nella poltrona preferita, dando le spalle alla porta che lo avrebbe infastidito come una irritante possibilità d'intrusioni, lasciò che la mano sinistra carezzasse piú volte il velluto verde e si mise a leggere gli ultimi capitoli. La sua memoria riteneva senza sforzo il nome e le immagini dei protagonisti; l'illusione romanzesca lo conquistò quasi subito. Godeva del piacere quasi perverso di staccarsi di riga in riga da ciò che lo attorniava, e di sentire al tempo stesso che la testa riposava comodamente sul velluto dell'alto schienale, che le sigarette erano sempre a portata di mano, che al di là delle vetrate danzava l'aria del crepuscolo sotto i roveri. Di parola in parola, assorto nel sordido dilemma degli eroi, lasciandosi andare verso le immagini che si componevano e acquistavano colore e movimento, fu testimone dell'ultimo incontro nella capanna del bosco. Prima entrava la donna, guardinga; adesso arrivava l'amante, la faccia ferita dalle sferzate di un ramo. Ammirevolmente lei tamponava il sangue con i suoi baci, ma lui rifiutava le carezze, non era venuto per ripetere le cerimonie di una passione segreta, protetta da un mondo di foglie secche e di sentieri furtivi. Il pugnale si intiepidiva contro il suo petto, e sotto pulsava acquattata la libertà. Un dialogo ansioso scorreva per le pagine come un ruscello di serpi, e si sentiva che tutto era già deciso da sempre. Persino quelle carezze che avviluppavano il corpo dell'amante quasi volessero trattenerlo e dissuaderlo, disegnavano abominevolmente la figura di un altro corpo che era necessario distruggere. Niente era stato dimenticato: alibi, circostanze, possibili errori. A partire da quell'ora, a ciascun istante era minuziosamente fissato il suo impiego. Il duplice spietato riepilogo si interrompeva appena per permettere che una mano carezzasse una gota. Cominciava a scendere la notte.

Senza neppure piú guardarsi, legati strettamente al compito che li aspettava, si separarono sulla porta della capanna. Lei doveva proseguire per il sentiero che andava verso nord. Dal sentiero opposto lui si voltò un istante per vederla correre con i capelli sciolti. Corse anche lui, proteggendosi contro gli alberi e le siepi finché distinse nella bruma malva del crepuscolo il viale che conduceva alla casa. I cani non dovevano latrare, e non latrarono. Il fattore non doveva esserci a quell'ora, e non c'era. Salí i tre scalini del porticato ed entrò. Dal sangue che gli galoppava nelle orecchie gli giungevano le parole della donna: prima una sala turchina, poi una galleria, una scala con tappeto. Al piano superiore, due porte. Nessuno nella prima camera, nessuno nella seconda. La porta del salotto, e allora il pugnale in mano, la luce delle vetrate, l'alto schienale di una poltrona di velluto verde, la testa dell'uomo nella poltrona che sta leggendo un romanzo.

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Pagina 88

Il movente


Non mi vorrete credere, è come al cinematografo, le cose sono cosí come vengono e tu le devi accettare, se non ti va puoi anche andartene ma il denaro nessuno te lo restituisce. Come se niente fosse sono già vent'anni e la faccenda è piú che prescritta, cosí ora la racconto e chi pensa che le spari grosse può andare a farsi fottere.

Montes lo uccisero nell'angiporto una notte di agosto. Magari era anche vero che Montes aveva mancato di rispetto a una donna, e che l'uomo gliel'aveva fatta pagare con gli interessi. Quello che so io è che Montes l'hanno ucciso da dietro, con un colpo alla testa, e questo non si perdona. Montes e io eravamo culo e camicia, sempre insieme alla bisca e al caffè del negro Padilla, ma voi non vi ricorderete del negro. Anche lui lo uccisero, un giorno se volete ve lo racconto.

