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| << | < | > | >> |Indice7 Prefazione di Luciano Cafagna MENSCEVICHI 15 L'eutanasia dei menscevichi 17 Il cambiamento politico: i partiti senza Stato 26 L'alibi del "fattore K" 41 Uno Stato di debole Costituzione 46 Il monaco riformista 55 Cambiamenti senza guida 55 Il cambiamento economico: il miracolo senza riforme 78 Il cambiamento etico: vino nuovo e botti vecchie 104 Il cambiamento estetico: modernizzazione senza moderni 127 Memoriale sul craxismo 131 Una strana Bad Godesberg 147 Nani e ballerine 159 Il governo del fare 174 La vendetta del sistema 190 L'ircocervo e la pernice 203 Il nuovo che è avanzato 204 La divina sorpresa: lectio facilior 211 La divina sorpresa: lectio difficilior 225 Buon lavoro, nuova talpa 255 Materiale resistente 269 Il nuovo eretto a sistema 280 Congedo 283 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 7Il club dei "drogati della politica" conta in Italia molti soci. Questo è un libro scritto soprattutto per loro. Per chiunque abbia vissuto, in tutto o in parte, la storia politica italiana del secondo Novecento – esecrabile, forse, ma tale da creare "dipendenze" – oppure quella storia abbia coltivato per studio, questo di Luigi Covatta sarà un libro avvincente. Avvincente perché vivo di impressioni dirette, di giudizi meditati e personali su cose viste e su persone frequentate. Avvincente perché c'è dentro una generazione, attraverso un suo rappresentante che ha vissuto questi anni con attiva presenza. E, in più, quegli anni li sa rivivere con intelligenza – e capacità di studio – delle cose. L'autore – partecipe e studioso, come ho detto – si colloca, per di più, per rara fortuna del lettore, su un crinale fra punti di osservazione molteplici: quello del cattolicesimo politico, quello della militanza socialista, quello dell'attenzione ansiosa verso la lunga, travagliata e riluttante mutazione genetica del comunismo italiano (senza mai, però, "indossare la livrea dell'indipendente di sinistra"). Ricostruisce eventi, illustra nodi storici, inserisce significative testimonianze personali, riferisce puntigliosamente giudizi a caldo e a freddo di commentatori e li discute: perché Covatta non solo ha vissuto pressoché tutto della recente storia politica italiana (anche se da posizioni e livelli diversi), ma ne ha anche letto tutto quello che se ne è scritto. Come il più puntiglioso degli eruditi. Ha letto, infatti, i saggi dei politologi e degli storici, gli opuscoli dei panflettisti, gli editoriali dei giornalisti e quelli degli accademici. Di tanto in tanto, e non guasta, lascia cadere delicatamente, lungo il percorso, come polvere di peperoncino rosso, spruzzatine di fine ironia. Arriva persino a osare l'incrocio del suo fioretto con quello di un grande "ironista" della politica, come Giuliano Amato. E non ci sfigura al confronto. Le scansioni della storia vissuta e rivissuta da Covatta ce le indica lui stesso, quando ci mostra i cerchi di fuoco di quattro grandi mutamenti: quello politico istituzionale del 1946, quello economico degli anni cinquanta, quello "etico" del '68, e, infine quello "estetico" degli anni ottanta, cioè la trasformazione mediatica e videocratica della politica. In queste due ultime definizioni è evidente lo spruzzo della polvere di paprika covattiana. L'autore, con civetteria, protesta di non essere uno storico di professione, ma lo fa solo per liberarsi delle cogenti seriosità del professionismo storiografico: la periodizzazione lasciata cadere con nonchalance è perfetta, come l'uso delle fonti, le note a piè di pagina, il rispetto per le autorità professionali, si tratti di storici, di politologi, di mediatologi o quant'altro. Mi sia consentito di dire che trovo più "storico" Covatta che non certi accademici che a volte si fanno piuttosto procuratori giudiziari o pubblici ministeri della Storia. Si pensi a un giudizio come questo: che la costruzione del sistema dei partiti sia stato il primo miracolo italiano del dopoguerra. C'è una idea di fondo? Di idee, nel libro, ce ne sono, come credo di aver detto, tantissime, ma il fantasma che si aggira in tutte le pagine è quello del riformismo, quel "riformismo impossibile" che ha