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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Edoarda Masi 7 Introduzione alla seconda edizione 13 VENT'ANNI DOPO. L'UMANITÀ AL BIVIO Condizione atomica e «crisi degli euromissili Socialismo, pacifismo, guerra Il processo dell'imperialismo Usa «Angoscia vivificante» e movimento «altromondista» Il dubbio antropologico e la psicoanalisi Il rischio ambientale globale Ecologia e storia Due realismi Premessa 57 STORIA E CATASTROFE. SUL SISTEMA GLOBALE DI STERMINIO 61 I. CRISI MONDIALE E IMMINENZA DELLA CATASTROFE 63 Le grandi crisi dell'era atomica La dinamica del rischio II. AUTONOMIA E FUNZIONI DELLO STATO-GUERRA 83 La separatezza dello Stato Possibilità del suicidio-genocidio La mediazione della società politica III.IDEOLOGIA E STRATEGIA DEL GENOCIDIO 121 IV. GENESI DELLA SITUAZIONE ATOMICA 143 L'asso nella manica «Guerra fredda» e superiorità nucleare 1955-56: il nodo decisivo V. CONOSCENZA, COSCIENZA, AZIONE 169 VI. «SOCIALISMO O BARBARIE» 193 Marx, Engels, Luxemburg Lenin Crisi del socialismo e crisi del mondo VII. IL NODO AGGRESSIVITÀ-VIOLENZA-GUERRA 213 Freud Fromm Heller Fornari Ambiguità e scelte della psicoanalisi VIII. «SOCIALISMO REALE», CAPITALISMO, MOVIMENTO PER LA PACE 245 Il dibattito Russell-Kruscev-Eisenhower L'Urss e il rischio nucleare Il sistema occidentale come warfare-welfare state La rivoluzione pacifista APPENDICE 289 1. La cultura storica e la 'sfida dei rischi globali 191 Problemi e rischi globali Per una nuova storia La crisi del passato Inadeguatezza della storiografia, e di questi stessi appunti Sulla rivoluzione industriale Polanyi e gli altri Hobsbawm e Wallerstein A.J. Toynbee e C. Ponting «Lunga durata» e antropocentrismo Studi italiani Gli inganni del '900 Rischio nucleare e rischio entropico: una sinergia mortale 2. Endzeit e Zeitenende. Guerra e rischio finale in età atomica 339 Un'unica Superpotenza Imperialismo atomico e «umanitario» Un sistema globale di sterminio L'imperialismo come tendenza storica Socialismo ed ecologia 3. L'umanità al bivio 361 INDICE DEI NOMI 370 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Storia e catastrofe vede la luce nel 1984. Il libro affronta i problemi mondiali nell'ottica dello scontro fra le due Superpotenze. E sul rischio della catastrofe nucleare rilancia un allarme che nella trentina d'anni trascorsi dai massacri di Hiroshima e Nagasaki sembra essersi gradualmente dissolto. Ripubblicarlo oggi, quando la scomparsa di uno dei contendenti nella veste di Superpotenza ha modificato radicalmente i termini dei rapporti di forza e degli equilibri-squilibri internazionali, e mentre l'urgenza del rischio nucleare sembra ulteriormente attenuata nella coscienza diffusa, è un atto di rivendicazione d'un impianto analitico ancora valido, e riconfermato dalla introduzione e dalla nuova appendice di scritti degli anni 2002-2003. In realtà risalire allo scontro fra le Superpotenze ed ai suoi motivi sostanziali serve a comprendere gli orientamenti successivi dei superstiti centri di potere. L'analisi spregiudicata delle vicende dell'ultimo mezzo secolo consente di rivedere i giudizi cristallizzati sulla guerra fredda e di sottoporre a critica le interpretazioni del presente basate sulle ideologie correnti. Incluse quelle che tendono ad attenuare e infine a occultare i pericoli incombenti sull'intera specie umana a causa della potenza distruttiva dei prodotti sempre più raffinati della scienza e della tecnica nelle mani di meccanismi di potere irresponsabili e di associazioni di interesse criminali. A vent'anni di distanza è dato verificare la correttezza dell'analisi «controcorrente» di Luigi Cortesi nei giudizi e a proposito di fatti allora non chiari a tutti, come il declino americano dopo gli anni '50 e '60; la competizione dei grandi sistemi geopolitici associata alla caduta dei movimenti rivoluzionari; la funzione positiva dell'esistenza dell'URSS (indipendentemente dalla degenerazione del sistema e perfino della politica neoimperialistica) ai fini non solo degli equilibri mondiali (fossero pure «del terrore») ma anche della tutela delle classi subalterne nell'intero pianeta; la distinzione fra movimento operaio e stalinismo; la deriva del marxismo-leninismo verso la democrazia borghese (in Italia, con l'approdo al compromesso storico); l'occidentalismo dei dirigenti del Pci; gli accordi segreti fra Italia e Stati Uniti e a proposito della Nato. | << | < | > | >> |Pagina 13Introduzione alla seconda edizioneIl '900, che le valutazioni storiche unanimemente definiscono come il più tragico e sanguinoso della vicenda umana, il secolo in cui il picco del «progresso» e il picco