Copertina
Autore Roberto Costantini
Titolo Tu sei il male
EdizioneMarsilio, Venezia, 2012 [2011], Vintage , pag. 670, cop.fle., dim. 14x21,4x4 cm , Isbn 978-88-317-1311-5
LettoreAngela Razzini, 2013
Classe gialli , noir , citta': Roma
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Pagina 11

Gennaio 1982



«Piatto» fu la prima parola che sentii dire ad Angelo Dioguardi.

Ero entrato nella stanza piena di fumo solo perché c'era il mobile bar e volevo riempirmi il bicchiere dalla bottiglia di Lagavulin che avevo adocchiato.

Conoscevo di vista tre dei quattro che stavano giocando a poker, ma non il ragazzo alto con i capelli biondi lunghi e arruffati, í basettoni e gli occhi azzurri. Davanti a lui erano ammucchiate quasi tutte le fiches.

«Cazzo, Angelo, è più dei miei onorari di un mese» borbottò il giovane avvocato con cui si stava contendendo il piatto. Il che voleva comunque dire che l'avvocato guadagnava dieci volte quello che guadagnavo io.

Il biondo fece un sorriso contrito, quasi a scusarsi. Era l'unico a non fumare, l'unico senza whisky davanti. Diedi un'occhiata al tavolo mentre mi versavo il Lagavulin. Un giro di teresina. Le carte scoperte davano vincente l'avvocato. Ce n'era una sola che, se fosse stata la sua carta coperta, avrebbe dato al biondo un punto che l'avvocato non poteva battere.

Gli lanciai una breve occhiata e lui mi rimandò un sorriso affabile. Poi uscii dalla stanza, senza aspettare la decisione dell'avvocato.

Di là mi aspettava Camilla, il motivo per cui mi trovavo lì quella sera. La padrona di casa, Paola, l'avevo conosciuta quando era venuta al commissariato di zona a denunciare il presunto furto del suo schnautzer, sparito mentre scorrazzava nel parco. Era molto carina anche se un po' troppo fine per i miei gusti. Così le avevo fatto ritrovare il cane, che si era solo perso, e le avevo chiesto di uscire per una pizza. Nove volte su dieci il mio fascino sofferto, combinato con l'autorità del distintivo, funzionava. Lei aveva riso di gusto aggiungendo: «Sono superfidanzata, e sono fedele. Ma avrei un'amica carina da presentarti, a lei piacciono quelli machi, un po' torvi come te. Se vieni domani sera a casa mia...»

Viveva in un lussuoso appartamento a Vigna Clara, uno dei quartieri bene di Roma. Un terzo piano che dava su una piazzetta tranquilla, alberi, aria, nessun rumore. Pagato dai genitori che vivevano a Palermo, per farla studiare a Roma. L'amica Camilla non era niente male, solo anche lei un po' troppo snob. Ma negli ultimi dodici anni avevo deciso che, persa l'unica donna che aveva contato veramente qualcosa, mi sarei accontentato della somma dei particolari delle altre. A trentadue anni riuscivo a immaginare almeno un particolare positivo in ogni femmina carina che mi capitava a tiro. Naturalmente avevo scoperto da tempo che il "particolare" di una donna si scopre solo attraverso il sesso. Quando i gesti, gli sguardi, le parole, i sospiri riescono a essere quasi veri.

Quella sera, comunque, non c'era molto da combinare. L'amica di Paola restava lì a dormire, per cui non c'era modo di concludere. Verso mezzanotte stavo cercando una scusa per eclissarmi. In quell'ambiente di ricconi io, giovane commissario di polizia, ero sicuramente l'unico che la mattina dopo avrebbe dovuto alzarsi alle sei e mezza. Mi accingevo ad andarmene quando i pokeristi rientrarono in salotto: tre cani bastonati e il biondo con gli occhi azzurri un po' brilli.

«Paola, il tuo fidanzato ha più culo che anima» disse l'avvocato salutando la padrona di casa insieme agli altri.

