Copertina
Autore Julio Cortázar
Titolo Il giro del giorno in ottanta mondi
EdizioneAlet, Padova, 2006, diorami , pag. 304, ill., cop.fle., dim. 140x209x19 mm , Isbn 978-88-7520-016-9
OriginaleLa vuelta al día en ochenta mundos [1967]
TraduttoreEleonora Mogavero
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe narrativa argentina , critica letteraria , critica d'arte
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Indice


               Il giro del giorno in ottanta mondi    11

                                 Estate in collina    21
                                  Julios in azione    29
           Del sentimento di non esserci del tutto    33
                              Tema per san Giorgio    43

                         Grave problema argentino:
             caro amico, egregio o il nome e basta    47

                Sulla serietà delle veglie funebri    49
                     Per un'antropologia tascabile    59
                                  Cado e mi rialzo    63

         The smiler with the knife under the cloak    65

                     Sul sentimento del fantastico    67
 "Io potrei ballare quella poltrona" disse Isadora    73
                        Un Julio parla di un altro    79
Aumenta la criminalità infantile negli Stati Uniti
                (secondo quanto afferma la stampa)    83
        Sul modo di andare da Atene a Capo Sounion    85
                               Dialogo con i maori    89
                             Incontri intempestivi    95
                                    La nobile arte    99
                                          Clifford   103
                      Notti nei Ministeri d'Europa   105
                       Di un'altra macchina celibe   111
                                            Gardel   121
                      Non c'è peggior sordo di chi   125
                   Giro del giorno nel terzo mondo   139
                 Bisogna essere proprio idioti per   143
            Due storie zoologiche e un'altra quasi   149
         L'uomo si è stancato di cambiare la terra   153

                            What Happens, Minerva?   157

                       Louis, grandissimo cronopio   161
               Il giro del piano di Thelonius Monk   169
                            Con legittimo orgoglio   173
                        Per arrivare a Lezama Lima   181
                           Il rogo su cui arde una   215
                                Relazioni sospette   217
                            La stagione della mano   231

                               Tombeau de Mallarmé
        Le noir roc courroucé que la bise le roule   237

                           La carezza più profonda   239

                                         Rara avis   249

      Sul gesto che consiste nel mettersi l'indice
sulla tempia e girarlo come per avvitare e svitare   251
                          Le ragioni della collera   271
                          Malinconia delle valigie   277

                               Take it or leave it   279

                  Viaggio in un paese di cronopios   283
                                Morelliana, sempre   289
                            Casella del camaleonte   291

                               Nota del traduttore   301



 

 

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Pagina 49

Sulla serietà delle veglie funebri



Una volta mentre tornavo in Francia a bordo di una delle lussuose barchette della Flotta mercantile del nostro paese (conosco la Río Bermejo e la Río Belgrano, mi ricordo del capitano Locatelli esperto di begonie, del cameriere Francisco che era un galiziano come ormai non ce ne sono più, e di un barman alla cui scuola imparai a preparare il Corazón de Indio, cocktail che, come indica il nome, è popolarissimo in Belgio), ebbi la fortuna di condividere tre settimane di bel tempo con il dottor Alejandro Gancedo, sua moglie e i loro tre figli, uno più cronopio dell'altro. Presto si scoprì che Gancedo apparteneva alla razza di Mansilla e di Eduardo Wilde, il perfetto causeur che davanti a un bicchiere e a un avana si trasforma nel proprio capolavoro e che, come l'altro Wilde, mette il genio al servizio della vita sebbene nei suoi libri non manchi il talento.

Di molti racconti di Gancedo conservo un ricordo che è prova dell'efficacia con cui erano narrati (ogni racconto è il modo in cui lo si racconta, la consapevolezza che il contenuto e la forma non sono due cose diverse crea il bravo narratore orale, che non si differenzia così dal bravo scrittore sebbene i pregiudizi e gli editori favoriscano quest'ultimo). Fra quei racconti scelgo, sapendo di non renderla bene, la storia di come certi conoscenti di Gancedo, che chiamerò prudentemente Lucas Solano e Copitas, andarono a una veglia funebre e di quello che successe.

A Solano toccò porgere le condoglianze a nome dei colleghi d'ufficio del defunto, compito che gli pesava tanto da cercare appoggio morale al bancone di un bar di calle Talcahuano dove già si trovava Copitas a riprova dell'esattezza del suo soprannome. Alla sesta grappa Copitas acconsentì ad accompagnare Solano per tirarlo su di morale, e i due si presentarono alla veglia con un alto tasso di emozione alcolica. Toccò a Copitas entrare per primo nella camera ardente e, pur non avendo mai visto il morto in vita sua, si avvicinò alla bara, la contemplò in raccoglimento, quindi girandosi verso Solano disse con quel tono che forse suscitano e sentono solo i defunti: «È identico».

