Copertina
Autore Guido Cossard
Titolo Cieli perduti
SottotitoloArcheoastronomia: le stelle degli antichi
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2010, , pag. 282, ill., cop.fle., dim. 14,6x23x2,5 cm , Isbn 978-88-02-08194-6
LettoreCorrado Leonardo, 2010
Classe astronomia , storia antica
PrimaPagina


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Indice


    PARTE PRIMA - L'ASTRONOMIA NELLA PREISTORIA


  5 Capitolo I - Le stelle del neolitico

  5 L'uomo e il cielo
  9 Metodi per determinare il calendario
 12 Cielo e religione
 14 Fenomeni celesti appariscenti
 23 Le incisioni e le coppelle: testimonianze di stelle su rocce
 41 I megaliti
 45 La Luna e i pianeti
 56 Modello di universo del neolitico

 57 Capitolo II - Le grandi aree archeoastronomiche europee

 57 Da Stonehenge a Shakespeare
 68 Callanish e la danza del dio
 74 La Bretagna e la Francia
 86 Il tumulo di Newgrange e l'Irlanda
 97 Nebra e gli altri megaliti europei

106 Capitolo III - Le grandi aree archeoastronomiche italiane

106 Saint Martin de Corléans e la Valle d'Aosta
130 La ziggurat di Accodi e la Sardegna
137 Bisceglie e gli altri siti italiani
138 Italia del nord est

141 Capitolo IV - Il megalitismo oltre l'Europa



    PARTE SECONDA - L'ASTRONOMIA PRESSO LE POPOLAZIONI ANTICHE


151 Capitolo V - Gli Egizi


172 Capitolo VI - I popoli della Mesopotamia

172 I Sumeri
176 Il sogno di Gudea
177 I Babilonesi

190 Capitolo VII - Il Libro di Enoch e gli Ebrei


199 Capitolo VIII - Gli Etruschi


210 Capitolo IX - Il cielo dei Druidi


221 Capitolo X - I Cinesi


230 Capitolo XI - Gli Arabi


234 Capitolo XII - Gli Indiani d'America


244 Capitolo XIII - I popoli precolombiani

244 I Maya
258 Gli Aztechi
261 Gli Incas


    PARTE TERZA - DAL MEDIOEVO ALL'ETNOASTRONOMIA


267 Capitolo XIV - Il Medioevo


273 Capitolo XV - L'etnoastronomia

273 La Macchina di Anticitera e gli OOPArt
275 Una nuova scienza: l'etnoastronomia

279 Conclusioni
280 Bibliografia

 

 

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Capitolo I

Le stelle del neolitico


L'uomo e il cielo

In quale momento sia nato il rapporto tra l'uomo e il cielo nessuno può dirlo. Sicuramente l'osservazione della volta celeste era nella preistoria un'azione perfettamente naturale e spontanea, dato che, allora, i cieli non ci erano ancora stati rubati dalle luci artificiali.

Quando le flebili e timide luci delle stelle non erano ancora state fagocitate da fasci laser e neon colorati, il cielo si animava di figure immaginarie, dai contorni tracciati più dai meccanismi del nostro cervello che dalla disposizione delle stelle.

Inoltre, bisogna riconoscere che quando noi pensiamo all'uomo della preistoria commettiamo generalmente due grandi ingiustizie nei suoi confronti, sottovalutandone enormemente alcuni aspetti.

Innanzi tutto tendiamo a sottovalutare la sua capacità di ragionamento. Sicuramente l'uomo del neolitico possedeva meno informazioni rispetto a noi, ma un conto è poter usufruire di un numero inferiore di nozioni, un altro è avere una differente predisposizione al ragionamento.

Da questo punto di vista, dobbiamo immaginare che il nostro antico progenitore avesse una curiosità intellettuale analoga alla nostra, una capacità di ragionamento simile e che si ponesse già in maniera critica di fronte ai problemi e ai fenomeni naturali.

Se pensiamo alla raffinata sensibilità degli artisti che decorarono le grotte di Altamira, in Spagna, o quelle di Lascaux, in Francia, non possiamo non riconoscere nella mano che ha tracciato quelle figure una sensibilità almeno pari alla nostra.

La seconda grande ingiustizia che commettiamo nei confronti dell'uomo della preistoria consiste nel sottovalutare enormemente la sua completa e assoluta integrazione nell'ambiente naturale che lo circondava.

Per noi, oggi, l'osservazione del cielo è un fatto deliberato. Dobbiamo decidere di sbarazzarci di tutti quegli ostacoli che si frappongono tra noi e il cielo e individuare un luogo adatto.

A ben pensarci, abbiamo sempre qualcosa sopra la nostra testa: un tetto, un soffitto, il tettuccio di un'automobile e, quando siamo risparmiati dalla presenza di un ostacolo fisico, scopriamo di essere comunque immersi in una cappa d'ingiustificata e intensissima luce che ci avvolge, colpendo non solo le superfici da illuminare, ma allargandosi poi senza limiti a costruire una nuova barriera tra noi e gli astri.

Nell'antichità le cose non erano affatto così: la notte era buia e silenziosa e le luci degli astri erano libere di squarciare il cielo.

Talvolta le notti erano l'occasione per lunghi spostamenti, altre volte fornivano le condizioni più adatte per la caccia e non era raro che venissero trascorse all'addiaccio.

Era allora inevitabile alzare gli occhi alla volta celeste e osservare.

Guardare il cielo a occhio nudo è entusiasmante e appagante. Certo, generalmente ci si fa coinvolgere maggiormente dalla potenza dei moderni telescopi, ormai disponibili a prezzi ragionevoli anche per gli appassionati, ma il fascino di un'osservazione a occhio nudo è insuperabile. Se ci si pone con semplicità di fronte allo specchio dell'infinito di un cielo buio e si ha la pazienza di aspettare mezz'ora o tre quarti d'ora, si noteranno subito alcune cose.

Primo: gli astri si muovono. Certo si tratta di moto apparente, ma questo lo sappiamo noi, oggi. L'uomo della preistoria non disponeva di strumenti per capirlo, ma, per quanto concerne il nostro discorso, cambia veramente poco.

Secondo, non tutti gli astri si muovono nello stesso modo, ma si individua subito una sorta di gerarchia. Innanzi tutto esiste una stella, la polare, che non cambia posizione, ma, anzi, sembra che essa rappresenti il perno sul quale ruotano tutte le altre: è evidente che questa stella apparirà particolarmente importante.

Poi esistono stelle che sorgono e tramontano, che si affacciano improvvisamente sulla volta celeste o che se ne allontanano.

Infine esiste una terza categoria intermedia di stelle, che comprende quelle che, pur spostandosi, non sono costrette a sorgere e tramontare: ruotano semplicemente, descrivendo degli archi centrati sulla polare, senza mai discendere al di sotto dell'orizzonte. Noi le chiamiamo circumpolari proprio per questa caratteristica, ma gli Egizi, per esempio, le chiamavano «Imperiture», intendendo con questo che non scendevano sotto la volta celeste.