Il biondo si stravaccò sulla poltrona davanti alla mia. Ora che aveva finito di spennarli teneva in mano la bottiglia di Lagavulin. Se ne versò una dose generosa e vedendo il mio bicchiere vuoto lo riempì senza neanche chiedermelo. Alzò il suo per un brindisi. L'abbigliamento, i capelli incolti, i basettoni, tutto lo rendeva inadeguato a quella casa e a quella compagnia, più o meno quanto me. Solo che io ero un artista dell'ipocrisia, un camaleonte che nei Servizi aveva appreso come celare il disprezzo. Lui un ragazzo di periferia genuinamente fuori posto.

«A questo magnifico whisky. E a chi lo apprezza» disse con la cadenza romanesca della periferia.

Mi offrì una sigaretta. Fumava quelle terribili Gitanes senza filtro che lasciavano tabacco sulla lingua e puzza ovunque. «Ma hanno un grande gusto» disse per incoraggiarmi. «E comunque le conto, mai più di dieci al giorno.» Erano sigarette che nessuno fumava nella Roma bene, dove la marijuana era chic ma le senza filtro facevano tanto borgataro. Insomma, il biondo non apparteneva a quell'ambiente, era chiaro. Ma pensai che se Paola se l'era scelto e gli era tanto fedele quell'uomo doveva avere delle doti nascoste. E le uniche che potevo immaginare erano quelle che si dimostrano a letto.

«L'hai vinto quel piatto?» gli chiesi. Lui annuì, ma non mostrò alcun interesse per l'argomento.

«Allora hai davvero un bel culo. C'era solo un kappa rimasto con cui potevi fare scala. Su almeno dieci possibilità...»

Non disse nulla. Solo dopo molto whisky riuscii a fargli confessare che non aveva altro che due nove. «Segreto professionale» mi disse per farmi capire che mi stava facendo una confidenza importantissima. Ma l'avvocato se l'era fatta sotto e aveva passato.

Mentre Paola e Camilla chiacchieravano in cucina, Angelo si interessò al mio mestiere.

«Bravo Michele, almeno tu hai una causa per cui alzarti ogni giorno.»

Scossi il capo. «In realtà è tutta routine. In un quartiere come questo una delle mie massime emozioni è stata quella di ritrovare lo schnautzer della tua fidanzata.»

«Ah sei tu che l'hai trovato. E in cambio...» indicò con un sorriso la cucina.

«Be', Camilla non è male. Peccato che stasera resti a dormire qua.»

Lui ci pensò su un attimo. Poi lo vidi alzarsi barcollando e precipitarsi in bagno senza chiudere la porta. Conati, lamenti. Le ragazze accorsero, io pure. Giaceva pallido sul pavimento, aveva vomitato nel lavandino.

«Chiamo un medico» disse Paola allarmata.

«No, no» gemette lui. «Michele, falle uscire e aiutami un attimo, e voi ragazze intanto per favore fatemi un caffè nero.»

Mentre Paola e Camilla, interdette, tornavano in cucina, Angelo mi strizzò l'occhio.

«Stai tranquillo, non è niente. Ma adesso bisogna spaventarle ancora un po'.»

Si ficcò due dita in gola. Nuovi conati e le ragazze tornarono in bagno.

«Chiamo un medico» disse Paola ancora più preoccupata.

Assunsi il tono sicuro che avevo quando lei era venuta a denunciare la scomparsa dello schnautzer. Deciso, calmo, rassicurante. Sapevo quel che facevo. «No, il peggio è passato. Ci penso io.»

Andò avanti ancora un bel po', tra conati e lamenti ben simulati. Poi presi Angelo in spalla per portarlo sul letto matrimoniale di Paola.

«Cazzo quanto pesi» gli dissi mentre lo scaricavo.

«Devi faticare almeno un po' per fartela...» Mi strizzò l'occhio di nuovo, ricominciando a gemere debolmente.

Arrivarono le ragazze con il caffè nero. Angelo lo assaggiò tra mugolii di disgusto.

«Che facciamo?» Le ragazze aspettavano istruzioni, soggiogate dalla mia calma di fronte allo sfacelo.

