Copertina
Autore Andrea Cortellessa
Titolo La strada di Levi
SottotitoloImmagini e parole dal film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti
EdizioneMarsilio, Venezia, 2007, nuovo cinema italia , pag. 144, ill., cop.fle., dim. 22,8x16x1,4 cm , Isbn 978-88-317-9124-3
CuratoreAndrea Cortellessa
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe cinema , critica letteraria , shoah , viaggi
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Indice


    LA STRADA DI LEVI


  7 Da una tregua all'altra
    di Andrea Cortellessa

 35 Conversazione
    di Andrea Cortellessa con Marco Belpoliti e Davide Ferrario

113 Ritorno ad Auschwitz
    intervista con Primo Levi,
    nota introduttiva di Emanuele Ascarelli

129 Tregue
    di Giorgio Mastrorocco

 

 

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Pagina 7

Da una tregua all'altra

di Andrea Cortellessa


«Cosa ci aspetta non lo sappiamo, ma talvolta il futuro si può scorgere attraverso le domande che il passato ha lasciato senza risposta. Così, a sessant'anni esatti di distanza, abbiamo attraversato l'Europa trasformata dal crollo del Muro di Berlino. Con i nostri occhi e le sue parole, ci siamo rimessi in viaggio sulla strada di Levi».

È questa una delle pochissime frasi, fra quelle che accompagnano in voice-off le immagini della Strada di Levi, che non siano tratte dalle opere di Primo Levi. Quelle tratte dalla Tregua – non solo dal testo del '63 ma anche dalle note apposte dallo stesso Levi all'edizione scolastica uscita due anni dopo; si aggiungono poi alcune poesie di Ad ora incerta e, più episodicamente, brani da Se questo è un uomo, dalla Chiave a stella, dall' Altrui mestiere, dai Sommersi e i salvati, infine da alcune delle pagine saggistiche raccolte in L'asimmetria e la vita – vengono lette da Umberto Orsini; questa invece è letta da Davide Ferrario. Alla fine la voce di Orsini torna a pronunciare l'ultima frase, che non è di Levi anche se lo parafrasa. Degli amici Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli Levi dice: «Non si sono lasciati impietrire / Dalla lenta nevicata dei giorni», mentre la frase che suggella La strada di Levi suona: «La Medusa non ci ha impietriti. Non ci siamo lasciati impietrire dalla lenta nevicata dei giorni». Con discrezione ma con chiarezza, sin dall'allestimento di questa cornice, si precisa insomma come il cammino affrontato, sulla strada sessant'anni fa percorsa da Primo Levi, sia quello di uomini del nostro tempo. Che affrontano questioni e problemi di oggi. Appunto: «talvolta il futuro si può scorgere attraverso le domande che il passato ha lasciato senza risposta».

Parla chiaro, in questo senso, la scelta di anteporre a quelle della stazione di partenza della Tregua, Auschwitz, le immagini di New York e Ground Zero. Se è Levi per primo a proporre un'interpretazione estensiva, metaforica, del concetto di "tregua", La strada di Levi ne applica le potenzialità conoscitive alla nostra situazione storica:

«Il titolo indica la sua personale tregua ma anche il periodo intercorso tra la seconda guerra mondiale e l'inizio della guerra fredda. Anche noi, cittadini del nuovo secolo, abbiamo raggiunto la fine della nostra tregua».

La nostra tregua, dunque, è quella che va dalla fine della guerra fredda, nell'autunno del 1989, agli attacchi terroristici a New York, l'11 settembre del 2001. Il film viene concepito, realizzato e appare in un momento nel quale, secondo alcuni interpreti, in diversi luoghi del mondo, a partire dalla distruzione del World Trade Center si danno condizioni simili a quelle che resero possibile la Shoah: perché vengono commessi crimini contro l'umanità di natura (se non di portata) simile, oppure perché in maniera analoga vengono giuridicamente sospese le condizioni di cittadinanza.

Riflettere di nuovo, oggi, su cosa sia "tregua" significa ridefinire il senso del termine come di un passaggio che separa sì due periodi di guerra ma, proprio nel fare ciò, tale guerra presuppone. A differenza della pace, cioè, la tregua è solo una sospensione delle ostilità: stato di eccezione prodotto in un tempo nel quale, come insegna a Primo il «Greco», Mordo Nahum, «guerra è sempre». Per questo l'avventura degli ex deportati italiani attraverso l'Europa Orientale ha sì i caratteri vitali, picareschi, a tratti persino euforici che fanno della Tregua un unicum nella sua opera, ma all'inizio e alla fine del libro di Levi risuona il temuto suono, il «comando straniero» che, in Lager, faceva «spezzare in petto il cuore»: «Wstawac», alzarsi. L'epilogo della Tregua, quello in cui Primo è «di nuovo in Lager, e nulla era vero all'infuori del Lager», e guarda alla "tregua" che gli è stata concessa come a una «breve vacanza», è un «sogno». Ma, anche, «un sogno entro un altro sogno». Come nel celebre dramma barocco di Calderón de la Barca, La vita è sogno, ci si può chiedere quale dei due sia davvero sogno, e quale invece realtà: il persistente incubo notturno o l'apparente pace del giorno? Ma Levi ci dice apertamente che sono entrambi dei sogni, e proprio per questo non c'è modo di dire quale dei due sia reale (o meglio, a quale livello sia reale): se «il sogno interno, il sogno di pace», o il «sogno esterno, che prosegue gelido».