Osservando poi per più tempo si scoprono tante altre cose, tra le quali le differenze di luminosità delle stelle, il fatto che siano, seppur debolmente, colorate e che le tinte siano alla portata del nostro occhio; poi scopriremo una nuova categoria di astri che hanno la stupefacente proprietà di muoversi rispetto allo sfondo delle stelle fisse e che per questo motivo furono chiamati pianeti (erranti), e così via.


La Luna presenta un aspetto così evidente che non poteva non essere stato notato: le fasi. Il susseguirsi delle fasi, questo continuo ripetersi di aspetti diversi del disco lunare in modo periodico, condusse all'idea di ciclo. Il più antico tentativo di determinare il ciclo lunare risale al paleolitico.

Esistono prove dirette di questo aspetto della astronomia paleolitica. Le prime ricerche in questo senso sono state impostate da un intraprendente ricercatore, Alexander Marshack. Egli aveva notato, su alcune ossa rinvenute in un deposito del paleolitico francese, in particolare in Dordogna, numerose tacche che si ripetevano con una periodicità ben precisa. Un lungo lavoro al microscopio permise a Marshack di stabilire che le tacche si ripetevano con una periodicità di 29 o 30 segni, risultato che gli consentì di avanzare l'ipotesi che tali tacche rappresentassero proprio lo strumento sul quale l'uomo del paleolitico aveva iniziato a tenere il computo delle fasi lunari, che hanno un periodo di 29 giorni e mezzo circa.

La scoperta diede il via a tutta una serie di ricerche analoghe, che portarono ad importanti conferme. Lo stesso modo di misurare il tempo era in uso presso la cultura Ishango, stanziata nel territorio dell'attuale Congo circa 8000 anni fa.

Marshack ha studiato anche alcuni «Bastoni del Calendario» di una popolazione indiana del Nord America, i Winnebago, stanziati nel Wisconsin centrale. Vi sono molti mesi lunari, il cui computo è segnato con delle tacche; queste sono accompagnate da simboli della Luna nuova e della Luna piena. I Bastoni riportano numerosi mesi e mostrano addirittura il tentativo di raccordare l'anno lunare con quello solare.

Bisogna riflettere, ed è una dominante nel pensiero archeoastronomico, a proposito del fatto che gruppi di uomini, anche molto lontani nello spazio e nel tempo, partendo da analoghe situazioni culturali arrivassero alle stesse conclusioni.

Ma la tesi che si vuole dimostrare è la seguente: l'uomo della preistoria disponeva di tutte le condizioni per osservare in modo attento e periodico il cielo e aveva la capacità di farlo.

Noi vogliamo dimostrare che aveva anche interesse di farlo.

Infatti, nel momento del passaggio dal paleolitico al neolitico, vi fu una vera e propria esplosione dell'interesse dell'uomo nei confronti dell'astronomia.

Noi siamo abituati a considerare il passaggio tra i due periodi come il momento dell'introduzione di una grande innovazione tecnica e cioè il passaggio dalla tecnica di scheggiare la pietra a quella di levigarla. Le pietre levigate consentono di ottenere utensili molto più efficienti e quindi è corretto considerare fondamentale questa innovazione, ma la vera rivoluzione che avviene tra i due momenti non è di carattere tecnico, bensì di carattere economico: si assiste cioè al passaggio da una economia di sussistenza, legata alla caccia ed alla raccolta, ad una economia di produzione, basata sull'agricoltura. Questa nuova forma di economia consentiva una incredibile quantità di vantaggi, non solo legati alla nuova dieta, più completa ed equilibrata rispetto alla precedente.

Infatti, prima di tutto, l'agricoltura consentiva, e in alcuni casi comportava, la realizzazione di insediamenti fissi. Di conseguenza l'uomo passava da un vita nomade a una stanziale, con tutti i vantaggi che ne derivavano. I primi timidi insediamenti, realizzati con fragili capanne fatte con mattoni di fango essiccato, crescevano via via fino ad arrivare ai primi villaggi organizzati.

L'agricoltura produceva come conseguenza anche una specializzazione del lavoro, indispensabile per le successive dinamiche di gruppo. Infatti, in un gruppo di agricoltori, un certo numero di soggetti poteva essere in grado di produrre cibo per tutti, svincolando così altri soggetti dal problema del sostentamento. Questi erano quindi in grado di sviluppare altre capacita e di svolgere altre funzioni. Nascevano così i primi artigiani, che potevano produrre utensili, armi, vasi, mattoni, per esempio, ma iniziavano a formarsi anche le prime caste, come quelle guerriere e quelle sacerdotali, per esempio.

Dunque l'introduzione dell'agricoltura era in grado di cambiare completamente le condizioni di vita all'interno di un gruppo. Però, nel contempo, la vaghe idee precedenti circa le stagioni e l'anno non erano più sufficienti. Sicuramente l'idea di anno, inteso come ciclo, doveva già essere acquisita, tale è la sua evidenza osservativa, così come doveva risultare evidente la divisione di questo ciclo in quattro periodi, con condizioni climatiche ben differenti. Ma in funzione dell'agricoltura, e della pianificazione delle principali opere agricole, tra le quali la più delicata risultava essere la semina, la conoscenza spontanea e puramente qualitativa del ciclo non era più sufficiente: era ormai indispensabile giungere ad una conoscenza quantitativa del fenomeno, e segnatamente della durata dell'anno e del periodo dell'anno nel quale ci si trovava.

Possiamo immaginare che l'uomo abbia fatto innumerevoli tentativi per derivare questo dato dall'osservazione di semplici fenomeni naturali, a lui ben noti da tempo, e strettamente legati alle variazioni stagionali. Oltre alle variazioni climatiche, tra le quali la temperatura, l'umidità, le precipitazioni, e gli eventi connessi, il livello delle acque, l'innevamento delle zone più alte, vi sono numerosi fenomeni legati al mondo animale e vegetale. Il più evidente consiste nella caduta autunnale delle foglie, ma anche il letargo, la muta, le grandi ondate migratorie, sono segnali inequivocabili del cambiamento stagionale.

Tutti questi fenomeni, però, se da un lato sono conferme dell'esistenza di un ciclo annuale diviso in quattro periodi, dall'altro sono del tutto insufficienti per determinarne la durata.

Non è possibile, per esempio, determinare un giorno preciso nel quale avvengono le migrazioni e contare il numero di giorni che passano per arrivare alla migrazione successiva. Dunque il problema da un punto di vista numerico rimaneva irrisolto. L'unico modo per determinare la durata dell'anno era quello di affidarsi al cielo. Esistono dei metodi astronomici estremamente semplici che consentono di farlo, e che potevano essere perfettamente alla portata di un uomo del neolitico.