«Fallo restare per la notte» disse Angelo prendendo la mano di Paola, «se mi sento male c'è lui...»

Mi offrii coraggiosamente di dormire in salotto con lo schnautzer, visto che Camilla occupava la stanza degli ospiti. Fu un gesto molto apprezzato. Poi, durante la notte, Camilla ebbe lo scrupolo che lo schnautzer russasse e mi fece spostare nel suo letto.

Così conobbi Angelo Dioguardi.

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Angelo doveva informare il cardinale Alessandrini di alcune cose prima di scendere a pranzo.

«Sali con me, Michele, sarà contento. Conoscere un poliziotto può sempre essere utile» concluse ridacchiando.

L'attico del prelato era enorme: un ampio salone, tante stanze e tanti bagni. Più un grande terrazzo sul parco del complesso, da cui si vedeva fino all'ingresso su via della Camílluccia, dove c'era la guardiola della portiera. Il salone era pieno di giovani preti e suore di colore che discutevano in francese. Una specie di ostello della gioventù cattolico, di lusso.

«Sono quelli che dobbiamo sistemare, dovevano ripartire questa mattina ma nel loro paese è in corso un colpo di Stato e hanno chiuso l'aeroporto» spiegò Angelo.

Alessandrini, unico bianco oltre a noi due, si aggirava in abiti civili tra i ragazzi offrendo limonata fresca da una grande caraffa. Un piccolo uomo di mezza età da cui emanava una forte energia. I suoi corti capelli grigi contrastavano con gli occhi neri, vivi e intelligenti.

Si avvicinò tendendomi la mano con un sorriso. «Lei dev'essere Michele Balistreri.» Poi, voltandosi verso Angelo: «Servitevi un po' di limonata. Io arrivo subito.»

Lo vidi andare al telefono. La conversazione fu breve, in un inglese perfetto.

«Dica da parte mia a Sua Santità che, molto umilmente, non sono d'accordo. Non c'è violenza, è un colpo di Stato incruento. Che non siano cattolici è un altro discorso, ma si troverà la maniera di dialogare.»

Tornò aggiustandosi gli occhiali sul naso adunco.

«Le attuali gerarchie vaticane non hanno simpatia per i comunisti, proprio come lei.»

Guardai Angelo che scosse il capo. No, lui non era proprio tipo da raccontare al cardinale i fatti miei. O mi si leggeva in faccia come la pensavo o il cardinale si era informato, visto che frequentavo il fidanzato di sua nipote. Comunque non me ne fregava niente.

«Non credo di pensarla come le gerarchie vaticane su nessun argomento. Nemmeno sui comunisti.»

Il cardinale ignorò il commento e ci portò nell'unico angolo del salone non invaso dai giovani e chiassosi africani.

«Eminenza, abbiamo dei problemi» disse Angelo, «non riusciamo a trovare posto per tutti nelle nostre case e gli alberghi sono strapieni di turisti. Ci mancano circa venti posti letto.»

Era un Angelo Dioguardi diverso dal solito. Più goffo, insicuro. Il cardinale era troppo importante per lui.

Alessandrini si fece una risata. «Povero Angelo, non riesci a moltiplicare i letti come il Signore faceva coi pesci! Ma non c'è problema. I preti dormono qui da me. Naturalmente devi sistemare tutte le suore, non si sa mai...»

«Ma eminenza, anche se questa casa è grande non ci sono abbastanza letti, parliamo di venti preti. Dove li mette?»

Il cardinale indicò il terrazzo. «Ci ho dormito io questa notte, per prendere il fresco. Figurati loro che sono abituati all'Africa. Ho già mandato Paul a prendere i sacchi a pelo a San Valente.»

Angelo si rilassò e il cardinale si rivolse a me. «Lei è un poliziotto.» Mi ero sentito dire quella frase in mille toni e sfumature diversi, spesso ironici, a volte quasi offensivi. Nel tono di Alessandrini c'era solo curiosità. Al tempo stesso mi confermava che sapeva tutto di me. In quel complesso residenziale si entrava solo dopo schedatura, e senza macchina.