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Pagina 35

CONVERSAZIONE

di Andrea Cortellessa con Marco Belpoliti e Davide Ferrario


ANDREA CORTELLESSA «Nel 1963 Levi raccontò le sue peripezie in un libro, La tregua. Il titolo indica la sua personale tregua ma anche il periodo intercorso tra la seconda guerra mondiale e l'inizio della guerra fredda. Anche noi, cittadini del nuovo secolo, abbiamo raggiunto la fine della nostra tregua. Cosa ci aspetta non lo sappiamo, ma talvolta il futuro si può scorgere attraverso le domande che il passato ha lasciato senza risposta. Così, a sessant'anni esatti di distanza, abbiamo attraversato l'Europa trasformata dal crollo del Muro di Berlino. Con i nostri occhi e le sue parole, ci siamo rimessi in viaggio sulla strada di Levi». Sono le prime parole della Strada di Levi, pronunciate dalla voce offi di Davide. Quella della "tregua", in Levi, è una metafora molto pregnante...

MARCO BELPOLITI Nel libro di Levi ci sono tre declinazioni della parola "tregua", considerando anche le note dell'edizione scolastica del '65 sulle quali fra l'altro si conclude il nostro film. Un film, considerato da questo punto di vista, che è marcatamente circolare. Come del resto il libro di Levi, al cui inizio c'è la poesia che ricorda il Lager e l'imperativo in polacco, «Wstawac», «Alzarsi». Il libro si chiude sulla stessa frase, sullo stesso suono anzi. Questa figura ad anello fa sì che tutto il periodo di vagabondaggio attraverso l'Europa sia la personale tregua di Primo Levi: tra il rilascio dal Lager – l'arrivo dei Russi, quindi la salvazione – e il ritorno dell'incubo che lo viene a visitare. All'interno di questo cerchio d'angoscia, però, è un libro allegro, scanzonato, picaresco. Quindi la tregua personale, psicologica di Levi coincide con la tregua rappresentata dal suo viaggio, il viaggio crea questa sorta di allegria, diciamo. C'è poi un secondo modo di intendere la "tregua", da parte di Levi: in senso storico. Quando il libro è stato scritto siamo all'inizio degli anni sessanta, la guerra fredda è al suo culmine. Proprio in quel momento lui ha modo di raccontare il mondo sconosciuto che si trova al di là della cortina, sia pure retrodatandolo al '45. Non il mondo dei Russi ma quello dei Sovietici: con una precisa collocazione storica. E ha la sensazione che fra il '45 in cui termina la guerra con il nazifascismo e l'inizio della fase più "calda" della guerra fredda, ci sia stata una lunga "tregua" appunto. Infine, Levi legge la vita umana nel suo complesso come una "tregua": dal punto di vista biologico. Perché noi veniamo dal nulla e andiamo verso il nulla. C'è questo movimento entropico entro il quale c'è la vita, la costruzione della civiltà. Qualcosa di fragile, come un piede ballerino sul quale tutto si regge in equilibrio.

A.C. Levi parla di «Caos primigenio», che è metafora sia biblica che scientifica, chimica e fisica, nel senso appunto dell'entropia.

M.B. Tanto è vero che il libro si sarebbe dovuto chiamare Vento alto, perché contiene questa immagine del vento primordiale che crea il mondo a partire dal caos. E la parola «caos» torna numerose volte nella Tregua. Allora noi siamo partiti, diciamo così, da questa idea di rifare il viaggio di Levi. Andare a vedere cosa c'era oggi in quelle zone, in quei territori, che stanno per entrare a far parte o sono già entrati a far parte dell'Unione Europea ma che ancora non conosciamo bene, zone al di là di un confine culturale e mentale, ecco. Non è un'intenzione storica, è un'intenzione visiva, vedere delle cose. Naturale usare il cinema, dunque.