A questo punto l'astronomia assunse la sua funzione più profonda, in quanto ricerca sistematica di fatti osservativi, finalizzati alla realizzazione ed al perfezionamento di un calendario. Popoli antichi si affannarono alla ricerca di soluzioni via via più ingegnose e complesse, nella quali si sovrapponevano conoscenze scientifiche, situazioni geografiche e ambientali, credenze religiose, gerarchie nel rango dei vari astri. Ma i primi passi furono comuni a tutte le culture, perché le possibilità offerte dal cielo non sono infinite e, essenzialmente, si possono ricondurre alle seguenti: osservazione della levata eliaca o del tramonto eliaco di determinate stelle, di cui diremo, altezza del Sole, spostamento del punto di levata, o del tramonto del Sole, sull'orizzonte.


Metodi per determinare il calendario

Vogliamo attirare l'attenzione sull'osservazione della levata del Sole, sia pérché era il sistema più semplice, sia perché da tale metodo derivano notevoli implicazioni che consentono di basare il nostro discorso su fatti osservativi inequivocabili. Immaginiamo di seguire il moto apparente del Sole dal solstizio invernale. La nostra stella, quel giorno, sorgerà in un punto verso sud-est, descriverà un arco molto basso e tramonterà verso sud-ovest. Successivamente, il punto di levata si sposterà verso est, l'arco crescerà ed il punto del tramonto si sposterà verso ovest. Continuiamo a seguire, per semplicità, solo lo spostamento del punto di levata; esso si sposterà progressivamente verso est (un neolitico direbbe verso sinistra), fino a quando, nel giorno dell'equinozio di primavera, il Sole sorgerà esattamente ad est (supposto libero l'orizzonte). Il punto di levata si sposterà ancora progressivamente verso nord est (sinistra), ove raggiungerà un limite estremo nel giorno del solstizio d'estate. Al di là di quel punto il Sole non potrà mai sorgere. Quel giorno l'arco sarà massimo e il tramonto avverrà in un estremo verso nord ovest. Successivamente, si invertirà il moto del punto di levata che ora inizierà a spostarsi verso destra. Il Sole sorgerà nuovamente ad est nell'altro equinozio, quello d'autunno. Continuando il suo spostamento verso destra, giorno dopo giorno il punto di levata ritornerà a sorgere nell'estremo verso sud-est. Anche quest'altro estremo non potrà mai essere superato.

A questo punto è passato esattamente un anno. Prendendo un punto qualsiasi del ciclo, presumibilmente uno dei due estremi per motivi di semplicità, e contando il numero di giorni che il punto di levata impiegava per ritornare nello stesso punto dopo avere percorso un intero ciclo, si determinava immediatamente la durata dell'anno.

Quindi un osservatore poteva, osservando sempre dalla stessa posizione, presumibilmente visualizzata materialmente sul terreno, per esempio con una pietra, utilizzare due pali infissi nel terreno come mire, in corrispondenza dei due estremi raggiunti dal punto di levata del Sole nei solstizi. In questo modo era in grado di determinare la durata dell'anno e di individuare la data. Se avesse voluto essere più preciso, avrebbe potuto piantare un altro palo in corrispondenza del punto di levata del Sole negli equinozi.

Inoltre una serie di pali a distanze regolari avrebbe poi consentito di suddividere l'anno in ulteriori piccole parti e di offrire una maggiore precisione per la determinazione della data.

In linea di principio, tre pali piantati sull'orizzonte, e traguardati da un riferimento fisso, potevano essere sufficienti per stabilire il punto di levata del Sole ai solstizi e agli equinozi, e presumibilmente così avvenne, ma successivamente si inserirono altri fattori che portarono ad una profonda evoluzione dell'astronomia. Innanzi tutto un discorso religioso. I benefici effetti della nostra stella sulle coltivazioni, e la correlazione di questi con la situazione astronomica (altezza del Sole, inclinazione dei raggi), non erano sfuggite ai nostri progenitori che, di conseguenza, furono portati a stabilire un rapporto causa-effetto diffuso.

Il metodo dell'osservazione del Sole è il più semplice, però si possono adottare altri sistemi per determinare la data: vedremo in seguito i calendari lunari.

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I megaliti

I megaliti (dal greco mega = grande e lithos = pietra) sono delle costruzioni di pietra molto diffuse nella preistoria europea.

Essenzialmente i tipi di megaliti sono due: le pietre erette e i dolmen.

Esistono pietre erette di tutti i tipi e di ogni misura: si riserva il nome di stele a una pietra eretta larga e sottile, mentre con il nome menhir si indicano le pietre grezze o vagamente sbozzate.

Si rinvengono stele di tutte le dimensioni: alcune sono alte pochi decimetri, altre possono essere dell'ordine di diversi metri. Quando una stele è lavorata in modo da rappresentare un profilo umano si definisce antropomorfa; talvolta le stele presentano abbozzati dei simboli sessuali per distinguerle; le più elaborate mostrano la testa e i dettagli relativi all'armamento o all'abbigliamento, o entrambi.

I menhir sono invece pietre grezze o solo vagamente sbozzate. Tuttavia anche i menhir possono presentare incisioni, decorazioni, tratti che possano identificare il sesso. Anche nel caso dei menhir si evidenziano megaliti di tutte le dimensioni, ma ve ne sono di molto più grandi rispetto alle stele. Il più grande menhir noto si trova in Bretagna e doveva essere alto più di venti metri, ma attualmente giace al suolo. Comunque non è rarissimo incontrare menhir alti una decina di metri.

Esistono menhir con incisioni, alcuni sono forati, oppure presentano lavorazioni successive; tipici sono alcuni menhir bretoni che sono stati cristianizzati, a volte con una croce, ma a volte con un lungo lavoro che li ha fatti diventare vere e proprie opere d'arte.

Quando una fila di menhir (o di stele) è disposta in circolo si parla di cromlech (dal bretone croum = curva e lech = pietra sacra, pietra altare). Anche se i più belli e i più noti sono circolari, ne esistono di molte forme e talvolta presentano piante molto più complesse: rettangolari, ellittiche, ovali, a forma di barile, a rappresentare significati simbolici.

Quando invece una serie di menhir (o di stele) è disposta lungo una o più linee, si parla di allineamento.

I più estesi allineamenti al mondo sono quelli di Carnac, che presentano migliaia di pietre, ma esistono anche allineamenti di due o tre pietre. Spesso vi sono diversi allineamenti che si incontrano o che sono perpendicolari tra loro.

L'altro tipo fondamentale di megalite è il dolmen, monumento formato da diverse lastre, o pietre grezze, infisse nel terreno, che fanno da sostegno ad una, o più, pietre di copertura, a formare una sorta di "scatola di pietra". Anche in questo caso esistono dolmen alti mezzo metro ed altri nei quali si cammina comodamente eretti, lunghi decine di metri.

La tipologia di dolmen è incredibilmente vasta. Alcuni presentano una serie di pietre che vanno a formare un corridoio di accesso, altri hanno uno o più recessi laterali, o di fondo. Molti sono rettilinei, ma non è raro trovare dolmen con cambiamenti di direzione, i dolmen a gomito, come quello chiamato Les Pierres Plates, in Bretagna.