A quel punto Solano ebbe un tale attacco di ilarità che riuscì a dissimularlo soltanto abbracciando forte Copitas, il quale a sua volta rideva con le lacrime, e così rimasero per tre minuti, con le spalle scosse da terribili sussulti, finché uno dei fratelli del morto che conosceva vagamente Solano si avvicinò loro per consolarli.

«Credetemi, signori, non avrei mai immaginato che in ufficio volessero tanto bene a Pedro – disse, – visto che non ci andava quasi mai...»


Canti di prigionia

Con il permesso di Dallapiccola, questo è un altro racconto di Gancedo in cui compare Lucas Solano. Ai tempi di una dittatura militare (vale a dire quando preferite), Solano e un gruppo di amici si riunivano in un cantiere a bere vino e chiacchierare fino all'alba. Non so perché si vedessero lì, ma so che quella sera la polizia fece una di quelle retate in cui cadono pesci di ogni tipo, anche se l'unico obiettivo era la cattura da una parte dei comunisti e dall'altra dei nazionalisti cattolici, che misteriosamente convergevano nel tenere sveglio il colonnello di turno. Nella vicenda si trovarono coinvolti Solano e la sua combriccola, che erano estranei a qualsiasi militanza politica, e finirono tutti nel cortile di un commissariato per la cosiddetta identificazione.

«I comunisti si misero subito tutti da una parte – avrebbe poi raccontato Solano a Gancedo – e i cattolici dall'altra, per cui noi rimanemmo in mezzo. Siccome fin dall'inizio si erano sparse voci di bastonate e scosse elettriche, i comunisti si misero a cantare l'Internazionale. Appena li sentirono, i cattolici intonarono Mira il tuo popolo o bella Signora.»

«E voi che cosa cantavate?» domandò Gancedo.

«Noi? Be', noi cantavamo Percanta que me amuraste...»

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Pagina 59

Per un'antropologia tascabile



Tutto quello che vede lo vede morbido


Conosco un tizio che non fa che ammorbidire le cose, uno che tutto quello che vede lo vede morbido, lo ammorbidisce solo con un'occhiata e non con uno sguardo, perché lui più che guardare vede, e allora va in giro a vedere cose e sono tutte morbidissime e lui è felice perché le cose dure non gli piacciono affatto.

Ci fu un'epoca in cui magari vedeva duro, forse perché era ancora capace di guardare, e chi guarda vede due volte, vede quello che sta vedendo e inoltre è quello che sta vedendo o perlomeno potrebbe esserlo o vorrebbe esserlo o non esserlo, tutti modi estremamente filosofici ed esistenziali di situarsi e di situare il mondo. Ma un giorno, intorno ai vent'anni, questo tizio cominciò a non guardare più, perché in realtà aveva la pelle delicatina e le ultime volte che aveva voluto guardare il mondo in faccia, la visione gli aveva tagliato la pelle in due o tre punti, sicché il mio amico disse "accidenti, non è possibile", e una mattina cominciò soltanto a vedere, scrupolosamente a vedere e basta, e com'è ovvio da quel momento tutto quello che vedeva lo vedeva morbido, lo ammorbidiva solo a vederlo, e lui era felice perché le cose dure non gli piacevano affatto.

Un professore di Bahía Blanca definì questa visione "banalizzante", aggettivo molto azzeccato per essere di Bahía Blanca; il mio amico, però, non solo era tutto soddisfatto, ma vedendo il professore lo vide naturalmente morbidissimo, lo invitò a bere un cocktail a casa sua, gli presentò sua sorella e sua zia, e l'incontro si svolse in un clima di grande morbidezza.

Io un po' mi affliggo perché quando il mio amico mi vede sento che divento tutto morbido, e pur sapendo che non si tratta di me ma della mia immagine nel mio amico, come direbbe il professore di Bahía Bianca, mi affliggo lo stesso perché a nessuno fa piacere essere visto come un budino di semola e, di conseguenza, essere invitato al cinema dove danno un film di cow-boy o stare a sentire per un paio d'ore il racconto di quanto sono carini i tappeti dell'ambasciata del Madagascar.

Che cosa fare con il mio amico? Niente, è chiaro. In ogni caso vederlo, ma mai guardarlo; come potremmo, mi domando, guardarlo senza la più terribile minaccia di dissoluzione? Chi vede soltanto, deve essere visto soltanto; morale malinconica e prudente che, temo, va oltre le leggi dell'ottica.