Il fatto è che quando mi avvisarono ormai Montes aveva reso l'anima e per un pelo sono arrivato a vedere come la sorella gli si buttava sopra e dava di matto. Io lo guardai per un po' Montes, che aveva gli occhi aperti, e gli giurai che l'altro non se la sarebbe cavata. Quella notte stessa parlai con Barros e qui è dove il racconto vi sembrerà una sparata. La questione è che Barros era stato il primo ad arrivare quando si era sentito il colpo, e aveva trovato Montes che boccheggiava vicino a un albero del paradiso. Barros, che era uno svelto, aveva fatto l'impossibile perche gli dicesse chi era stato. Montes voleva parlare ma con una palla nella testa non deve essere per niente facile, e cosí Barros non gli aveva potuto cavare granché. Ad ogni modo Montes riuscí a dire, guardate che cos'è il delirio di un moribondo, qualcosa come «quello dal braccio azzurro», e poi aveva detto una parola che doveva essere «tatuaggio», e da lí cavammo che il nostro bello era un marinaio e tante grazie. Ma vi rendete conto, con tanto facile che era dire López o Fernàndez, ma con una palla piantata nella zucca sfido chiunque. Magari Montes non sapeva come si chiamava l'altro, i tatuaggi si vedono ma un nome bisogna farselo dire e in quei casi è sempre falso.

Ora riderete quando vi dico che otto giorni dopo Barros e io localizzammo il tipo, mentre la benemerita batteva l'aria al porto e da tutte le parti. Noi avevamo i nostri metodi, e non vi stancherò con i dettagli. Ma non è di questo che riderete, riderete che il nostro soffia non riuscí a darci i connotati del tipo, in cambio ci avvisò che se la filava su una nave francese e che non partiva da marinaio, partiva da passeggero e figuratevi il lusso. Da lí cavammo che il nostro bello si era ritirato dalla professione, ma approfittava delle sue conoscenze per sparire. L'unica cosa che sapevamo era che viaggiava in terza e che era argentino. Niente di strano, uno di fuori non avrebbe fregato Montes, ma la cosa piú strana di tutta la faccenda è che il nostro soffia non riuscí a procurarci il nome del nostro bello. O meglio, gliene diedero uno che poi risultò che non figurava fra quelli dei passeggeri. La gente a volte ha paura, caro mio, e magari il tipo che per trenta fogli nazionali aveva passato il dato al nostro soffia, gli aveva cambiato il nome per curarsi la salute. O va a sapere se il nostro bello all'ultimo minuto non si era procurato degli altri documenti. La cosa è che ora continua il cinematografo, perché io e Barros abbiamo parlato per tutta una notte, e la mattina io mi sono presentato al Dipartimento e ho iniziato con tutte le carte. Allora non si faceva tanta fatica per avere il passaporto. Bene, risparmiandovi i dettagli, la cosa è che la commissione mi parancò il biglietto, e una sera alle dieci quest'uomo era a bordo, destinazione Marsiglia, che è uno sbarco dei franciosi. Ho già capito che vi siete rotti ma pazienza. Se volete non continuo. E va bene, allora cacciate altra birra e fate conto di leggere il conte di Montecristo. Ve l'ho già detto alle prime che questi casi non succedono a tutti, a parte che erano altri tempi.

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Pagina 124

Axolotl


Ci fu un'epoca in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli nell'acquario del Jardin des Plantes, e mi fermavo ore intere a guardarli, osservando la loro immobilità, i loro oscuri movimenti. Ora sono un axolotl.

Il caso mi condusse da loro un mattino di primavera in cui Parigi apriva la sua coda di pavone dopo il lento inverno. Scesi lungo il Boulevard de Port-Royal, svoltai per Saint-Marcel e l'Hòpital, vidi il verde fra tanto grigio, e mi ricordai dei leoni. Ero amico dei leoni e delle pantere, ma non ero mai entrato nell'umido e oscuro edificio degli acquari. Lasciai la bicicletta appoggiata alla cancellata e andai prima a vedere i tulipani. I leoni erano brutti e tristi, e la mia pantera dormiva. Decisi per gli acquari, e dopo aver dato un'occhiata ad alcuni pesci per niente interessanti m'imbattei all'improvviso negli axolotl. Rimasi un'ora a osservarli, poi uscii incapace di pensare ad altro.