della barbarie sono giunti ad una pari altezza (e sempre più s'impone la convinzione che questo «progresso» rechi tipologicamente in se stesso il seme della barbarie), non poteva avere una più coerente conclusione che quella del suo ultimo decennio. Direi di tutti questi nostri anni, includendo nel discorso e nella considerazione critica da un lato le crisi e i rischi degli anni '80 e dall'altro l'inizio infausto del nuovo secolo, che si sta svolgendo tra guerre, antiche oppressioni e nuove rivolte terroristiche, minacce all'ambiente storico e naturale, diseguaglianze sociali crescenti presidiate da apposite istituzioni economico-politiche, ricerche scientifiche tese all'approntamento dell'arma assoluta. Il nostro tempo ci fornisce il più conveniente osservatorio per un giudizio che abbracci tutto un arco di orrore che va dal «cuore di tenebra» dell'imperialismo alle due guerre mondiali, alla «guerra fredda», ai totalitarismi passati e al presente, fino allo scivolamento carnale dell'umanità in una decadenza sguaiata, intellettualmente inferiore alla propria stessa grandiosità. In modo particolare, i vent'anni trascorsi hanno portato novità tali da configurare una transizione epocale: la crisi e il crollo dell'Unione Sovietica, la monocrazia imperiale degli Usa, lo sconvolgimento del sistema internazionale e l'eclisse dell'Onu sotto i colpi della Superpotenza unica, il declino del movimento operaio e delle forme sociali dello Stato contemporaneo, il predominio dell'interesse privato sul pubblico, la combinazione di «rivoluzione microelettronica» e di globalizzazione neoliberistica che sorregge tutta la nuova «grande trasformazione», con i suoi fasti e le sue tragedie. [...] ritengo - ha detto in una recente occasione Juán Gelman - che non vi è un dopo Auschwitz, né un dopo Hiroshima, né un dopo il genocidio latinoamericamo, che siamo in un durante, che i massacri si ripetono ininterrottamente nel pianeta, che la denominata globalizzazione ci fa retrocedere al peggiore progetto civilizzatore in Occidente, quello del colonialismo, le guerre continue, l'oppressione dei popoli, la disoccupazione, la morte per fame. A confermare che «siamo in un durante» sta appunto la riflessione sullo spazio temporale trascorso dalla prima edizione di questo libro ai primi anni 2000, che è stato tra i più densi della storia mondiale, e che ha dato luogo a profonde trasformazioni economiche, sociali, culturali, antropiche, delle quali la nuova geografia politica dell'Europa e dell'Asia è un semplice e parziale riflesso di superficie. Occorre riprendere la ricerca e la riflessione su ciò che nel frattempo è avvenuto e su ciò che avviene, su quelle trasformazioni e sul senso d'una transizione in pieno corso, sui suoi possibili esiti. Concepito e scritto nel 1980-83 e uscito nell'84, Storia e catastrofe faceva del presente di vent'anni fa il «punto di vista» sia per bilanci e ripensamenti storici sia per tentativi di previsione nel quadro di una prospettiva certa: prospettiva che sboccava in un esito apocalittico, la cui causa scatenante veniva indicata nella rivalità geopolitica tra il blocco capitalistico occidentale e quello del «socialismo reale», ma la cui eziologia strutturale era nella natura del modo di produzione dominante. Dei due elementi causali, il primo è ormai caduto, mentre il secondo resta fondamentalmente valido, e si è anzi fortemente riattivato con la crisi e il crollo del sistema internazionale imperniato sull'Unione Sovietica. Con una spettacolare torsione, la politica internazionale degli Stati Uniti d'America ha sostituito il nemico principale dapprima con una pluralità di rischi indeterminati e poi con l'aiuto oggettivo dei fatti dell'11 settembre 2001 - con il fondamentalismo e il terrorismo attribuiti ad una matrice islamica della quale sarebbero organiche filiazioni. Non mancano, nella mutevole lista dei nemici designati, gli Stati-canaglia (i «rogue states»); ma per la sua capacità di colpire e per la sua sfuggevolezza il terrorismo meglio si presta ad alimentare uno stato di allarme permanente nella vita sociale non meno che sul piano internazionale, e a giustificare una gigantesca spesa militare, intorno alla quale ruota ormai la maggiore economia del Pianeta. Resta parte fondamentale di quella spesa il continuo perfezionamento degli armamenti nucleari, del cui uso non mancano minacce e preavvisi nei documenti strategici e nelle dichiarazione dei governanti americani. E resta opportuna la giustificazione e la spinta che a quella spesa possono dare le guerre, le quali forniscono inoltre i necessari «poligoni» di prova delle nuove generazioni di armamenti. Il documento presidenziale The National