Teoria del buco appiccicoso


Si chiama per esempio Ramón, e porta il nome appiccicato come tutto il resto, quello che la gente vede di lui e quello che lui vede di se stesso. Pochi sanno che in realtà Ramón è un buco appiccicoso, a nessuno risulta facile immaginare un simile oggetto. Fino ai quindici anni non ci fu nulla, ovvero c'era soltanto un buco circondato da amore materno e maglioni e tavole pitagoriche e partite di calcio. Poi una mattina al risveglio il buco ebbe, cosa di certo rara, una specie di intravisione di sé, cadde in se stesso come dice il professore di Bahía Blanca citando quello di Friburgo, e si rese conto che bisognava fare qualcosa per non scoppiare come una bolla di sapone. Attraverso un atto che continua ad avere i suoi meriti, il buco divenne appiccicoso sul bordo esterno, la bolla di sapone prese prima un po' di peluria dall'aria, poi l'elegante abitudine di fumare tabacco inglese in un luogo dove gli altri fumavano quello trinciato, e il nome di Ramón, che fino a quel momento aveva fluttuato perché era come un sinonimo del buco, cominciò ad appiccicarglisi fermamente, si circondò di una giacca di tweed, Ramón si vestì in modo sportivo e comprò gadget per risolvere i problemi di igiene, cucina e riscaldamento, divenne un'autorità in quanto a marche di schiuma da barba, alla migliore benzina per le macchine svedesi, alla giusta sensibilità delle pellicole fotografiche in un giorno di nebbia, si abbonò a "Time" e a "Life", si fece un'idea su Picasso e un'altra sui giradischi, sulle spiagge estive e sull'alimentazione, e da quel momento cominciò a fare carriera, vice capo, capo e gran capo, un esperto nelle più diverse questioni, con una voce sonora dalla quale pochi intuiscono che la sonorità proviene dal buco, che il buco parla mentre Ramón dà delicati colpetti alla sua pipa di erica comprata a Londra perché non ci sono altre pipe paragonabili, te lo dice Ramón.

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Pagina 67

Sul sentimento del fantastico



Stamattina Teodoro W. Adorno ha fatto una cosa da gatto: nel bel mezzo di un appassionato discorso, metà geremiade e metà insistente strofinamento ai miei pantaloni, è rimasto immobile e rigido a guardare fisso un punto dell'aria in cui per me non c'era nulla da vedere fino alla parete dove è appesa la gabbia del vescovo di Evreux, che mai ha suscitato l'interesse di Teodoro. Qualunque signora inglese avrebbe detto che il gatto stava guardando un fantasma mattutino, i più autentici e comprovabili, e che il passaggio dalla rigidità iniziale a un lento movimento della testa da sinistra a destra, conclusosi nella linea di visione della porta, dimostrava ampiamente che il fantasma se ne era appena andato, con ogni probabilità infastidito da quell'avvistamento implacabile.

Potrà sembrare strano, ma il sentimento del fantastico in me non è innato come in altre persone che poi non scrivono racconti fantastici; da bambino ero più sensibile al meraviglioso che al fantastico (per le diverse accezioni di questi termini, sempre mal utilizzati, si può consultare con profitto Roger Caillois), e a parte i racconti di fate, come il resto della mia famiglia credevo che la realtà esterna si presentasse tutte le mattine con la stessa puntualità e le stesse rubriche fisse della "Prensa". L'evidenza che ogni treno dovesse essere trascinato da una locomotiva era una certezza alla quale frequenti viaggi da Banfield a Buenos Aires offrivano una conferma rassicurante, e per questo la mattina in cui per la prima volta vidi entrare in stazione un treno elettrico che sembrava fare a meno della locomotiva scoppiai a piangere con una tale veemenza che, secondo mia zia Enriqueta, ci volle più di un quarto di chilo di gelato al limone per riportarmi al silenzio. (Del mio abominevole realismo di quel periodo dà un'idea complementare il fatto che, passeggiando con mia zia, trovassi spesso monete per strada, ma soprattutto l'abilità con cui, dopo averle rubate a casa, le facevo cadere mentre mia zia guardava una vetrina, per poi precipitarmi a raccoglierle ed esercitare l'immediato diritto di comprarmi le caramelle. Alla zia invece il fantastico doveva essere molto familiare, visto che non trovava mai insolita quella ripetizione un po' troppo frequente e condivideva perfino l'eccitazione del ritrovamento e qualche caramella.)