assillato storici di vaglia – ma anche appassionati di politica – come Giovanni Sabbatucci o Massimo Salvadori. E lo chiamo fantasma perché per lo più c'è, ma non si vede, come accade per i fantasmi, ma, in più, perché, anche se lo si vedesse, non ci sarebbe (mi si perdoni l'amaro bisticcio). | << | < | > | >> |Pagina 15Era l'autunno del 1994. Avevo lasciato da pochi mesi il Parlamento di cui avevo fatto parte per quindici anni. Il partito in cui avevo militato si era sciolto. E si erano sciolti anche molti dei partiti coi quali mi ero confrontato. Telefona una giovane giornalista. Vuole la mia opinione sulla settimana politica. Un po' per civetteria, un po' per convinzione, mi schermisco. «Non mi occupo di politica», le dico. «Lo so benissimo», mi risponde, «ma il senso della mia rubrica è proprio questo: chiedere un'opinione sulla situazione politica a un musicista, un pittore, un regista o un comico». Mi aveva confuso con un mio lontano cugino. Quell'episodio, più di altri ben altrimenti drammatici, mi fece percepire con assoluta chiarezza l'avvenuta consumazione di un'ennesima discontinuità nel mezzo secolo di vita civile e politica di cui mi era accaduto di essere testimone e partecipe. Una discontinuità che non era segnalata tanto dall'oblio della mia modesta persona, né solo dalla damnatio memoriae inflitta a un'intera classe dirigente, quanto dal mutamento genetico dell'opinione pubblica. Che non si formava più attraverso il confronto fra politici di professione, accademici, funzionari pubblici, imprenditori, banchieri e sindacalisti, ma attraverso le esternazioni, più o meno estemporanee, di musicisti, pittori, registi, comici: meno caricaturalmente, delle espressioni piu occasionalmente visibili della società civile. Anche questo episodio di discontinuità, peraltro, accadeva ex opere operato: al di fuori, cioè, di un disegno razionale che lo avesse preparato e che fosse in grado di governarne gli esiti. Si trattava di un cambiamento senza riforma, insomma. E senza un soggetto consapevolmente riformista. Come tutti quelli di cui la mia generazione è stata testimone. E come, del resto, secondo l'opinione di molti storici, capitò per il primo cambiamento, quello che diede vita all'unità nazionale. Che ebbe bensì, con Mazzini e col partito d'Azione, un soggetto consapevole. Ma che venne realizzato da chi a quel soggetto si era opposto. Non ho ovviamente intenzione di affrontare quest'ultimo argomento, né ho i mezzi per farlo. Mi sono anzi chiesto, a questo proposito, che titolo avessi per tentare questo lungo viaggio in sessant'anni di storia italiana, dal momento che non solo non sono uno storico di professione, ma non sono stato neanche un protagonista della vita politica la cui testimonianza possa avere un valore in sé. Ho superato il dubbio leggendo il bel libro di memorie di un altro ex parlamentare, Silvio Mantovani, il quale, per giustificare il suo lavoro autobiografico, ha evocato la "sindrome di Rosencrantz", riferendosi alla pièce di Tom Stoppard (Rosencrantz e Guildestern sono morti) in cui si «narra di due gentiluomini, personaggi secondari di Amleto, che vivono la tragedia appunto da personaggi secondari, cogliendone solo frammenti che cercano di comporre in modo sensato, senza riuscire a capire cosa succede fra i personaggi principali, fino a rimanere inopinatamente (almeno dal loro punto di vista) uccisi».
Mettendo insieme frammenti, quindi, e cercando di comporli in modo sensato,
mi è parso di riscontrare una costante, nella nostra storia nazionale recente:
quella, appunto, del cambiamento senza riforma. E nei sessant'anni su cui posso
testimoniare mi sembra che questa legge storica abbia trovato puntuale
esecuzione. A cominciare dal primo e fondamentale cambiamento, quello con cui
cominciano i sessant'anni che finora ho vissuto e di cui, ovviamente, ho memoria
indiretta, attraverso la storiografia su cui mi sono formato. Allora si creò,
per dirla con Pietro Scoppola, «la Repubblica dei partiti», che per
cinquant'anni avrebbe governato, ma non guidato, l'Italia: la premessa, cioè, di
quello «sviluppo senza guida» che Scoppola indica come caratteristica saliente
del periodo di più intensa trasformazione della nostra società.