Quando un dolmen presenta un corridoio di accesso non differenziato, cioè un corridoio che non è più stretto rispetto al dolmen, ma presenta la stessa larghezza, e quindi dall'esterno non è possibile capire dove finisce il corridoio e dove inizia il dolmen, si parla di Allée Couverte (chiaramente nell'interno le due parti sono ben separate)

In alcuni casi i dolmen sono ricoperti da un grande cumulo di terra, e allora si parla di dolmen a tumulo.

In altri casi sono invece coperti da un grande mucchio di pietre che prende il nome di Cairn, o, più raramente, di Galgal.

Non sempre i dolmen sono coperti. In alcuni casi questo avviene perché hanno successivamente perso la copertura, anche perché spesso, nel passato, i grandi cairn venivano usati come comode cave per materiale da costruzione, ma in altri casi i dolmen venivano volutamente realizzati senza alcuna opera di copertura.

Esiste anche un tipologia particolare, nella quale la tavola di copertura presenta delle pietre di sostegno solo da un lato, mentre l'altro è semplicemente appoggiato al suolo. In questo caso di parla di semidolmen.

Molto spesso le grandi aree megalitiche comprendono diversi tipi di megaliti, talvolta legati da significati simbolici o rituali.

I megaliti sono molto diffusi in Europa, ove s'individuano grandi aree con particolari concentrazioni. È molto difficile capire se le motivazioni che hanno portato a una distribuzione così eterogenea siano da individuarsi in una differenza di concentrazioni originarie, o siano piuttosto da imputarsi a successivi fenomeni di demolizione, smantellamento e deterioramento.

È probabile che entrambe le cause abbiano contribuito a produrre la distribuzione che noi oggi osserviamo.

Le funzioni dei megaliti sono molteplici. I menhir sono stati spiegati come cippi confinari, come pietre celebrative, come riferimenti per percorsi su terra o su mare, considerato che erano visibili da molto lontano, come opere difensive, come cenotafi a ricordo di grandi personaggi, come gangli di una rete di comunicazione sonora, come luoghi di culto; a noi interessa la loro funzione di indicatori di una direzione, direzione che molto spesso individuava un punto dell'orizzonte nel quale avvenivano determinati fenomeni astronomici; in questo senso erano pietre di collegamento tra cielo e terra.

Naturalmente nulla osta al fatto che potessero svolgere contemporaneamente molte di queste funzioni.


Un po' più condivisa è la funzione dei dolmen, ai quali molto spesso gli archeologi attribuiscono una funzione funeraria, peraltro in alcuni casi veramente inequivocabile: spesso sono interessati da diversi strati di sepolture e talvolta sono anche possibili datazioni sufficientemente precise.

Molto spesso si dimostrano precise funzioni di tipo astronomico, che non sono assolutamente in contrasto con quelle di culto, anzi. In molti casi i culti erano astrali e quindi lo stesso megalite svolgeva la funzione di osservatorio astronomico e di luogo di culto.

Viene spontaneo porsi una domanda. Quanto un sito può essere considerato luogo di culto e quanto può essere considerato osservatorio astronomico?

In altre parole, venivano realizzati degli osservatori che per motivi religiosi avevano anche determinati orientamenti, o erano luoghi sacri ai quali venivano aggiunte funzionalità astronomiche?

La risposta è semplice: tutti e due. Anche perché, lì dove è possibile studiare cronologicamente la varie fasi costruttive di un complesso megalitico, come nel caso di Stonehenge, in Inghilterra, o di Saint Martin de Corléans, ad Aosta, emerge chiaramente l'inversione delle priorità.

Nelle fasi più antiche vengono utilizzate strutture agevoli da spostarsi e utili a tracciare delle misure, a individuare delle direzioni, consistenti generalmente in una serie di pali. Quindi nei tempi più antichi la funzione prevalente era quella di ricerca della data, di studio del moto del Sole e degli altri astri, e poi, visto che gli astri erano divinità, si consideravano gli "osservatori" come luoghi sacri. Successivamente, quando la sua situazione astronomica era chiarita, il moto apparente degli astri ben noto, ed i principali problemi calendariali erano stati risolti, ecco che allora prevaleva la funzione di culto, spesso accompagnata dalla monumentalità del luogo, ma senza che vi fossero sostanziali novità da un punto di vista delle conoscenze astronomiche.

Difatti l'approssimazione degli orientamenti, al trascorrere del tempo, cresce. Verrebbe la tentazione di pensare esattamente al contrario.

Prendiamo per esempio due dolmen francesi, entrambi della Bretagna. Il primo, Kercado, risale al 4500 a.C. ed è orientato sul punto in cui sorgeva il Sole nel giorno del solstizio invernale con buona approssimazione. Il secondo, La Roche aux Fées (La roccia delle fate), è uno splendido e monumentale dolmen lungo più di venti metri. Questo è molto più recente: vi sono almeno 2000-2500 anni tra i momenti di realizzazione delle due opere. La Roche aux Fées condivide con il primo l'allineamento astronomico, sul sorgere del Sole nel solstizio invernale, però l'orientamento è molto vago, con diversi gradi di approssimazione. Il motivo sta nel fatto che mentre nel 4500 a.C. era ancora fondamentale stabilire, o verificare, la data del solstizio, nel momento di realizzazione del grande dolmen questo era un dato ormai ben noto, mentre persisteva l'aspetto cultuale nei confronti del Sole e quindi l'orientamento diventava un problema puramente simbolico.

Mettiamoci nei panni di un osservatore neolitico che segue lo spostamento del punto di levata del Sole sull'orizzonte. Egli non dispone di un modello, non sa perché il Sole si comporti così e può quindi, legittimamente, temere che le cose possano cambiare.

Quando íl Sole si avvicina al suo estremo connesso al solstizio d'estate, l'uomo sa che presto egli invertirà il moto del punto di levata. Ma considerato che fa caldo, íl numero di ore di luce prevale su quelle di buio, le piante fruttificano ed è possibile cacciare, la sua sarà soprattutto una curiosità di tipo scientifico.

Quando invece il Sole giunge nei pressi dell'estremo legato al solstizio d'inverno e gli archi del Sole, giorno dopo giorno, diventano più bassi, la temperatura si fa sempre più rigida, il buio dura sempre di più rispetto alla luce, le piante sono spoglie e gli animali si rifugiano nelle loro tane, ecco che allora sperare che il Sole riprenda a salire nel cielo, che percorra archi più alti, non è più solo conseguenza di curiosità scientifica. Diventava allora fondamentale stabilire il più presto possibile il momento in cui il Sole aveva invertito il moto del punto di levata, perché solo allora si sarebbe potuto tirare un sospiro di sollievo. Parallelamente questo era anche il momento di preghiere più intense e più, sinceramente, sentite.

