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| << | < | > | >> |Pagina 9Suonano alla porta. Édith è seduta al tavolo da pranzo, sta lavorando. Basta, non mi muovo, dice fra sé, è quasi buio, chi può essere? Ma si alza e va ad aprire. È Aïcha, la portiera del 31, tutta un sorriso, in compagnia di una donna più anziana. Édith non se l'aspettava. Incontra spesso Aïcha per strada o nei negozi, è un personaggio del quartiere, la chiamano Radio Aïcha, ma non l'aveva mai vista nel suo stabile. Aïcha si scusa con piccoli movimenti delle mani e della testa: sta suonando a tutte le porte della via, le ruberà solo un minuto. «Conosce mia madre?» chiede. E senza aspettare risposta aggiunge: «Sta cercando lavoro». La donna accanto a lei rimane impassibile. Sta lì impalata, con la bocca cucita, un fazzoletto nero in testa e le mani intrecciate sulla pancia. Impassibile e tesa, nota Édith, che per un attimo si chiede se parli francese. Aïcha le spiega che la madre lavorava in una tintoria a Passy. Sei mesi fa il titolare è fallito, nessuno ha rilevato l'esercizio e i due dipendenti sono stati licenziati. «Sta cercando dappertutto» dice Aïcha, «ma ancora non ha trovato niente. Tra un attimo non avrà più un soldo, tra l'altro era registrata come part-time, sorvoliamo. Stira alla perfezione, sa anche cucire, e ho avuto un'idea: se quindici o venti famiglie del quartiere la prendessero per due o tre ore la settimana risolverebbe i suoi problemi. Potrebbe tenere la camera». Gilles è entusiasta dell'idea. Da dieci anni dedica molto tempo e un po' di denaro alla SNC, un'associazione che assiste le persone senza lavoro finché non ne trovano uno. Allo scopo, tra le altre iniziative, la SNC finanzia contratti a termine tramite donazioni o contributi degli associati. L'idea di Aïcha è il principio base della SNC, si entusiasma Gilles, vera solidarietà diretta.
Si dichiara più che d'accordo. C'è da dire che in casa è quasi
sempre lui che stira. Édith è negata e odia stirare. Gilles no, ma
sebbene si dedichi alle proprie camicie di buon grado, stirare i
jeans dei ragazzi, le tovaglie e le federe lo annoia da morire.
L'idea funziona. Non subito, e naturalmente non in un'unica
strada. Sta di fatto che tre mesi dopo Fadila lavora tra le venti e
le venticinque ore alla settimana. Non ne vuole di più. «Io no
giovane» dice. E comunque le serve del tempo per sé. Abita a
Saint-Augustin, ma va a comprare il pane ad avenue de Clichy,
il pane piatto che piace a lei e che si conserva bene. E per lavarsi
si reca a Boulogne, dove i bagni pubblici sono pulitissimi, «no come a 93».
Va da loro il martedì dalle quattro alle sette. O dalle cinque alle sette, se fa tardi. O dalle quattro meno venti alle sei, se ha il figlio a cena e deve cucinare. O il mercoledì, se il martedì aveva troppo da fare e sarebbe potuta venire solo per un'ora. La cosa dà sui nervi a Édith. A Gilles non importa, non torna mai prima delle otto di sera, ma lei lavora in casa, e già con i figli non è semplice, ha bisogno di sapere su quante ore di isolamento può contare.
«Perché problema?» replica Fadila. Cosa cambia che venga
il martedì o il mercoledì? Ha le chiavi, sa quello che deve fare,
si organizza benissimo da sola.
Il secondo martedì, guardandola negli occhi, ha detto a Édith: «Mai scuola, io». Aveva il solito volto impenetrabile. Édith ha impiegato qualche settimana a capire che ciò non significava soltanto non aver imparato a leggere e scrivere il francese, ma anche non aver mai imparato a leggere e scrivere l'arabo. Quasi subito comincia a portare a Édith la sua corrispondenza, spesso ancora nella busta. Fatture, convocazioni, pubblicità: Fadila non fa differenza, la posta la mette in agitazione, deve farla leggere a qualcuno. «Io stupida» dice. Non sa firmare, fa una specie di piccolo zigzag. Parla al telefono senza difficoltà, ma non è mai lei a chiamare. Da principio Édith si spazientisce. «Va bene che cambi l'ora, o anche il giorno, ma mi dia un colpo di telefono. Mi avverta». Poi capisce il motivo di quel comportamento. Il problema è individuare il numero da comporre. Nella borsa Fadila ha un vecchio taccuino con numeri di telefono scritti in grafie e colori differenti. «Mette vostro numero a quaderno» ha detto a Édith il giorno in cui le ha raccontato di non essere mai andata a scuola. Conosce «un po'» i numeri. Fa spallucce: bisogna pur leggere i prezzi nei negozi. Ma distinguere i numeri di telefono sul suo taccuino, differenziarli gli uni dagli altri, è una faccenda ben diversa. Non ne è capace. La cosa più fastidiosa è che è in grado di spostarsi soltanto in autobus, perché dall'autobus vede dove si trova, riconosce i luoghi, sa dove scendere. In metropolitana può fare solo tragitti diretti, a condizione che prima qualcuno l'abbia accompagnata più volte facendole vedere la direzione da prendere e la banchina giusta, e contando insieme a lei il numero delle fermate. «Dopo va bene» dice. In questo modo va a trovare Zora, l'altra sua figlia, a Aubervilliers. Ma è incapace di cambiare linea. E no, non le piace chiedere la strada agli sconosciuti.