La transizione dal fascismo alla democrazia, dalla monarchia alla repubblica, dalla dissoluzione dello Stato alla sua ricostituzione, è stata inevitabilmente tumultuosa e confusa. Difficilmente può essere paragonata ad altri trapassi di regime, come quelli che, negli anni settanta, hanno posto fine ai fascismi in Europa, e quelli che, negli anni novanta, hanno travolto il comunismo in Russia e negli altri paesi dell'Est europeo. Lo scenario della guerra mondiale, e degli inediti schieramenti che la combatterono, fa l'irriducibile differenza rispetto a eventi che si sono verificati trenta e cinquant'anni dopo, in un contesto positivamente condizionato dall'Unione europea, dal legame euro-americano, nonché dalla ripresa delle socialdemocrazie dopo i fallimenti del primo dopoguerra. Tuttavia non sembra del tutto ozioso chiedersi perché in Spagna, in Portogallo, in Grecia, ai fascismi è seguito un sistema politico bipolare (in cui per giunta spesso il primo turno dell'alternanza è toccato ai partiti socialisti); perché (con la tragica, ma storicamente comprensibile, eccezione dei Balcani) i paesi dell'Est hanno a loro volta trovato un assetto stabile anche grazie al riciclaggio socialdemocratico di buona parte della classe dirigente comunista; mentre in Italia le cose sono andate in tutt'altro modo. | << | < | > | >> |Pagina 68Resta da dire che, se per i liberali italiani non era opportuno incentivare la formazione di una moderna borghesia, per la sinistra non si doveva formare neanche una moderna e compatta classe lavoratrice, capace di sostenere il conflitto industriale in una logica di sviluppo. Si ebbe invece, secondo Cafagna, «una sorta di riformismo "spintonato": dall'arrembaggio alle casse previdenziali dei settori di lavoro indipendente protetti dalla DC all'uso improprio politico delle pensioni di invalidità, alla irriflessiva trasformazione del sistema pensionistico in sistema retributivo, alle concessioni di aumenti e benefici d'età fatti sotto gli sgrulloni di una minaccia elettorale e, poi, del cattivo esito del risultato della stessa elezione». L'amara conclusione di Cafagna riguarda la cultura politica della sinistra italiana d'allora, fatta di «due culture difettose: una, quella, pur generosa negli intenti, del "riformismo di struttura", che in un mare in tempesta parlava di razionalizzare la nave rivolgendosi a passeggeri sordi e marinai ubriachi, e l'altra, quella dell'agitazionismo, che proclamava essere le "lotte" la sola scaturigine dura e pura di ogni avanzamento sociale», senza rendersi conto che, «nella "feccia di Romolo" della realtà economico-sociale italiana», essa attivava solo «una prassi di "spintonaggio e rappezzo" — ammasso di cambiali a carico delle generazioni future — che fu la vera sostanza di quel che è stato poi chiamato pomposamente dai critici "consociativismo"». Per onestà intellettuale bisogna anche dire che il disegno riformista di Lombardi e Giolitti non trovava solo la resistenza della DC dorotea, né era solo oggetto del "fuoco amico" del PCI e della CGIL. Anche nel PSI non si apprezzava granché l'inevitabile intransigenza sui contenuti di riformisti non improvvisati. Capitò così che l'intransigenza riformista dell'ex azionista e dell'ex comunista venisse confusa col massimalismo, e che invece la nenniana politique d'abord, in quanto contingentemente più conciliante, venisse confusa col riformismo. Col riformismo, del resto, i conti fino in fondo non li avevano fatti neanche Lombardi e Giolitti, nella lunga vigilia del centro-sinistra. Le idee del centro-sinistra avevano avuto una lunga incubazione, piuttosto che nel PSI, nella «battaglia culturale che si è combattuta in Italia durante tutto il corso degli anni cinquanta attraverso l'impegno di forze non sempre chiaramente classificabili in termini politici», come ricordò Roberto Vivarelli in un suo intervento occasionale al convegno dell'Istituto socialista di studi storici del 1977. «Il nucleo più attivo era rappresentato da coloro che si battevano per la cosiddetta terza