In un altro punto ho manifestato il mio stupore perché a un compagno era sembrata fantastica la storia di Wilhelm Storitz che io avevo letto con la più assoluta sospensione di incredulità. Capisco che compivo un'operazione inversa e piuttosto ardua: rinchiudere il fantastico nel reale, realizzarlo. Il prestigio di ogni libro mi facilitava il compito: come dubitare di Jules Verne? Citando Nâser-e Khosrow, nato in Persia nell'XI secolo, sentivo che un libro sebbene abbia un solo dorso, possiede cento volti e che in un modo o nell'altro era necessario estrarre quei volti dal loro forziere, introdurli nella mia condizione personale, nella stanzetta del soppalco, nei sogni paurosi, nelle fantasticherie sotto la chioma di un albero all'ora della siesta. Credo di non aver mai visto o sentito direttamente il fantastico nella mia infanzia; parole, frasi, racconti, biblioteche l'hanno lasciato filtrare a poco poco nella vita esteriore attraverso un atto di volontà, una scelta. Mi indignò che il mio amico rifiutasse il caso di Wilhelm Storitz; se qualcuno aveva scritto su un uomo invisibile, non bastava questo a rendere la sua esistenza inconfutabilmente possibile? In fondo, il giorno in cui scrissi il mio primo racconto fantastico non feci altro che intervenire di persona in un'operazione che fino a quel momento era stata vicaria; un Julio rimpiazzò l'altro con una sensibile perdita per entrambi.


Quel mondo che è questo


In una delle sue Illuminazioni, Rimbaud mostra il giovane ancora sottomesso "alla tentazione d'Antonio", preda dei "tic d'orgoglio puerile, l'accasciamento e il terrore". Da quell'assoggettamento alla contingenza usciremo attraverso la volontà di cambiare il mondo. "Ma ti metterai a questo lavoro" dice e si dice Rimbaud. "Tutte le possibilità armoniche e architettoniche si smuoveranno intorno al tuo seggio." La vera alchimia risiede in questa formula: la tua memoria, i tuoi sensi, non saranno altro che alimento al tuo impulso creatore. E il mondo, quando tu uscirai, che sarà divenuto? A ogni modo, nessuna delle apparenze attuali.

Se il mondo non avrà più niente a che vedere con le apparenze attuali, l'impulso creatore di cui parla il poeta avrà trasformato le funzioni pragmatiche della memoria e dei sensi; tutta l' ars combinatoria, l'apprensione delle relazioni soggiacenti, il sentimento che il rovescio smentisce, moltiplica, annulla il dritto, sono modalità naturali di chi vive per aspettare l'inatteso. L'estrema familiarità con il fantastico va tuttavia ancora oltre; in un modo o nell'altro abbiamo già accolto ciò che non è ancora arrivato, la porta lascia entrare un visitatore che verrà domani o è venuto ieri. L'ordine sarà sempre aperto, non tenderemo mai a una conclusione perché niente si conclude e niente inizia in un sistema di cui si posseggono soltanto coordinate immediate. Certe volte ho potuto temere che il funzionamento del fantastico fosse ancora più rigido della casualità fisica; non capivo che mi trovavo davanti ad applicazioni particolari del sistema, che per la loro forza eccezionale davano l'impressione della fatalità, di un calvinismo del soprannaturale. Poi a poco a poco ho visto che quelle istanze schiaccianti del fantastico si riverberavano su virtualità praticamente inconcepibili; la pratica aiuta, lo studio dei cosiddetti casi va ampliando le sponde del biliardo, le pedine degli scacchi, fino a quel limite personale oltre il quale avranno accesso solo altri poteri diversi dai nostri. Non c'è un fantastico chiuso, perché siamo riusciti a conoscerne sempre soltanto una parte e per questo lo consideriamo fantastico. Avrete già indovinato che come sempre le parole servono a tappare buchi.

Un esempio del fantastico circoscritto e fatale ci è offerto da un racconto di W.F. Harvey. Il narratore si è messo a disegnare per distrarsi dal caldo di una giornata di agosto: quando si rende conto di quello che ha fatto, ha davanti a sé una scena di tribunale: il giudice ha appena pronunciato una sentenza di morte e il reo, un uomo grosso e calvo, lo guarda con un'espressione più di sgomento che di orrore. Infilatosi il disegno in tasca, il narratore esce di casa e comincia a vagare finché, stanco, si ferma davanti alla porta del cortile di uno scalpellino. Senza sapere bene perché, si dirige verso l'uomo che sta intagliando una lapide: è lo stesso di cui, senza conoscerlo, ha fatto il ritratto due ore prima. L'uomo lo saluta cordialmente e gli mostra una lapide appena terminata, nella quale il narratore scopre il proprio nome, la data esatta della propria nascita e quella della morte: quello stesso giorno. Incredulo e terrorizzato, viene a sapere che la lapide è destinata a un'esposizione e che l'artigiano vi ha inciso un nome e una data per lui immaginari.

Siccome fa sempre più caldo, entrano in casa. Il narratore mostra il suo disegno, e i due uomini capiscono che la doppia coincidenza va oltre ogni spiegazione e che l'assurdo la rende orribile. Lo scalpellino propone al narratore di non muoversi da casa sua fino a dopo mezzanotte, per evitare ogni possibilità di incidente. Si sistemano in una stanza solitaria e lo scalpellino si distrae affilando il suo strumento mentre il narratore scrive la storia di quanto è accaduto. Sono le undici; un'altra ora e il pericolo sarà passato. Il caldo aumenta; come dice la frase finale del racconto, "è un caldo che può far impazzire chiunque".