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Modello di universo del neolitico

Il cielo perduto del neolitico si può riassumere in una serie di regole non scritte, che sintetizziamo in questo modo:


1. una stella sola è fissa e tutte le altre le ruotano attorno; dunque esiste una direzione privilegiata nel cielo;

2. alcune stelle sono costrette a sorgere e a tramontare, altre si limitano a descrivere cerchi nel cielo, intorno alla stella fissa;

3. il Sole si muove nel cielo in modo complesso, secondo una traiettoria a spirale, ed il suo periodo è di un anno; in corrispondenza delle sue posizioni cambiano le stagioni sulla terra;

4. la Luna ha un moto molto più complesso di quello del Sole; può descrivere archi più bassi e più alti di quelli del Sole; il suo periodo è di 19 anni; inoltre il disco lunare cambia aspetto e presenta il fenomeno delle fasi che durano 29-30 giorni;

5. Sole e Luna in rare occasioni possono sparire dal cielo;

6. i pianeti si muovono rispetto allo sfondo delle stelle fisse;

7. Sole, Luna e pianeti si muovono, comunque e sempre, all'interno di una fascia di costellazioni ben precisa (lo zodiaco).

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Capitolo III

Le grandi aree archeoastronomiche italiane


Saint Martin de Corléans e la Valle d'Aosta

Quando le imponenti piramidi della piana di Giza non erano neppure state concepite, quando i mattoni della torre di Babele non erano stati cotti, quando gli osservatori del Fiume Giallo dovevano ancora affinare le loro tecniche, lungo le rive di un piccolo fiume che raccoglieva le acque dalle più alte vette alpine, un pugno di ispirati sacerdoti-astronomi aveva delimitato una fertile area, consacrandola ad un pantheon primitivo. Per questo motivo aveva arato ritualmente una vasta porzione di terreno, aveva innalzato pietre e pali traguardando le stelle e aveva così seguito i delicati spostamenti nel cielo della Luna.

Questi raffinati osservatori avevano scoperto il complesso percorso del nostro satellite, avevano notato che in un momento particolare del suo ciclo la Luna sembrava scendere in terra ad accarezzare la linea dell'orizzonte a sud di quel luogo e ad essa avevano dedicato il sito.

Poi, lentamente, avevano rivolto la loro attenzione al Sole, alle stelle, ed in particolare al più brillante astro della costellazione del Cigno, la splendente stella che noi oggi chiamiamo Deneb.

E, soprattutto, avevano individuato nel cielo la figura di un grande guerriero, armato di ascia e arco incrociati, con le mani affrontate e le braccia ad angolo retto. In suo onore avevano innalzato due file ortogonali di splendide stele scolpite. Oggi noi abbiamo imposto a quell'asterisma il nome di Orione. Prima di descrivere questo sito, unico al mondo, dobbiamo partire da alcune considerazioni generali.

La Valle d'Aosta è sempre stata un crocevia di passaggi, genti e culture diverse, soprattutto in funzione di due fortunati elementi peculiari del suo tormentato territorio.

Il primo consiste nella presenza di due importanti valichi alpini, i passi del Piccolo e del Gran San Bernardo, oltre ad altre minori vie di comunicazione che consentivano comunque di valicare le Alpi.

Il passo del Piccolo San Bernardo mette in comunicazione l'Italia con la Francia a quasi 2200 metri di quota, mentre quello del Gran San Bernardo consente l'accesso alla Svizzera attraverso un valico più alto, ad una altezza di 2400 metri.

Nell'antichità il clima era differente dall'attuale, come dimostrano pollini fossili rinvenuti proprio nei pressi del Piccolo San Bernardo, e, per molto tempo, le vie alpine sono rimaste aperte molto più a lungo, consentendo scambi di esperienze e materiali per un'importante frazione dell'anno.

La Valle d'Aosta era quindi un passaggio obbligato per coloro che dovevano spostarsi, in Europa, in latitudine.

Il secondo elemento d'interesse consiste in una ricchissima varietà di minerali presenti anche in quantità notevole: gli archeologi hanno infatti individuato molti insediamenti minerari, dai quali si potevano estrarre, tra gli altri, oro e minerali di rame e di ferro.

Alle motivazioni esposte possiamo aggiungere un ulteriore elemento, simbolico, legato alla presenza delle più alte vette alpine. Sappiamo che nell'antichità le montagne più alte erano considerate le dimore degli dèi.

Non c'è quindi da stupirsi della presenza sul territorio di numerosi e importanti siti storici e preistorici, uno dei quali spicca su tutti, quello di Aosta, sito nel quartiere di Saint Martin de Corléans.


L'area megalitica di Saint Martin de Corléans

L'area megalitica di Saint Martin de Corléans è sicuramente da considerarsi uno dei siti più importanti al mondo, non solo dal punto di vista archeologico, ma anche da quello astronomico. Le strutture che mostrano allineamenti su punti dell'orizzonte in cui si verificavano particolari fenomeni astronomici è sorprendentemente alto e significativo. Tali orientamenti riguardano il Sole, alcune stelle brillanti e, soprattutto, la Luna, e sono calcolati naturalmente per il periodo di utilizzo delle strutture in oggetto, ricostruendo l'aspetto del cielo nell'epoca corrispondente.

L'area è stata individuata, casualmente, in seguito a scavi a carattere edilizio, nel 1969 e il numero, la varietà, l'importanza e la delicatezza dei rinvenimenti ha imposto un lungo e difficile lavoro di scavo che ha richiesto ben 30 anni per giungere a termine, anche grazie alla professionalità ed alla meticolosità degli archeologi intervenuti.

Il fatto che l'intera area sacra fosse ricoperta da oltre quattro metri di terreno di carattere alluvionale ha consentito la perfetta e talvolta sorprendente conservazione delle opere e il preciso inquadramento cronologico degli strati.

Di conseguenza il lavoro di ricerca archeoastronomico, effettuato nel 1991 dal prof. Giuliano Romano dell'università di Padova, dal dott. Franco Mezzena e dallo scrivente, pur essendo lungo e complicato a causa del tormentato profilo dell'orizzonte montano circostante, è risultato fortemente favorito da due elementi: il preciso e dettagliato rilievo di tutte le strutture e la possibilità di disporre della perfetta ricostruzione del cielo corrispondente alle varie epoche, vista la precisione della datazione dei singoli strati.

Per comprendere il profondo significo rituale dell'area è necessario riassumerne le principali fasi realizzative.

Fase I. La fase più antica risale all'inizio del III millennio a.C. e consiste nell'innalzamento di un allineamento di 22 pali rituali, di cui rimangono le fosse di alloggiamento, comprendenti in alcuni casi le pietre di rincalzo. Si tratta di pali di straordinaria importanza rituale, come testimonia il fatto che alla base di alcuni di essi siano stati rinvenuti crani di bue inceneriti, sicuramente da ascrivere a riti di fondazione. I resti combusti hanno consentito di datare la prima fase a un periodo compreso tra il 2870 e il 2720 a.C. L'allineamento di pali, presumibilmente totemici, trova riscontro con altri siti megalitici europei e presenta un profondo significato astronomico.

Come già detto, il moto della Luna è estremamente complicato ed, in particolare, ogni 18,6 anni, la Luna descrive nel cielo un percorso originale: un giorno descrive un arco molto più basso del più basso arco descritto dal Sole e, dopo una quindicina di giorni, si trova invece a descrivere un arco altissimo nel cielo, trovandosi così su di una traiettoria molto più alta di quanto possa salire il Sole. Questi fenomeni erano guardati con grande attenzione nell'antichità, come nel caso di Callanish, di cui si è detto.