forza [...] anche e soprattutto in rapporto alla nostra situazione interna, rispetto alla quale la "terza forza" condusse una battaglia appassionata sia contro i clericali che contro i comunisti», proseguiva lo storico, individuando nel «Ponte» di Calamandrei e nel «Mondo» di Pannunzio le punte di lancia di «quel generale processo di ammodernamento che avviene nel corso degli anni cinquanta» e che rese necessario superare il centrismo. Senonché «lo scarso collegamento del PSI con le principali forze agenti nel processo di trasformazione della società italiana sulla cui base matura la necessità del centro-sinistra» porta a concludere «che, per quanto riguarda i socialisti, questa operazione politica è avvenuta in modo piuttosto esterno e meccanico». Lombardi e Giolitti, in effetti, avevano messo bene a frutto il loro originario meticciato per introdurre nel gergo del PSI post-frontista le elaborazioni dei "terzaforzisti" (Lombardi, secondo Lanaro, parlava «un dialetto marxista più che altro per non farsi sconfessare dai suoi compagni»); ma non avevano potuto — né forse volevano — trasferire il PSI dal terreno "di classe" a quello, appunto, della terza forza. D'altra parte quello che Luciano Cafagna ha definito «il riformismo illuminista», praticato dall'alto, e perciò «inabile a far blocco con interessi diffusi, eccentrico rispetto alla cultura popolare corrente e, quindi, sostanzialmente improduttivo di consenso democratico immediato», trovava anche difficoltà oggettive di implementazione nel permanente dualismo nord-sud, che attivava «modalità di relazione fra "il sociale" e "il politico"» diverse fra loro; nonché nella carenza di strumenti amministrativi adeguati a sostenere «una efficace azione centralistica» che dirigisticamente riducesse il dualismo. Fu quindi «un vero disastro», dal momento che le «riforme di struttura» alimentavano aspettative di lungo periodo, ma non producevano vantaggi immediati, per cui «dal punto di vista della tattica politica [...] riducevano i consensi e accrescevano i dissensi». Va anche detto che, per quanto illuministi fossero Lombardi e Giolitti, la loro scommessa non ignorava del tutto i problemi di consenso che incontra ogni esperimento di riformismo radicale. Essi però presumevano che, in assenza di un circuito di consenso sociale, si realizzasse un circuito di consenso politico, che sulla carta poteva coinvolgere sia la "terza forza" (magari estesa alla sinistra democristiana, all'epoca assai impegnata su un terreno riformista scevro da integralismi), sia il partito comunista, col quale anche per questo non si erano voluti recidere i legami in seno al sindacato, alle cooperative e alle amministrazioni locali. Probabilmente quello che Lombardi e Giolitti avevano sopravvalutato era invece il radicamento della loro ipotesi in seno al loro stesso partito. A conferma del carattere «esterno e meccanico» dell'adesione del PSI al centro-sinistra denunciato da Vivarelli. | << | < | > | >> |Pagina 127«Craxi è profondamente uomo di sinistra, figlio di socialisti e dirigente socialista lui stesso sin dall'immediato dopoguerra»: il memoriale che segue parte da questa premessa, non mia, ma di Piero Fassino. Il quale, poi, riconosce che «Craxi ha colto prima di altri, e tra non poche incomprensioni, un'esigenza di modernizzazione», perché, fra l'altro, «è lui, con la conferenza programmatica di Rimini, a porre all'inizio degli anni ottanta, da uomo di sinistra, il tema della modernità, mentre il PCI è piegato su se stesso, timoroso di raccogliere le domande di innovazione che si elevano da settori ampi della società». La citazione serve a dichiarare il punto di vista col quale ho cercato di analizzare la vicenda del "craxismo", definizione spregiativa coniata da quanti, negli anni novanta, hanno preteso di estirpare la figura di Craxi dalla storia del socialismo italiano. La controversia su Craxi, del resto, comincia nel momento stesso in cui egli diventa segretario del PSI, in un contesto politico che peggiore non avrebbe potuto essere. Scriveva