Lo schema ammirevolmente simmetrico del racconto e la fatalità della sua conclusione non devono far dimenticare che le due vittime hanno conosciuto soltanto una maglia della trama che le fa incontrare per distruggerle; quello che è davvero fantastico non sta tanto nelle strette circostanze narrate, quanto nella risonanza della loro pulsazione, del battito impressionante di un cuore estraneo al nostro, di un ordine che può usarci in qualunque momento per uno dei suoi mosaici, strappandoci dalla routine per metterci in mano una matita o uno scalpello. Quando il fantastico viene a farmi visita (a volte il visitatore sono io e i miei racconti sono nati da vent'anni di buona educazione reciproca) mi ricordo sempre dell'ammirevole passo di Victor Hugo: "Tutti sanno che cosa sia il centro velico di una nave; luogo di convergenza, punto di intersezione misterioso perfino per il costruttore dell'imbarcazione, in cui si sommano le forze disperse in tutta la velatura spiegata". Sono convinto che stamattina Teodoro stesse guardando un centro velico nell'aria. Non è difficile trovarli e perfino provocarli, ma c'è una condizione indispensabile: farsi un'idea molto particolare delle eterogeneità ammissibili nella convergenza, non temere l'incontro fortuito (che non sarà tale) di un ombrello con una macchina da cucire. Il fantastico forza una crosta dell'apparenza, e per questo ricorda il centro velico; c'è qualcosa che si adopera per scardinarci. Ho sempre saputo che le grosse sorprese ci aspettano laddove abbiamo finalmente imparato a non sorprenderci di nulla, nel senso che non ci scandalizziamo davanti alle rotture dell'ordine. I soli a credere davvero ai fantasmi sono gli stessi fantasmi, come dimostra il famoso dialogo nella galleria dei quadri. Se arrivassimo a tanta naturalezza in ogni ordine del fantastico, Teodoro non sarebbe più l'unico a starsene così tranquillo, povera bestiola, a guardare quello che non sappiamo ancora vedere.

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Pagina 89

Dialogo con i maori



            Un auteur prophétisait la fin de l'Éternel. Nous nous
                contenterons de travailler à la fin de l'Immobile.

                              René Crevel, Le clavecin de Diderot



    Un pochettino più avanti e spostatevi di lato che c'è posto...

                       Un controllore su un autobus a Buenos Aires



Crevel e il controllore hanno ragione: la realtà è flessibile e porosa, e la suddivisione scolastica tra fisica e metafisica perde ogni significato appena ci rifiutiamo di accettare l'immobilità, appena ci spostiamo un po' più avanti e per quanto possibile di lato. Non sto parlando di imprese filosofiche, mi riferisco al pane e burro della mattina o all'appuntamento con Esther alle otto e mezzo al Gaumont Rive Gauche, dico soltanto che rimanere è la fisica e spostarsi la metafisica, e inoltre che basta spostarsi perché il rimanere scenda al livello delle osservazioni che un rinoceronte potrebbe fare su una scultura di Brancusi.

Un giorno Polanco domandò a Calac cosa volesse dire con quelle frasi piene di pane e burro e di pachidermi.

«Una cosa molto semplice, caro mio – disse Calac. – Innanzitutto, elimina l'idea che fisica e metafisica somiglino alle due manopole del calcio balilla. Se nel momento in cui spalmi il burro sul pane (ti consiglio quello di Isigny che è il migliore) riesci a collegare quell'insieme che comprende il tuo appetito, gli ingredienti citati e un coltello con, per esempio, una frase di una sonata di Chopin o con uno di quei ricordi ricorrenti che per qualche ragione sono ricorrenti, ti renderai conto che a margine delle associazioni analogiche si apre una seconda opzione, quella di considerare il prodotto come realtà arricchita nel senso in cui i fisici parlano di uranio o di plutonio arricchito. Se insisti, se tutti i tuoi atti-vita di quell'ora o di quel giorno si producono all'interno della tendenza a uscire da te stesso, a collegarti ad altre manifestazioni fisiche o psichiche come già sapevano fare i romantici più visionari, immediatamente il risultato sarà che nelle ultime tappe di questa sequenza arriverai a una specie di alveare poroso, una sorta di grandissimo camino con sbocco nel reale appena dirai: "Che bella bionda!" o ti allaccerai le stringhe delle scarpe. È una prassi, caro mio, una prassi, siamo seri.»

«Ma questo lo fanno tutti i poeti» disse Polanco stupito.