Nello specifico, quando la Luna era vicina alla sua massima declinazione negativa, si rendeva protagonista di un fenomeno spettacolare e particolare, osservabile dall'area megalitica di Aosta. Il nostro satellite si trovava ad avere il percorso della sua orbita quasi coincidente con il profilo della montagna a sud del sito. Accadeva dunque che, per un tratto lunghissimo, più di 15 gradi, la Luna sembrasse scivolare sul profilo della montagna, fino a venire occultata da una piccola vetta, lungo la quale sono allineate le file di pali.

Fase II. Alle fasi più antiche del sito appartiene anche una vasta area di aratura rituale. L'estensione dell'area, di forma rettangolare, con lati di 68 e 80 metri, ne testimonia l'importanza e lascia solo intravedere la grandiosità dei riti che devono averne accompagnato la realizzazione

Per quanto sia difficile individuare con assoluta certezza la direzione individuata da solchi scavati nel terreno, sembra comunque che la loro direttrice ribadisca la direzione individuata dall'allineamento di pali e ne condivida quindi il significato astronomico.

Successivamente, sempre nella fase II, vennero realizzati altri allineamenti, ma questa volta di stele, alcune delle quali antropomorfe e riccamente decorate, lungo due direttrici ben evidenti: una parallela al più antico allineamento di pali, l'altra vagamente ortogonale alla prima; entrambe presentano significati astronomici ben evidenti: la prima è ancora diretta verso il punto in cui veniva occultata la Luna in occasione del fenomeno di cui si è detto, mentre la direttrice individuata dall'altro allineamento di stele era diretta sul punto di levata di Betelgeuse, la stella alfa della costellazione di Orione.

A ulteriore testimonianza della sacralità dell'area e a conferma di come la vita religiosa fosse ben presente e codificata, anche qui ci troviamo in presenza di un ben preciso rito di fondazione, consistente nella semina di denti umani, in particolare di incisivi, in corrispondenza dell'allineamento principale.

Il lungo esame stilistico delle oltre 40 stele rinvenute mostra una evidente evoluzione da uno stile arcaico ad un successivo stile evoluto.

Caratteristiche dello stile arcaico sono: sagome di dimensioni notevoli, testa minuta, spalle larghe, con realizzazione caratterizzata da scarsi particolari.

A netta differenza dal precedente, lo stile evoluto è caratterizzato da profilo della testa semicircolare, dettagliata rappresentazione del volto e ricercata rappresentazione degli abbigliamenti e degli attributi. È da sottolineare che le stele sembrano voler rappresentare il primo pantheon di divinità alpine noto.

In particolare emerge la stele 30, di cui diremo in seguito.

Fase III. La terza fase vede la realizzazione di due file di pozzi rituali. Tali pozzi sono importanti per un duplice motivo: da un lato sono orientati secondo le due direttrici privilegiate di tutta l'area sacra, confermando il fatto che tutta l'area sacra ruoti intorno a queste direzioni ed al loro significato astronomico, dall'altro confermano i legami tra agricoltura e cielo, visto che sono caratterizzati da profondi riti di fondazione legati alla coltivazione.

Infatti in essi sono state ritrovate macine o semi di frumento talvolta associati a scaglie di pietra o piccoli ciottoli.

Fase IV. Intorno al 2400 a.C. si verifica una vera e propria cesura rispetto alla continuità dal mezzo millennio precedente: l'area non è più solamente area sacra ma diventa area funeraria. Questo fatto deve fare riflettere: troppo spesso si pensa che siti archeologici siano essenzialmente funerari e poi possano, a complemento, anche presentare orientamenti astronomici. Ad Aosta gli orientamenti astronomici precedono di quasi mezzo millennio la prima deposizione, rovesciando completamente gli ordini d'importanza: gli antichi, prima, osservavano il cielo poi, secondariamente, potevano utilizzare le strutture per fini funerari.

Inoltre appaiono i primi orientamenti di tipo solare, come a ribadire un completo cambiamento di mentalità e di priorità religiose da parte degli utilizzatori dell'area.

Questa è comunque la fase monumentale dell'area, con la realizzazione di molteplici significative strutture: tra il 2400 e il 2000 a.C. vengono realizzati il grande dolmen su piattaforma, con corridoio laterale, un dolmen di minori dimensioni su piattaforma semicircolare, una allée couverte, le tombe IV, V e VII, una piccola torre vagamente cilindrica con fossa individuale, la tomba VI a cista individuale.

Il dolmen più grande dell'area presenta alla base una piattaforma triangolare di pietre. Entrambi i lati lunghi del triangolo presentano orientamenti astronomici. Il primo è diretto sul sorgere del Sole al solstizio invernale, l'altro indica il punto estremo in cui poteva tramontare, verso nord ovest, la Luna piena quando descriveva il suo più alto arco nel cielo, durante il suo complesso periodo di 18,6 anni.

La piattaforma è interpretata degli archeologi in modi diversi: Franco Mezzena, che ha scavato l'area, la ritiene una nave funeraria, in linea con molti monumenti europei che hanno questa funzione. O.J. Bocksberger ritiene invece che rappresenti un pugnale con codolo semicircolare.

Noi ci sentiamo di avanzare ancora un'altra ipotesi. Profondi osservatori della natura, gli antichi erano molto attenti ai fenomeni di luce che venivano prodotti dalle montagne grazie ai raggi solari. In alcuni casi i monti sembrano proiettare il loro profilo nel cielo, e da questi fenomeni nasce la leggenda dello «spirito della montagna».

Ad Aosta l'orizzonte occidentale vede una serie di cime che complessivamente producono un profilo frastagliato. Nelle mezze stagioni, il Sole, tramontando dietro questo fronte tormentato, produce una serie di triangoli luminosi molto appariscenti. Niente di più facile che, impressionati da questo spettacolo, gli antichi abitatori dell'area abbiano interpretato il triangolo di luce come una sorta di strada per arrivare al Sole: la piattaforma triangolare potrebbe quindi essere un mezzo per giungere simbolicamente al cielo, concetto che non si discosta poi molto da quello della nave funeraria.

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Conclusioni sui megaliti

Abbiamo esaminato í più importanti siti megalitici conosciuti. Dobbiamo ora porci una domanda spontanea?

Chi e perché ha costruito i megaliti? E, soprattutto, esiste un'unica civiltà megalitica, oppure le stesse esigenze, gli stessi materiali, gli stessi strumenti, hanno fatto sì che popolazioni estremamente diverse tra loro giungessero agli stessi risultati, riscoprendo indipendentemente, migliaia di volte, gli stessi metodi e le stesse tecniche?

Gli archeologi sembrano più propensi a credere alla seconda ipotesi. Tuttavia noi vorremmo introdurre alcuni elementi di sostanziale novità.