«Da bambino era il mestiere che preferivo» spiegò il cardinale, «poi il Signore ha voluto che servissi un altro tipo di giustizia.»

Avevo una mia precisa opinione sul rapporto conflittuale tra la giustizia terrena e la giustizia divina. Ma non mi pareva il momento adatto per parlare di Nietzsche e dei Vangeli. Quell'uomo allo stesso tempo potente e affabile era ammirevole, ma non mi era simpatico. Era un prete, e dopo anni di scuole religiose sapevo che quell'amabilità poteva essere cenere sopra la brace viva. Avevo imparato a diffidare già da piccolo, da quando in quinta elementare una mano molle si era insinuata sotto i miei calzoncini mentre mi si parlava della bontà del Signore.

Lui mi lesse nel pensiero. «Lo so, lei è un laico, forse anticlericale se non antireligioso. Vede, io rispetto la giustizia terrena, ma ne conosco anche i tragici errori. Nel mondo la giustizia è spesso nelle mani sbagliate.»

Mi stavo già stufando. «Se aspettassimo l'aldilà, vivremmo solo piangendoci addosso e tormentandoci per i nostri peccati. Che il rimorso diventi pentimento e assoluzione è solo un modo per fuggire dalla vita.»

Mi fermai per l'occhiata allarmata di Angelo, ma il cardinale non era tipo da offendersi con i miscredenti, tanto meno con un miscredente come me che non contava nulla.

«Lo so dottor Balistreri, per lei è peccato solo quello che si chiama reato. E la pena si sconta in terra, possibilmente in carcere. Ma fu la giustizia degli illuministi a muovere la ghigliottina dei rivoluzionari, non la fede, e non decapitarono solo colpevoli.»

«Mentre l'Inquisizione non sbagliava mai, immagino.»

«L'Inquisizione è una delle tante vergogne della Chiesa. Ed è infatti giustizia terrena.»

Scoprii così che il cardinale Alessandrini aveva idee ben precise e all'occorrenza le portava avanti anche in contrasto con le gerarchie vaticane.

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La tramontana era girata a libeccio e grosse nuvole nere avevano oscurato il cielo. Era ancora pomeriggio ma i negozi già accendevano le luci. Balistreri andò in autobus al Casilino 900. Marius Hagi lo aspettava all'ingresso del campo, da solo, come Balistreri aveva concordato con l'avvocato Morandi.

Hagi indossava una camicia di flanella grigia, pantaloni di velluto a coste e un maglione nero di lana. Nonostante il freddo umido non indossava né cappello né cappotto. E la sua tosse era più forte che mai.

Balistreri gli tese la mano per salutarlo.

«Buongiorno» lo salutò Hagi senza tendere la propria. Non aveva un atteggiamento scortese, ma neanche amichevole.

«Grazie di essere venuto, signor Hagi, lei sa di non essere obbligato. Vorrei scambiare quattro chiacchiere informali e fare un giro con lei nel campo.»

Il Casilino 900 esisteva da oltre trent'anni e ospitava circa settecento persone, moltissime donne e bambini, tutti rumeni, macedoni, bosniaci, kossovari, montenegrini. Entrarono dal cancello principale, accanto a cui sostava un'auto della polizia. I sentieri non asfaltati del campo, tra i container e le baracche, erano disseminati di pozze fangose, detriti e rifiuti organici.

Il panorama non offriva altro che cumuli di immondizia, panni stesi e carcasse d'auto. Non c'erano allacciamenti né per l'acqua né per il gas. Alcune baracche erano collegate artigianalmente a cavi per l'elettricità di dubbia provenienza, nelle altre si vedeva la luce tremula delle candele, in mezzo a materiali infiammabili di ogni genere. I servizi igienici erano bagni chimici e l'odore complessivo era un misto di rifiuti e urina. Mentre si aggiravano tra le baracche, Hagi e Balistreri avevano intorno bambini, adulti, bancarelle che vendevano per lo più cose pescate dai cassonetti in giro per Roma, o peggio dalla borsa di qualcuno. I bambini giocavano a palla rincorrendosi tra le pozzanghere e i rifiuti, sorridenti e vocianti.