«Certo che lo fanno, ma poi lo esprimono nella loro poesia e tu sai che la gente legge quasi sempre la poesia come un momento eccezionale, una formula eccellente per tornare subito dopo alla prosa e non agitarsi troppo. Ecco perché ti dico che il consiglio del controllore sull'autobus va applicato alla vita-banana, alla vita-dentifricio, alla vita-ciao mamma che, se ci pensi bene, è il 98 per cento della vita che facciamo. Alla fine è come ha detto il conte, la vera poesia dovrà essere fatta da tutti e non da uno solo. E l'elasticità, lo scorrimento e la refalada fra il pane e il prosciutto sono l'unico modo di farla a modo nostro, senza contare che con i centesimi si fanno i pesos, come mi ha insegnato la maestra delle elementari.»

«Tu metti il pane in quasi tutti i tuoi esempi – disse Polanco Se non ho capito male, proponi la spugna contro la pietra pomice?»

«Ti salverai, fratello, ti salverai – rispose Calac entusiasta. – Ti sei reso conto che attraverso gli interstizi vivi ci andremo affacciando al noumeno. Kant non mi ha mai convinto con la storia che siamo definitivamente limitati; mentre lui lo affermava, un certo Jean Paul (Richter, non confonderti) e un certo Novalis ballavano già a un ritmo che la pedanteria non mi impedirà di definire cosmico, e ubbidivano al controllore sull'autobus al punto che finivano per uscire dai finestrini, che è quello che dovremmo fare tutti. Negare la presunta unità e finitezza dei fatti, è tutto lì. Ieri è morto il dottor Noriega; è un fatto, e preso così è un fatto comune. Ma allora ascolto l'orco di cui parlava Frazer nel Ramo d'oro, l'orco che subordinava e serializzava la propria morte: "La mia morte è lontana da qui nel vasto oceano, ed è difficile trovarla. In quel mare c'è un'isola, e nell'isola cresce una quercia verde, e sotto la quercia c'è un baule di ferro, e nel baule c'è un cestino, e nel cestino c'è una lepre, e nella lepre un'anatra, e nell'anatra c'è un uovo; e colui che riuscirà a trovare l'uovo e a romperlo, al tempo stesso mi ucciderà". L'orco avrebbe potuto fare il controllore su un autobus, non credi?»

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Pagina 161

Louis, grandissimo cronopio



Sembra che un uccellino dispotico, meglio noto come Dio, abbia soffiato nel fianco del primo uomo per animarlo e infondergli spirito. Se al posto dell'uccellino a soffiare ci fosse stato Louis, l'uomo sarebbe riuscito molto meglio. La cronologia, la storia e altre concatenazioni sono un'immensa sciagura. Un mondo che avesse avuto inizio con Picasso, invece di finire con lui, sarebbe un mondo fatto solo per i cronopios, a ogni angolo i cronopios ballerebbero aspetta e ballerebbero spera mentre Louis, salito su un lampione, soffierebbe per ore facendo cadere dal cielo enormi pezzi di stelle di sciroppo e lampone, perché potessero mangiarseli i bambini e i cani.

Sono cose che si pensano quando ci si trova insaccati in una poltrona del teatro degli Champs Élysées in attesa che Louis faccia la sua comparsa, perché stasera è sceso su Parigi come un angelo, vale a dire è arrivato con un volo Air France, e immagino l'enorme trambusto nella cabina dell'aereo, con tutti i famas provvisti di borse piene di documenti e preventivi, e in mezzo a loro Louis morto dalle risate, con il dito puntato sui paesaggi che i famas preferiscono non guardare perché gli viene il vomito, poveretti. E Louis mentre mangia un hot-dog che la ragazza dell'aereo gli ha portato per accontentarlo e perché se non glielo avesse portato lui l'avrebbe rincorsa per tutto l'aereo fino a convincerla a preparargli un hot-dog. Nel frattempo arrivano a Parigi e ad attenderlo ci sono i giornalisti, ecco perché adesso ho la foto di "France-Soir" con Louis circondato da facce bianche e, lo dico senza pregiudizi, sono davvero convinto che in mezzo a tante facce di reporter la sua sia l'unica faccia umana.