Primo tra tutti il simbolo a spirale. La tipica forma della doppia spirale, la sua eterogenea diffusione, le associazioni con altri simboli, le corrispondenze significative tra siti anche molto lontani, sollevano alcuni problemi, ai quali una interpretazione astronomica può fornire spiegazione.

Ma è proprio possibile che tutte le popolazioni antiche che hanno utilizzato il simbolo della spirale abbiano seguito lo stesso processo mentale, indipendentemente?

E, soprattutto, le analogie tra Newgrange e Gavrinis sono veramente casuali?

Vogliamo aggiungere ulteriori elementi, partendo da una domanda.

Perché il menhir di Kerloas presenta il segno che per gli Egizi significava dio? È semplicemente un caso anche questo?

E poi, riportiamo una circostanza ancora più straordinaria: il più lungo, esteso, imponente allineamento di pietre erette (più di un chilometro, per un migliaio di pietre su dieci file) si trova in Bretagna, a Carnac. Il più lungo, esteso, imponente allineamento di sfingi si trova in Egitto, a Karnac. Entrambi i nomi si pronunciano allo stesso modo. È solo un caso? O vi è un filo conduttore che lega la Bretagna all'Egitto e noi ne abbiamo colto solo, casualmente, alcuni elementi?

Vogliamo aggiungere che, nel passato, il nome della città francese si scriveva con la lettera K.

In un libro, pubblicato nel 1827, Antiquités de la Bretagne. Monuments du Morbihan, l'autore, cavaliere di Fréminville, descrive con meraviglia i megaliti di Carnac:

Parvenu au sommet de la colline, la plaine de Karnac s'offrit tout à coup à mes regards avec ses bruyères sauvages, son horizon bordé de bois de pin, et surtout avec cette phalange de pierres.

(giunto in cima alla collina, la piana di Karnac si offrì di colpo al mio sguardo, con le sue brughiere selvagge, il suo orizzonte bordato di boschi di pino e soprattutto con quella falange di pietre)

È da notare che l'autore scrive ancora Karnac, con la K iniziale.


Torniamo ai megaliti, facciamo un salto di migliaia di chilometri e prendiamo in considerazione il sito africano di Sine Ngayène. Oltre alla indubbia somiglianza tra i nostri megaliti e quelli africani, vi sono strabilianti analogie circa alcuni termini.

Come già detto, nel bretone antico, Ker significa casa, dimora, villaggio, e da lì derivano i nomi Kermario, Kerlescan, Kervillard. Ebbene nel wolof, parlato ancora oggi a Sine Ngayène, il termine Ker significa casa. Quali sono le probabilità che il fatto sia casuale?

Come se non bastasse, sappiamo che per gli antichi Celti, i primi abitatori della Bretagna che abbiano lasciato qualcosa di scritto, la pianta sacra era il vischio, che ancora oggi i francesi indicano con il termine gui. Per le popolazioni del Senegal, ancora oggi legati a forti riti primordiali e a una religione islamica fortemente contaminata da radicate credenze animistiche, esiste una pianta sacra, alla quale devono moltissimo, che è il baobab. Ebbene nel loro linguaggio, il wolof, baobab si dice guy.

È un caso anche questo?

Si possono forse ipotizzare, anche se con difficoltà, contatti diretti tra l'Irlanda nord orientale e la Bretagna del sud; ma è molto difficile, se non totalmente non ipotizzabile, pensare a scambi culturali tra Newgrange, la Bretagna, la Valle d'Aosta e il Chaco Canyon, non solo in relazione alla distanza geografica, ma anche per la distanza temporale, più di 4000 anni, che separa gli edificatori di Newgrange dagli Anasazi.

Allora esistono sole tre spiegazioni.

Primo: si può supporre che tutti gli elementi discussi nel nostro lavoro presentino analogie esclusivamente casuali.

Seconda ipotesi: si può ipotizzare che popoli diversi, lontani nel tempo e nello spazio, ma di livello culturale paragonabile, abbiano osservato, interpretato e rappresentato lo stesso fenomeno allo stesso modo.

Terza più affascinante idea: il sapere dei costruttori di megaliti ha una matrice comune, lontanissima e celata dagli abissi del tempo. A noi emergono spezzoni di questo antico sapere, come la punta visibile di iceberg, e magari gli elementi più stupefacenti sono poco lontani da noi.

Il bello delle pagine della scienza è che si lasciano sfogliare una alla volta e molte sono le situazioni nelle quali è prematuro scegliere una soluzione piuttosto che un'altra.

Ma sarebbe straordinario scoprire che, in realtà, i cieli perduti sono uno solo.

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Capitolo V

Gli Egizi


Per introdurre l'astronomia degli Egizi, bisogna partire da una considerazione generale: l'Egitto si estende su di una striscia di territorio stretta e lunga, molto estesa in latitudine, con tutto ciò che questo fatto comporta da un punto di vista astronomico; inoltre la civilità egiziana, dall'unificazione delle due corone dell'Alto e del Basso Egitto alla fase di ellenizzazione, si è sviluppata lungo un periodo di tempo dell'ordine di oltre tre millenni. È evidente che non potremo confrontare le conoscenze astronomiche del terzo millennio con l'avanzata scienza ellenistica del Delta.

Dunque, nonostante l'Egitto sia sempre stato caratterizzato da una lunga continuità culturale, favorita dall'elemento unificatore del Nilo, tale unità non era così rigida da impedire l'emergere di abitudini, riti e culti locali. Così i miti sono molteplici, le divinità sono complesse e presentano aspetti che talvolta appaiono quasi contraddittori, e le cosmogonie sono numerose.

Come considerazione generale a proposito dell'astronomia degli Egizi, possiamo affermare che essa era straordinariamente importante, strettamente connessa con ogni attività della vita quotididana e dei riti religiosi, e compenetrava ogni pensiero scientifico e religioso. Tuttavia, dal punto di vista tecnico, non era eccessivamente avanzata: l'astronomia era estremamente diffusa, ma in funzione di un significato prevalentemente simbolico.

Le fonti su cui possiamo fondare le considerazioni che seguiranno sono molteplici e comprendono numerosi documenti di un'ampia e notevole letteratura, scritta sul papiro, o sulle pareti dei templi, o sui sarcofagi, oltre agli orientamenti delle strutture architettoniche e alle cronache lasciateci dai grandi storici greci.


La cosmogonia

All'inizio vi era solo il Nun, l'Oceano Primordiale, che si estendeva infinito e incontrastato e permeava tutto l'universo. Poi sorse Ra, il Sole (nella forma di Atum, secondo alcuni testi) e generò le prime divinità: Tefnut, il Vuoto, e Shu, l'Aria (o Soffio Vitale).

Shu e Tefnut si unirono dando origine a Geb, la Terra, e a Nut, la Volta Celeste. A loro volta, Geb e Nut generarono quattro divinità: Osiride, Seth e le rispettive spose, Iside e Nefti.