Oltre i confini del campo si vedeva la discarica dov'erano stati trovati i resti martoriati di Samantha Rossi. Dietro la discarica all'epoca c'era un piccolo campo nomadi abusivo, poi sgomberato, dov'erano stati rintracciati i tre rumeni col braccialetto di Samantha.

Hagi colse la direzione dello sguardo di Balístrerí e il corso dei suoi pensieri.

«Tanto li rilascerete fra qualche anno per buona condotta. Ai miei tempi in Romania li avrebbero impalati.»

Balistreri avrebbe voluto dirgli che tra quelli che lui proteggeva potevano essercene altre di bestie. Ma era lì per parlare di Nadia, non di Samantha Rossi.

«Noi cerchiamo di essere un paese civile, signor Hagi.» Lo disse con poca convinzione, un riflesso condizionato dell'istituzione che rappresentava.

«Guardi che la severità della giustizia è civiltà, Balistreri. Voi non siete civili, siete solo pusillanimi. La vostra tolleranza è basata solo sul bisogno di badanti, prostitute e gente che raccolga i pomodori nei vostri campi. Se non vi servissero prendereste gli immigrati che sgarrano e li mettereste in croce lungo le strade come facevano gli antichi romani.»

Mentre Hagi lo guidava attraverso le baracche, Balistreri si rese conto che decine di occhi li osservavano. Doveva essersi sparsa la voce che lui era un poliziotto. Hagi colse il suo disagio.

«Qui è al sicuro, stia tranquillo.»

«Perché sono con lei?»

«No. Perché nessuno è così stupido da toccare un poliziotto qui dentro.»

In quel momento si avvicinò una vecchia rom con due tazze di stagno da cui usciva del fumo. Le porse con deferenza a Hagi e Balistreri. Ringraziarono e sorseggiarono il tè. Hagi fumava senza sosta. Con l'ultimo mozzicone si accendeva una nuova sigaretta, anche se era squassato dalla tosse. Il volto ascetico era pallidissimo, ma gli occhi neri erano tizzoni sotto le sopracciglia folte. Le occhiaie accentuavano il suo aspetto mefistofelico.

Si fermarono vicino a una roulotte messa un po' meglio delle altre. A pennarello c'era scritto il numero 27.

«Entriamo» propose Hagi, «questa è la casa di Adrian e Giorgi.»

Dietro la roulotte c'era una piccola moto da cross, incatenata a un tavolo. L'interno era spoglio, ma non sporco come ci si poteva aspettare da fuori. Si sedettero sulle uniche due sedie, davanti a un tavolino smaltato ormai arrugginito.

«I suoi bravi ragazzi saranno rilasciati domani, signor Hagi.»

«Se ha pazienza le racconto qualcosa.»

Balistreri si accese la quarta sigaretta della giornata. «La ascolto volentieri.»

Hagi iniziò il suo racconto, intervallato solo da quella tosse stizzosa.

«Ho quarantasei anni, sono nato alla periferia di Galati, vicino al Mar Nero. Io e mio fratello Marcel eravamo già orfani quando io avevo dodici anni e lui sedici. Ci trasferimmo a Costanza, sul Mar Nero, dove trovammo lavoro entrambi al porto, come facchini. Dormivamo lì, in un capannone. Eravamo, come direbbe lei, dei bravi ragazzi.»

«Con un'infanzia difficile...»

«Il peggio viene adesso. Mio fratello giocava molto bene a calcio come portiere» proseguì Hagi. «All'inizio del 1978 fu chiamato a Bucarest per giocare in una squadra di serie A. Gli davano un piccolo stipendio che gli consentì di portarmi con sé e mandarmi a lezione di matematica dal contabile della squadra. Un giorno, nel maggio 1978, alla finale del campionato nazionale Marcel parò un rigore all'ultimo minuto e la sua squadra vinse contro quella di cui era presidente il figlio di Ceausescu.»