Adesso guardate un po' voi come vanno le cose in questo teatro. In questo teatro, dove un tempo il grandissimo cronopio Nijinskij scoprì che nell'aria ci sono altalene segrete e scale che portano alla gioia, fra un minuto comparirà Louis e sarà la fine del mondo. Naturalmente Louis non ha la più pallida idea che lì dove pianta le sue scarpone gialle un tempo si sono posate le scarpette di Nijinskij, ma per l'appunto il bello dei cronopios e che non si preoccupano mai di cosa sia accaduto un tempo o del fatto che quel signore lassù nel palco è il principe di Galles. Neppure a Nijinskij sarebbe importato sapere che Louis avrebbe suonato la tromba nel suo teatro. Queste sono cose per i famas e anche per le esperanzas, che badano a raccogliere le recensioni, stabilire le date e rilegare il tutto in marocchino e con dorso di tela. Stasera il teatro è invaso da cronopios che, non contenti di straripare in sala e arrampicarsi fin sui lampadari, occupano il palcoscenico e si buttano per terra, si rannicchiano in ogni spazio disponibile o non disponibile, con enorme indignazione delle maschere che non più tardi di ieri, al concerto per flauto e arpa, avevano a che fare con un pubblico così educato che era un piacere, senza contare che questi cronopios non sono molto generosi con le mance e quando possono si sistemano per conto loro e non badano alla maschera. Siccome in genere le maschere sono esperanzas, si deprimono moltissimo per questo comportamento dei cronopios e accendono e spengono le loro torce con profondi sospiri, il che nelle esperanzas è indice di grande malinconia. Un'altra cosa che i cronopios fanno immediatamente è mettersi a lanciare urla e fischi a più non posso, reclamando Louis che, morto dalle risate, li fa aspettare un po' solo per divertirsi, e così la sala del teatro degli Champs Élysées oscilla come un fungo mentre i cronopios entusiasti chiamano Louis e nugoli di aeroplanini di carta volano dappertutto andandosi a infilare negli occhi e nel collo di famas ed esperanzas che si contorcono indignati, e anche di cronopios che si alzano furibondi, afferrano l'aeroplanino e lo rilanciano con una forza tremenda, motivo per cui nel teatro degli Champs Élysées le cose vanno di male in peggio.

Adesso arriva un signore che viene a dire qualche parola al microfono, ma siccome il pubblico sta aspettando Louis e questo signore si mette in mezzo, i cronopios sono furentissimi e lo insultano con veemenza, coprendo del tutto il discorso del signore di cui si vede soltanto la bocca che si apre e si chiude, cosa che lo fa somigliare in modo straordinario a un pesce in una boccia.

Dato che Louis è un grandissimo cronopio, si dispiace per il discorso andato a vuoto e all'improvviso compare da una porticina laterale, e la prima cosa che si vede di lui è il suo fazzolettone bianco, un fazzoletto che fluttua nell'aria e dietro c'è uno zampillo d'oro che fluttua anch'esso nell'aria ed è la tromba di Louis, e dietro ancora, dall'oscurità della porta, si stacca l'altra oscurità piena di luce di Louis che avanza sul palcoscenico, è la fine del mondo e quello che segue è il crollo totale e definitivo degli scaffali con tutta la cristalleria.

Dietro Louis ci sono i ragazzi dell'orchestra: ecco Trummy Young che suona il trombone come se tenesse fra le braccia una donna nuda fatta di miele, e Arvel Shaw che suona il contrabbasso come se tenesse fra le braccia una donna nuda fatta d'ombra, e Cozy Gole che si dimena sulla batteria come il marchese de Sade sui posteriori di otto donne nude e fustigate, e poi altri due musicisti di cui non voglio ricordare i nomi e che credo siano lì per un errore dell'impresario o perché Louis li ha trovati sotto il Pont Neuf e ha visto che avevano una faccia da affamati, per di più uno di loro si chiama Napoleone e questo è un argomento irresistibile per un grandissimo cronopio come Louis.

E ormai si è scatenata l'apocalisse, perché Louis non fa che alzare la sua spada d'oro, e l'attacco di When It's Sleepy Time Down South scende sul pubblico come la carezza di un leopardo. Dalla tromba di Louis, la musica esce come i nastri di parole dalla bocca dei santi primitivi, nell'aria si disegna la sua calda scrittura dorata, e dietro questo primo segnale si scatena Muskat Ramble e noi nelle poltrone ci aggrappiamo a tutto quello che abbiamo di afferrabile, e anche a quello che hanno i vicini, per cui la sala sembra un vasta adunata di polipi impazziti e in mezzo c'è Louis che mostra il bianco degli occhi dietro la sua tromba, e il suo fazzoletto bianco ondeggia ininterrottamente per salutare qualcosa che non si sa cosa sia, come se Louis sentisse il bisogno di dare un continuo addio alla musica che crea e si dissolve all'istante, come se conoscesse il prezzo terribile di quella sua meravigliosa libertà. Naturalmente alla fine di ogni ritornello, quando Louis supera se stesso nella sua ultima frase e il nastro d'oro è come tagliato da una forbice sfolgorante, i cronopios sul palcoscenico fanno salti di diversi metri in ogni direzione, mentre quelli in sala si agitano entusiasti nelle loro poltrone, e i famas venuti al concerto per errore o perché bisognava venirci o perché costa caro si guardano fra loro con un'aria di gentilezza affettata, ma com'è ovvio non hanno capito nulla, hanno un atroce mal di testa, e in generale vorrebbero trovarsi a casa loro ad ascoltare buona musica consigliata e spiegata da bravi presentatori, o in un qualsiasi posto a diversi chilometri di distanza dal teatro degli Champs Élysées.