Osiride governava sull'intero Egitto: sotto la sua guida illuminata l'Egitto visse un'età prosperosa e felice: Osiride fissò le Leggi, regolò le piene del Nilo, istruì gli uomini su come effettuare le opere più importanti, come la coltivazione del terreno e l'adorazione degli dèi. Spesso Osiride si allontanava dall'Egitto per portare la civiltà e la conoscenza agli altri popoli. Egli si recò così in Etiopia, poi si spostò verso il Delta del Nilo e da lì raggiunse l'Arabia. I suoi viaggi lo portarono anche in India e in Europa.

In ogni luogo, in senso di gratitudine e riconoscenza per gli insegnamenti impartiti, gli vennero innalzati monumenti e templi.

Ma Seth, invidioso del fratello, lo uccise, disperdendone il corpo, diviso in 14 parti, su tutto l'Egitto. Il numero 14 non è casuale, ma rappresenta probabilmente mezza lunazione. La sua fedele sposa Iside e la sorella Nefti, pentita e sconvolta per il gesto del marito (o precedentemente sedotta, secondo altre tradizioni), si misero alla ricerca di Osiride. Percorso a fatica l'Alto e il Basso Egitto e ritrovati tutti i pezzi, Iside ricompose Osiride avvolgendolo di bende come una mummia e con un incantesimo gli ridiede la vita, ma solo per una notte. Tuttavia quel breve lasso di tempo fu sufficiente per coronare il loro sogno d'amore. In quella irripetibile notte fu generato Horo, il quale crescerà e vendicherà il padre, affrontando Seth in un mitico duello.

Questa era l'idea dell'origine dell'universo secondo gli influenti sacerdoti di Eliopoli.

Ad Ermopoli si sosteneva un'ipotesi totalmente diversa. Secondo i sacerdoti ermopolitani, nel Nun infinito, l'oceano primordiale, sorse improvvisamente un'isola, sulla quale nacquero quattro coppie di divinità, formate da quattro serpenti (maschi) e altrettante rane (femmine). Erano Nun e Naunet (le Acque Primeve), Kek e Kehet (le Tenebre), Heh e Hehet (il Tempo Indefinito) ed Imen e Imenet (l'Inconoscibile), le quali depositarono sull'isolotto l'uovo cosmico, dal quale nacque il Sole.

I sacerdoti menfiti avanzavano ancora un'altra versione. Secondo questi ultimi fu Ptah, con altre otto divinità, a creare l'universo e a generare il Pensiero, rappresentato dal Falco Horus, e la Parola, identificata con l'Ibis, Thot. Secondo la stele di Shabaka (XXV dinastia), conservata al British Museum, «Ptah l'antichissimo è colui che sotto l'aspetto di Atum è manifesto come il cuore e la lingua, in cui Horo e Thot hanno rispettivamente preso forma come Ptah».

Comunque, a prescindere dalla nascita di Ra, sono molti i modelli di universo più antichi che mostrano il dio Geb, sdraiato, che rappresenta la terra, sopra al quale si trova Nut, inarcata, che impersonifica la volta celeste; il corpo di Nut è sostenuto dall'aria, Shu. Talvolta il corpo di Nut è rappresentato con le stelle sul ventre, altre volte sono rappresentati gli astri che si spostano, in barca, sul corpo di Nut.

Altre rappresentazoni dell'universo sostituiscono il corpo di Nut con quello di una grande vacca, posta con le zampe sui quattro punti cardinali, la Vacca celeste.


La cosmologia

Secondo il modello cosmologico egiziano più diffuso, l'universo presentava la forma di un parallelepipedo, allungato in direzione Nord-Sud, come il Nilo. Il fondo di tale figura solida non era piatto, ma era caratterizzato da un leggera concavità in corrispondenza del centro, ove si situava l'Egitto. Tutta la Terra era circondata da una corona di alte montagne. Quattro picchi che si ergevano su tutte le altre vette, in corrispondenza dei punti cardinali, avevano la funzione di sostenere la volta celeste. Questa era rigida, formata da bronzo secondo alcune tradizioni, e tutta traforata. Da ogni foro pendeva una stella, che rimaneva accesa di notte e si spegnava di giorno; anche il geroglifico che significa stella lo ricorda: infatti stella si indica con un asterisco appeso ad un filo.

Le montagne erano, a loro volta, circondate da un fiume smisurato, di cui il Nilo era un ramo, mentre il ramo celeste era rappresentato dalla Via Lattea. Tutti gli astri, che erano contemporaneamente divinità, percorrevano il cielo utilizzando il mezzo di trasporto più diffuso in Egitto: la barca. Il Sole percorreva il ramo terrestre durante il giorno, e quindi era visibile, mentre, durante la notte, navigava sul ramo celato dalle alte montagne, diventando invisibile. Inoltre il Sole percorreva il fiume stando sempre dalla parte più prossima alla riva. Per tale motivo, quando d'estate il Nilo rompeva gli argini ed inondava di provvidenziale limo la campagna circostante, anche il Sole seguiva le acque, avvicinandosi agli uomini e scaldando con maggior vigore. Quando invece, d'inverno, il Nilo rientrava negli argini, ecco che anche Ra era costretto a ritirarsi. Con tale ingenua spiegazione venivano interpretati la differente altezza del Sole sull'orizzonte al trascorrere delle stagioni ed il ciclo stagionale stesso.


I testi

I Testi delle Piramidi sono i testi più antichi e ci consentono di rilevare numerose conoscenze di tipo astronomico. Il loro nome è dovuto al fatto che essi erano veramente rappresentati sulle pareti delle piramidi.

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Una nuova scienza: l'etnoastronomia

Dopo tutte queste pagine crediamo di avere dimostrato che l'astronomia ha sempre rivestito, presso tutte le popolazioni antiche, un ruolo importantissimo. Talvolta l'approccio era più simbolico, altre volte più tecnico. Alcuni popoli credevano che si potessero prevedere gli avvenimenti futuri guardando le stelle, o i fulmini, o il fegato di una pecora o ancora interrogando gli antenati tramite un carapace di tartaruga. Alcuni sacerdoti sostenevano che il futuro fosse immutabile e inesorabile, altri spiegavano che i riti e le preghiere potevano invece modificare il corso degli eventi.

Ma tutti i popoli hanno sempre osservato con attenzione il cielo anche perché la volta celeste, pur con le differenze dovute alla latitudine, è comune a tutti. Vi erano popoli nati sulle coste del mare, civiltà sviluppate nel deserto, gruppi insediati sulle più alte vette. Vi erano popoli che non sapevano che cosa fosse il mare, altri che non avevano mai conosciuto la neve; taluni vivevano immersi nella nebbia, altri vedevano le nubi poche volte all'anno. Era normale che le condizioni ambientali influenzassero le abitudini di vita.

Ma il cielo era, tutte le notti, il soffitto quotidiano che ogni popolo vedeva, osservava ed interpretava.

Ecco perché, per conoscere gli aspetti più reconditi e intimi di una popolazione, lo strumento più efficace che ci sia è quello di utilizzare la scienza più antica nota: l'astronomia.

Le usanze, le credenze e i riti di tutti i popoli sono così strettamente connesse con l'astronomia che si può parlare di una nuova scienza: l'etnoastronomia.

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