Hagi si interruppe colto da un ennesimo, fortissimo colpo di tosse. Poi continuò.

«Due bastardi della polizia segreta vennero nella stanza dove vivevamo e gli fratturarono a una a una tutte le dita. Marcel fece una pazzia, andò alla polizia per denunciarli. Qualche giorno dopo, quando tornai, la stanza era sottosopra, piena di sangue, gli avevano tagliato le mani e Marcel era morto lì, dissanguato.»

Hagi si fermò un attimo per accendersi un'altra sigaretta, poi riprese il suo racconto.

«Mi ero salvato per puro caso, ma mi avrebbero cercato e fatto fuori. Avevo diciannove anni, e niente da perdere. I miei amici conoscevano qualcuno a Cracovia, andai là. Fui fortunato. Conobbi Alina, lei aveva solo sedici anni ed era orfana, viveva da suo zio, un prete che aveva lavorato con Wojtyla e gestiva un orfanotrofio. Quando il papa lo chiamò a Roma sei mesi dopo, Alina e io ci sposammo e partimmo con lui. Arrivammo qui nell'aprile del 1979 e Alina trovò subito lavoro grazie allo zio.»

«E lei diventò un imprenditore, sfruttando le sue conoscenze dell'est.»

«Io sapevo fare ben poco ma scoprii subito che agli italiani piacevano molto le ragazze dell'est. Partivano per Varsavia, Belgrado e Budapest con valigie piene di calze di nylon, jeans, prodotti di bellezza. Io usai i contatti con i miei amici in Polonia e cominciai a organizzare questi viaggi di piacere. Non c'era niente di illegale: mettevo in contatto le due parti con reciproca soddisfazione. Poi aprii bar e ristoranti nella zona dove abitavano i polacchi. Ero diventato un immigrato ricco, rispettato, integrato.»

«L'Italia è molto ospitale. Sarà contento del nostro paese, no?»

Hagi ci pensò un po', come se fosse una domanda davvero difficile.

«L'Italia mi ha reso ricco, Balistreri. Ma a causa dell'Italia ho anche perso la cosa più preziosa. Quando Alina è morta nel 1983 aveva solo vent'anni.»

Balistreri aveva letto tutto nel dossier. Un banale incidente in motorino. Una delle cause più comuni di morte per un giovane a Roma. Ma perché Hagi incolpava l'Italia della perdita della moglie?

«Monsignor Lato, quello che vi aveva aiutati a venire qui, fece una denuncia. Sosteneva che Alina stava fuggendo via da lei quando aveva avuto l'incidente.»

Qualcosa brillò in fondo agli occhi neri di Hagi. «Per lui Alina era come una figlia. Era impazzito per il dolore.»

«Nel verbale monsignor Lato dice che lei l'aveva picchiata.»

Di nuovo quel fremito leggero. Come l'eco di un terremoto molto lontano. Poi Hagi rispose freddamente. «La denuncia fu ritirata spontaneamente dopo un mese, quando monsignor Lato si calmò e la ragione prevalse sul dolore. E adesso basta con questa storia che non c'entra nulla.»

«Va bene. Cos'è successo a lei dopo la morte di sua moglie?»

«Per sei anni ho portato avanti le mie attività senza entusiasmo. Poi, nel 1989, quando la Romania si liberò di quel porco di Ceausescu, ho venduto tutte quelle che avevo in Italia e sono tornato in patria dove ho utilizzato i miei risparmi per comprare proprietà immobiliari che oggi hanno decuplicato il loro valore. A Bucarest ho bar, ristoranti, agenzie immobiliari, agenzie di viaggi, ci vado due volte l'anno.»

«E in Italia ha disinvestito tutto?»

«Ho solo una casetta dove abito, qualche appartamento, il Bar Biliardo e l'agenzia di viaggi Mariustravel. Tutte proprietà che uso per dare alloggio e lavoro a miei connazionali. Aiuto molti giovani rumeni a integrarsi. E anche i rom, che voi tenete ammassati nei campi nomadi e che la vostra polizia tratta come bestie.»

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