Security Strategy of the United States of America del settembre 2002 è un autentico proclama di guerra ad oltranza, preventiva e con tutti i mezzi, al terrorismo e alle sue fonti, ma soprattutto a quei Paesi che sviluppino la loro forza militare «nella speranza di superare o eguagliare il potere degli Stati Uniti»; in sostanza, una minaccia di guerra preventiva, che non può non essere o diventare nucleare, al resto del mondo. Il discorso pronunciato dal presidente George Bush il 6 settembre 2003 al National Endowment of Democracy conferma che «la missione della nostra era» è la «rivoluzione democratica globale» e che l'obiettivo attuale è il Medio Oriente. Che cosa l'odierna dottrina politico-militare americana intenda per «rivoluzione» è sotto i nostri occhi, in Afghanistan e in Iraq. Il «socialismo reale» è dunque scomparso, ma il trend apocalittico rimane, e viene consapevolmente pensato e alimentato. Il «sistema mondiale dello sterminio», lo «sterminismo» del quale scriveva il grande storico pacifista Edward P. Thompson, non ha cessato di essere, insieme con quelle che con tutta evidenza apparivano come le sue cause; esso permane, e viene continuamente - direi giorno per giorno - perfezionato e lubrificato. La centralità della catastrofe nello scenario storico viene quindi confermata da tutto quanto è accaduto dalla «caduta del muro» e dallo scioglimento dell'Unione Sovietica fino ad oggi. Ciò che allora poteva essere pensato come l'inevitabile deflagrazione di un dualismo si presenta ora come il prodotto specifico di una delle parti, essendo l'altra venuta meno senza colpo ferire. Pensare le esperienze più recenti e ripensare quelle precedenti, o contemporanee alla elaborazione delle tesi di questo libro, ci sembra opportuno e necessario. | << | < | > | >> |Pagina 19Gli Usa dispongono cioè della capacità militare e - attraverso il loro controllo degli organismi internazionali, in primo luogo Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, World Trade Organization - della possibilità economica di mantenere o variare a proprio vantaggio l'equilibrio geopolitico della maggior parte dei teatri regionali e di propiziare o impedire a proprio vantaggio cambiamenti interni in un numero crescente di Paesi. Questa condizione di privilegio - che il citato documento The National Security Strategy del settembre 2002 registrava con il debito orgoglio - equivale al ricatto della Superpotenza che è in grado di far saltare singoli Paesi dichiarati «fuorilegge» e di accendere una conflagrazione internazionale; e che si è foggiata l'ideologia del proprio primato in quella sorta di monopolio imperfetto (dal 1949) ma funzionale dell'arma nucleare, della sua «diplomazia atomica» e del suo miglior uso tecnologico, al quale gli americani hanno mirato fin dal 1945. Già questo era in effetti il senso dei bombardamenti atomici del Giappone, promossi ormai a principio basilare di cultura politica.Il monopolio imperfetto statunitense è valso intanto a rendere obbligatoria la dotazione atomica delle maggiori Potenze, per un effetto di emulazione la cui inosservanza avrebbe messo in gioco l'esistenza dei singoli Stati o la loro possibilità di fare politica internazionale. C'è di più. Esso (anche attraverso la possibilità offerta a Israele di acquisire alla sua volta lo status atomico) va rendendo obbligatoria o desiderabile la dotazione nucleare anche a Potenze regionali tra loro rivali (è il caso dell'India e del Pakistan, e potrà esserlo anche per uno Stato dell'area arabo-islamica in funzione antisraeliana), o a Potenze minori che intendano giocare il loro status atomico per uscire da una condizione di indigenza sul piano internazionale. Si poteva pensare che la violenza intrinseca alla strategia americana fosse unicamente o soprattutto dettata dalle condizioni della «guerra fredda»; ma le scelte degli Usa dopo lo sfacelo del blocco filosovietico e della stessa Urss dimostrano che argomentazioni di questo tipo non sono sufficienti e che il radicamento ideologico di una politica fortemente militarizzata va esplorato più in profondo, nella costituzione e nella storia dello Stato nazionale, in un'economia di proporzioni titaniche che sorregge l'enorme impalcatura della vita civile e del consenso interno (ma anche del Washington Consensus) e in una temperie spirituale di missione e di destino che solo una seria ispirazione totalitaria può generare, come per altre vie dimostra la storia della Germania. | << | < | > | >> |Pagina 29E tuttavia la definizione di «dominio (mondiale) senza egemonia» che potremmo anche, ma non diversamente, esprimere come «totalitarismo globale» - ha bisogno di un completamento. In effetti il