A.C. C'è un'unica eccezione al vostro ripercorrere «la strada di Levi», cioè i luoghi attraversati da Levi nel viaggio di ritorno da Auschwitz e poi narrati nella Tregua. A parte qualche minima deviazione che vedremo poi, l'unico luogo di cui non si parla nella Tregua e che invece si vede all'inizio della Strada di Levi è New York, Ground Zero. È un'aggiunta di senso, o un prolungamento del senso della Tregua, di portata evidentemente strategica. Questo gesto, da parte vostra, sin dall'inizio del film ci spinge a considerare la metafora della tregua, oltre che dal punto di vista storico di Levi, da quello attuale della vostra e della mia generazione. Voi fate questa riflessione dopo aver attraversato gli ultimi anni della guerra fredda; quando, dopo una "tregua" durata dal 1989 al 2001, vi siete – ci siamo – trovati catapultati in qualcosa di nuovo che non sappiamo come chiamare ma che certo alla "tregua" ha posto fine.

DAVIDE FERRARIO Questa metafora della tregua, per me, era soprattutto una condizione mentale. C'è indubbiamente un parallelismo fra Levi e noi: in tutti e due i casi ci si trova a tregua conclusa, ogni giorno ce lo ricorda. Però il nostro viaggio attraversa luoghi e tempi dove ancora si vive in una specie di tregua. Se vai in Polonia, in Ucraina, in Bielorussia o in Moldavia, non ti aspetti che ci possa essere un attentato di fondamentalisti islamici da un momento all'altro. Stanno nelle retrovie dell'Occidente. A nostra volta, dunque, ci trovavamo nella posizione di Levi: quella di guardare indietro a un momento di tregua quando siamo già di nuovo in guerra. Si sceglie di raccontare la guerra, passata e presente, in negativo: a partire dalla tregua.

A.C. Anche se poi anche l'ex Unione Sovietica ha i suoi problemi, in questo senso...

D.F. Ha i suoi conflitti, ci mancherebbe. Però andare lì è come fare un passo indietro, in un territorio che davvero è di nuovo un «caos primigenio». Ci si trova una forma di libertà, il cercare qualcosa che non è dato sapere prima. Fare un film su questo, dal mio punto di vista, significava allora fare un viaggio senza preconcetti, senza opinioni precostituite. I luoghi dove siamo passati non vivono ancora, sostanzialmente, la crisi che abbiamo vissuto noi. Si trovano fra due crolli, probabilmente. Ed è per questo che sono affascinanti, perché in questo senso sono davvero qualcosa di radicalmente altro da noi, ancorché per nulla esotico... C'è una forte tensione visiva in un viaggio del genere. Il film, perciò, non deve spiegare un'idea o una tesi: è il riflesso del viaggio vero e proprio...

M.B. L'introduzione di New York è stata un'idea che ci è venuta a un certo punto tornando, mi pare, dal nostro terzo viaggio, eravamo stati in Ucraina e Bielorussia. A quel punto abbiamo pensato a una sorta di spiazzamento, metaforico o simbolico... che desse il senso del tempo in cui viviamo...

A.C. Tra l'altro, non so se è voluto l'effetto, ma quelle immagini di New York all'inizio danno l'idea, la sensazione, di una ripresa antica, c'è una specie di colorazione "anticata", come se quella che vediamo fosse una New York anni cinquanta o sessanta... poi invece si scopre che è la New York di oggi.

D.F. Sono contento che si noti, perché l'effetto è voluto. Il film è tutto girato con un'alternanza di pellicola e di digitale professionale, mentre quella parte l'ho girata io con una telecamera amatoriale. Però non volevo che l'immagine finale avesse un look elettronico e così ci ho lavorato ulteriormente in postproduzione per farlo diventare una specie di super-otto. Come dicono le parole dell'introduzione, l'intenzione del film è leggere il futuro attraverso le domande lasciate senza risposta dal passato. Perciò ho cercato di fotografare la modernità con un mezzo "archeologico", per quanto spurio. Ho pensato ai film di Andy Warhol, di Stan Brakhage, del New American Cinema, che negli anni sessanta fotografavano i grattacieli tutti graffiati, a quel tipo di estetica...

C'è un altro aneddoto interessante riguardo al prologo newyorkese. All'inizio si era pensato a una specie di "testimonial", a qualche personaggio che illustrasse a modo suo il senso del film, quello che adesso dice la mia voce. Prima pensammo a Philip Roth, che aveva intervistato Levi, poi ci venne un'idea "estrema": Woody Allen. In fin dei conti in Crimini e misfatti aveva inserito un personaggio che si chiamava Levy che alla fine si suicida, una via di mezzo tra Primo Levi e Bruno Bettelheim... E Woody Allen è New York. Abbiamo un'amica comune e tramite lei gli feci avere la proposta. Lui ci rispose molto cortesemente per iscritto, ringraziando per l'idea ma declinando l'invito perché «ho solo una conoscenza superficiale di Levi e comunque non ho niente di particolarmente interessante da dire». Mi strappò un sorriso. Comunque so che in questi giorni, tramite la mia amica, vedrà il film nella sua saletta privata...

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