Nella biblioteca Sainte-Geneviève consultai un dizionario e seppi che gli axolotl sono forme larvali, provviste di branchie, una specie di batraci del genere amblistoma. Che fossero messicani me lo avevano fatto intendere loro stessi, i loro piccoli e rosei volti aztechi e il cartello sopra la vasca. Lessi che ne sono stati trovati alcuni esemplari in Africa capaci di vivere sulla terra durante i periodi di siccità, e poi continuare la loro vita in acqua quando giunge la stagione delle piogge. Trovai il loro nome spagnolo, ajolote, l'indicazione che sono commestibili e che il loro olio era usato (si direbbe quindi che non si usa piú) come quello del fegato di merluzzo.

Non volli consultare altre opere scientifiche, ma il giorno seguente tornai al Jardin des Plantes. Cominciai ad andarvi tutte le mattine, qualche volta mattino e pomeriggio. Il guardiano degli acquari sorrideva perplesso nel ritirare il mio biglietto. Io mi appoggiavo alla sbarra di ferro che corre lungo le vasche e stavo là a guardarli. Non c'è nulla di strano in questo, perché fin dal primo momento compresi che eravamo legati, che qualcosa d'infinitamente perduto e distante continuava nonostante tutto a tenerci uniti. Mi era bastato fermarmi quella prima mattina davanti al vetro della vasca dove alcune bolle d'aria scivolavano nell'acqua. Gli axolotl si ammonticchiavano sul meschino e stretto (solo io posso sapere quanto meschino e stretto) pavimento di pietra e muschio dell'acquario. Erano nove esemplari, e quasi tutti poggiavano la testa contro il vetro guardando con i loro occhi d'oro chi si avvicinava. Turbato, quasi vergognoso, provai un sentimento d'impudicizia nell'affacciarmi su quelle figure silenziose e immobili ammucchiate in fondo all'acquario. Mentalmente ne isolai una, a destra e un po' discosta dalle altre, per studiarla meglio. Vidi un corpicino roseo e come traslucido (pensai alle statuine cinesi di cristallo lattiginoso), simile a una piccola lucertola di quindici centimetri che termini in una coda di pesce di una delicatezza straordinaria, la parte piú sensibile del nostro corpo. Lungo la schiena aveva un'aletta trasparente che si fondeva con la coda, ma ciò che mi ossessionò furono le zampe, di una finezza straordinaria, che terminavano in dita minute e in unghie minuziosamente umane. E fu allora che scoprii i suoi occhi, il suo volto. Un volto inespressivo, senza altro ornamento che gli occhi, due orifizi come punte di spillo, interamente d'oro trasparente, privi in modo assoluto di vita, ma che guardavano e si lasciavano penetrare dal mio sguardo che pareva attraversare il punto aureo e perdersi in un diafano mistero interiore. Un sottilissimo alone nero circondava l'occhio e lo iscriveva nella carne rosa, nella pietra rosa della testa vagamente triangolare, ma con lati curvi e irregolari che la rendevano in tutto simile a una statuina corrosa dal tempo. La bocca era nascosta dal piano triangolare del volto, solo di profilo s'indovinava la sua grandezza considerevole; di fronte, una sottile fenditura incrinava appena la pietra senza vita. Sui due lati della testa, dove avrebbero dovuto esserci le orecchie, gli crescevano tre rametti rossi come di corallo, una escrescenza vegetale, le branchie, suppongo. Ed erano l'unica cosa viva in lui, ogni dieci o quindici secondi i rametti si drizzavano rigidi e si riabbassavano. Qualche volta una zampa si muoveva impercettibilmente, io vedevo le piccole dita posarsi con leggerezza sul muschio. È che a noi non piace muoverci molto, l'acquario è cosí stretto; appena avanziamo un tantino ci urtiamo l'un l'altro con la coda o con la testa; nascono difficoltà, liti, fatica. Si sente meno il tempo se stiamo quieti.

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