dominio verso l'esterno è fondato su un salda egemonia interna, e questa ci rimanda un problema che va analizzato, anche perché alla fine - regime interno e politica estera in qualche modo si congiungono e i conti tra le «due metà» della politica devono saldarsi. Nel grande scialo di elucubrazioni sulla categoria di totalitarismo proprio questo nesso sembra sia andato perduto. Ora, se il totalitarismo viene qualificato dagli studiosi specialmente per i rapporti Stato-cittadinanza, svalutando comparativamente la fisionomia che quel determinato Stato assume nei rapporti internazionali, e adottando come misura di tutta la storia lo Stato di diritto, del quale si dà come scontata la natura pacifica, quale definizione potremo dare di un Paese come gli Stati Uniti d'America - che sono sì Stato di diritto, democrazia, egemonia interna, ma che proiettano queste basi di forza in una condizione di «guerra infinita» (già storicamente in essere, in varie modalità e senza bisogno di teorizzazioni, a partire dal dicembre 1941) e in quella vocazione al totalitarismo globale che è esplosa negli anni recenti, tra il Project for the New American Century (1997) e il documento strategico presidenziale del settembre 2002? Evidentemente dovremo in qualche modo controllare come una tale apparente contraddizione sia possibile, fare un po' di ricerca empirica sui limiti della democrazia (americana, e non solo) e in qualche modo ritematizzare lo Stato di diritto, scoprendo che la repellenza o contraddizione formale tra egemonia e dominio può invece dimostrarsi come consecuzione e complementarità. Dovremmo forse addebitare al caso la concentrazione in Occidente sia dei regimi di diritto sia dell'enorme potere di guerra?Sono passati più di due secoli da quando Kant e Bentham postulavano la «forma della pubblicità» come garanzia di giustizia degli atti interessanti il diritto internazionale (ius gentium), e ci troviamo a dover sistematicamente subire iniziative di guerra che maturano al di fuori e contro la volontà popolare nel segreto delle cancellerie e dei comandi militari «democratici» e vengono rivestite di motivi umanitari. Tutto ciò riguarda strettamente i regimi democratici, il che costituisce un problema a sé e, forse, il problema politico in assoluto del nostro tempo: in parole semplici, quello del trionfo del totalitarismo globale per le vie dell'ideologia e della prassi di democrazia. | << | < | > | >> |Pagina 32Ma l'impegno di chi sa che «un altro mondo è possibile», se deve avere una direzione principale e prioritaria, non deve essere limitato al problema specifico, pena la sopravvalutazione di qualche soddisfazione parcellare e la reintegrazione in questo mondo. Critica dell'economia politica, critica della disuguaglianza sociale, critica della democrazia parlamentare come forma universalmente obbligatoria di elusione della divisione in classi trovano brecce via via più ampie e successi più duraturi se si intrecciano e si unificano sul piano della lotta contro il «sistema dello sterminio» che fa capo ai rogue states dell'imperialismo, e quindi contro la guerra, le sue cause, i suoi strumenti umanicidi. Ogni semplificazione di questo plesso problematico mette capo ad una complicità preterintenzionale.
A obbiettivi radicali sembrano avviate le varie
mobilitazioni, e il complessivo movimento avverso alla globalizzazione in atto,
cioè a quel concreto modo di unificazione del mercato planetario, in cui viene a
culminare lo sviluppo plurisecolare del capitalismo. Il movimento è di grande
ampiezza e rappresenta un bacino di raccolta delle varie tendenze contestative
che sono emerse nel passaggio dal secolo XX ai nostri anni, pacifisti ed
ecologisti compresi. L'esordio mondiale di Seattle, nel dicembre 1999, ruppe
l'apoliticismo della generazione succeduta alla prima guerra americana contro
l'Iraq e al crollo dell'Unione Sovietica, e le sue avanguardie hanno dimostrato
di non mancare d'una visione critica unitaria. Ma le difficoltà sono grandi. La
generazione
no global
è anche la prima che si accosta ai grandi problemi
politici per le vie della comunicazione telematica, e non per quella delle
letture cartacee, cioè con il «pieno» di puro ed esclusivo presente e con un
deficit rilevante di cultura in dimensione storica, e perciò poco attrezzata ad
una lotta che porti la «scienza» (o perlomeno un sapere generale) nella
«rivoluzione». Il suo incontro con l'elaborazione intellettuale è arduo e
manchevole, specialmente per quanto riguarda la valutazione di fatti, movimenti,
strumenti che hanno caratterizzato la vita e l'impegno delle tre o quattro
generazioni precedenti.
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