Da Saint-Augustin, per andare a casa di Édith e Gilles nel
XV arrondissement, prende l'80. Più volte arriva in ritardo e di
cattivo umore. «C'è manifestazione, tre quarti d'ora aspetta
autobus». Oppure l'80 è stato deviato, lei si è spaventata, è scesa
a Invalides e ha continuato a piedi. Mezz'ora di camminata.
Perché è scesa a Invalides e non più vicino? Perché conosce
l'Hôtel des Invalides, lo riconosce. I monumenti sono come boe
per lei, mentre con le strade si confonde.
Parla un francese comprensibile ma disseminato di errori,
soprattutto di coniugazione, con soppressioni di ausiliari, l'uso
ostinato della terza persona («No capisce», «No viene») e graziose
approssimazioni («Lui ti saluta» per dire «Lei le manda i
suoi rispetti»: usa indifferentemente "lui" o "lei", che pronuncia quasi allo
stesso modo), salvo di quando in quando
uscirsene con un'espressione perfetta tipo «Mi sono sforzata
troppo» o «La signora anziana? Non posso rifiutarle nulla».
Non conosce la sua età. Sui documenti è scritto che è nata nel 1945, ma l'unica cosa sicura è che non è vero. Quando è venuta a vivere in Francia le hanno chiesto la data di nascita e lei ha risposto che non la sapeva. Il funzionario l'ha guardata e ha detto: «Metto 1945, va bene?». Fadila ci ride ancora. Ringiovanire di colpo è un regalo che non si rifiuta mai. Se sua madre fosse ancora viva saprebbe di sicuro l'anno in cui è nata. Lo saprebbe nel modo che era consueto in Marocco quando non esisteva un'anagrafe, avrebbe detto "l'anno della gelata dei mandorli", "il quarto anno della grande siccità" o "l'anno del terremoto". «Non le è mai venuta voglia di imparare a leggere?» le chiede Édith. «Sì, io cominciato» dice Fadila. Qualche anno prima si era iscritta a un corso in una parrocchia non lontano da casa sua. Non ricorda più il nome della chiesa. «Poi lasciato perdere». La responsabile del corso l'ha chiamata più volte insistendo perché riprendesse. «Detto quasi ce la fa, io». Gli altri partecipanti al corso hanno tutti imparato a leggere. Fadila alza le spalle. È stata la difficoltà a farla mollare? Non ci riusciva? Niente affatto. «Signora detto io riconosce lettere meglio di tutti». Mentre parla fa con il mento e con le mani il gesto di avere una lavagna davanti.
Ma le lezioni erano di sera, e non proprio sotto casa. Le
costava fatica uscire di nuovo dopo cena.
Sorride di rado. Quando arriva, saluta piantando gli occhi in
quelli di Édith, seria. Se è contrariata, sta zitta e assume un'espressione di
pietra. Édith la sente sbatacchiare tavola da stiro, sedia, porta.
Fadila sa che appena le danno un assegno lo deve girare.
Prima di infilarlo nella borsa lo volta e sul retro, con cura,
traccia quella specie di zeta che le funge da firma.
Ha certi sguardi che fanno paura. Lasciano apparire in superficie una violenza interiore pronta a esplodere, un'amarezza continua tenuta più o meno a freno in presenza di persone che non fanno parte della sua cerchia più intima.
Sembra dura, e così tanto spesso, che con lei si è sempre sul
chi vive, pronti a tirarsi indietro.
Dell'alloggio non si lamenta. La camera al sesto piano è piccola ma situata in un «quartiere buono», a rue de Laborde. «Tranquillo. Solo gente co' soldi». Il suo piano è ben tenuto e i vicini sono brave persone: un «signore di Cambogia» che vive lì da più di vent'anni, una coppia di tunisini «molto gentile» e uno studente i cui nonni abitano al quinto piano.
Per l'affitto della stanza Fadila paga 120 euro a una signora
del palazzo, e sa che non è caro. L'unico problema è che la
signora non le vuole dare la ricevuta. Si fa pagare in contanti. E
ai servizi sociali, che più volte hanno prospettato a Fadila la possibilità di
un sussidio per l'alloggio, le hanno spiegato che prima
di tutto avrebbe dovuto mostrare le quietanze dell'affitto.
Va per strada con un fazzoletto nero sulla testa, annodato sotto il mento, che le nasconde i capelli. Porta vestiti lunghi, gonna e soprabito fino alle caviglie. Ma nessuno la nota, nessuno guardandola pensa: una donna col velo.
Per lavorare si cambia. Toglie il fazzoletto nero e lo sostituisce con uno
bianco che si annoda sulla nuca. Infila un camice
bianco di tessuto spesso che sul davanti, stampato in blu a
inchiostro indelebile, porta scritto AP-HP Hôpital Cochin. «Sei
un'infermiera?» le chiede il piccolo Paul. Lei ride e gli scompiglia i capelli.
«No, comprato grembiule a mercato di pulci, Saint-Ouen».
Ha un debole per Paul. Ha capito che dei tre ragazzi è il solo ad avere senso pratico. Un giorno il ferro da stiro non funzionava, non faceva più uscire il vapore, e né Édith né Fadila sapevano cosa fare. Paul l'ha guardato e in tre secondi l'ha sbloccato. Qualche settimana dopo vede che la tavola da stiro traballa. Sono saltate due viti. «Dove sta Paul?» tuona Fadila. Édith dà un'occhiata all'orologio: «Sarà qui tra un quarto d'ora». Fadila si rilassa. Paul riparerà sicuramente la tavola da stiro. «Ragazzo intelligente, lui».
La camera di Édith e Gilles ha le pareti color zafferano,
moquette rosa scuro, di un bel rosa sostenuto ma non troppo
vivace, e alle finestre tende pesanti in cui predomina l'arancione. «Questi,
belli colori» dice Fadila a Édith. «Bravo! Colori come a Marocco, belli».
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