Un'altra cosa da considerare è che, oltre all'enorme valanga di applausi che lo sommerge non appena finisce il ritornello, lo stesso Louis si affretta a mostrarsi visibilmente soddisfatto di sé, ride mostrando la sua enorme dentatura, agita il fazzoletto e va su e giù per il palco, scambiando frasi di giubilo con i suoi musicisti in un assoluto compiacimento per come vanno le cose. Poi approfitta del fatto che Trummy Young ha brandito il suo trombone e sta producendo una fenomenale scarica di suoni concentrata in masse mitraglianti e rotolanti per asciugarsi con cura la faccia con il fazzoletto, e dopo la faccia il collo e credo anche l'interno degli occhi, a giudicare da come se li strofina. A questo punto abbiamo cominciato a scoprire gli aggeggi che Louis si porta sul palco per sentirsi come a casa e divertirsi a suo piacere. Intanto approfitta della piattaforma dalla quale un Cozy Cole simile a Giove lancia fulmini e saette in quantità soprannaturali per custodirvi una pila formata da una dozzina di fazzoletti bianchi, che prende uno dopo l'altro a mano a mano che quello precedente si inzuppa. Ma tanto sudore dovrà pure uscire da qualche parte e di lì a poco Louis sente che si sta disidratando. così approfitta di un terribile corpo a corpo amoroso di Arvel Shaw con la sua dama bruna per estrarre dalla piattaforma di Giove uno straordinario e misterioso bicchiere rosso, stretto e altissimo, che somiglia a un bussolotto per dadi o al recipiente del Santo Graal, e per bere da questo un liquido che suscita i dubbi e le ipotesi più disparate da parte dei cronopios presenti, visto che non manca chi sostiene che Louis beva latte, mentre altri ruggiscono indignati davanti a questa teoria e dichiarano che un bicchiere come quello può contenere solo sangue di toro o vino di Creta, che è poi la stessa cosa con nomi diversi. Nel frattempo Louis ha nascosto il bicchiere, ha in mano un fazzoletto pulito e a quel punto gli viene voglia di cantare e canta, ma quando canta Louis l'ordine prestabilito delle cose si blocca, non per ragioni inspiegabili ma soltanto perché non può fare a meno di bloccarsi quando Louis canta, e da quella bocca che prima incideva le banderuole d'oro adesso esce un bramito di cervo innamorato, un richiamo di antilope alle stelle, un ronzio di calabroni nella siesta dei campi. Smarrito nell'immensa volta del suo canto chiudo gli occhi, e insieme alla voce di questo Louis di oggi mi arrivano tutte le altre sue voci nel tempo, la sua voce proveniente da vecchi dischi perduti per sempre, la sua voce che canta When Your Lover Has Gone, canta Confessin', canta Thankful, canta Dusky Stevedore. E anche se sono soltanto un movimento confuso nel perfettissimo pandemonio della sala appesa come una sfera di cristallo alla voce di Louis, torno in me per un momento e ripenso al 1930, l'anno in cui ascoltai per la prima volta un disco di Louis, al 1935, quello in cui comprai il mio primo disco di Louis, Mahogany Hall Stomp della Polydor. Poi apro gli occhi e lui è lì, su un palcoscenico parigino, apro gli occhi e lui è lì, dopo ventidue anni di amore sudamericano è lì, dopo ventidue anni è lì che canta, e ride con tutta la sua faccia da bambino incorreggibile, cronopio d'un Louis, grandissimo cronopio d'un Louis, Louis gioia degli uomini che ti meritano.

Adesso Louis ha appena scoperto che in platea c'è il suo amico Hugues Panassié e siccome questo naturalmente gli procura una immensa gioia, corre al microfono e gli dedica la sua musica, e fra lui e Trummy Young nasce un contrappunto di trombone e tromba da strapparsi la camicia a brandelli e lanciarli in aria a uno a uno o tutti insieme. Trummy Young carica come un bisonte, con certi rimbalzi e certe cadute che ti piegano le orecchie, ma adesso Louis si insinua nelle pause e cominci a sentire solo la sua tromba, cominci a renderti conto ancora una volta che quando Louis soffia, ognuno al proprio posto e guai a chi si muove. Poi Trummy e Louis si riconciliano, crescono insieme come due pioppi e lacerano l'aria dall'alto al basso con una coltellata finale che ci lascia tutti dolcemente inebetiti. Il concerto è finito, ormai Louis si starà cambiando la camicia pensando all'hamburger che gli cucineranno in albergo e alla doccia che farà, ma la sala è ancora piena di cronopios persi nel loro sogno, una massa di cronopios che si avviano lenti e svogliati all'uscita, ognuno con il suo sogno che continua, e in mezzo al sogno di ognuno c'è un minuscolo Louis che suona e canta.

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