nel 1990 Italo Pietra, giornalista lombardo di solido ceppo socialriformista: «Nel luglio del '76, dopo il gran balzo del Mida, la posizione di Craxi assomiglia tanto a quella di Rommel nell'ottobre del '42, prima della seconda battaglia di El Alamein. Dopo tante avanzate al galoppo, il feldmaresciallo si trovava stretto tra il mare e il deserto. Chiamato inopinatamente alla guida del PSI, Craxi si trova in un mare di guai. Gli uomini della strada non credono più nel Partito, e il Partito non crede in lui. È l'ora del bipolarismo a ruota libera, e del compromesso storico dietro l'angolo, con la DC e il PCI che raccolgono il 73 per cento dei voti, con le centinaia di nomi illustri e meno illustri della cultura italiana che sottoscrivono appelli per il voto al PCI. Per i partiti intermedi si fa notte. Non arrivano neanche al 18 per cento; entrano nel grande gioco come il due di briscola. Il PSI non è più uno dei tre grandi. A volte, sembra un partito residuo; sembra un reduce di antiche battaglie, come il PLI, come il PRI, come il PSDI; sembra una corrente miope e stanca della sinistra. Ha la sorte della noce stretta nelle branche della tenaglia». Quanto a Craxi, nessuno gli crede: «Se si possono azzardare certi accostamenti, le ore del Mida fanno pensare ai deputati francesi che patrocinarono la candidatura di Luigi Napoleone per la presidenza della Repubblica, al congresso DC del '59, a Firenze, che portò avanti Moro, al Conclave che elesse papa Giovanni, al congresso di Epinay, che fece di Mitterrand la guida provvisoria del Partito socialista, alla "farsa" del presidente Hindenburg che chiamò Hitler alla Cancelleria guardandolo dall'alto in basso». Mentre, presso l'opinione esterna, «Craxi è messo prontamente in ludibrio da tante testate, indipendenti e no. Secondo "La Stampa", ha tutta l'arroganza e la protervia dell'aparatchik. Per "il Manifesto", è "Bettino l'amerikano"; per "la Repubblica" "il tedesco del PSI"». Che nel luglio del 1976 l'aria che tirava fosse quella lo dimostra, del resto, un documento d'epoca: il commento alle elezioni del 20 giugno 1976 del giovane Ernesto Galli della Loggia. «L'ultimo velo è caduto, l'anticomunismo è finito ed il partito comunista partecipa virtualmente al governo del paese», scriveva allora il futuro editorialista del «Corriere». E così proseguiva: «L'anticomunismo in Italia è stata una cosa seria. Ideologia di governo se mai ce ne fu una, esso consentì l'accesso al potere dei cattolici 30 anni fa. In quelli seguenti è servito a far credere che ci fossero delle idee, un'aspirazione etico-politica, laddove invece c'erano solo dei pregiudizi e degli interessi o al più una fede religiosa; in questo modo l'anticomunismo è stato l'origine della mole di equivoci, paralisi, corti circuiti e furfanterie che tutti conosciamo. Come sappiamo che c'è stato un diverso anticomunismo, quello delle minoranze intellettuali legate ai valori liberaldemocratici più o meno integrati con gli ideali del socialismo di tradizione europeo-occidentale. Peccato che tali minoranze non abbiano potuto che farsi rappresentare politicamente dai cosiddetti partiti laici e dal partito socialista». Infatti, «dimentichi che almeno dal 1948 l'anticomunismo "politico" dei cattolici era ormai soltanto il paravento dell'egemonia clericale sullo Stato, del più ripugnante (anche perché più noto) malgoverno che il paese avesse mai conosciuto, nonché delle forze più ostili ad ogni spinta riformatrice, i partiti laici prima, e quello socialista poi, confusero la loro estraneità ideale al marxismo-leninismo e la specificità del loro progetto politico (se mai ne avevano uno...) con l'anticomunismo di potere dei cattolici, fecero corpo con esso finendo per perdersi interamente nella Grande Palude del sistema democristiano». La colpa dei laici e dei socialisti era quella di «non essersi resi conto che almeno a partire dalla fine degli anni cinquanta il partito comunista, lungi dal rappresentare una minaccia totalitaria sospesa sul paese era viceversa un grande serbatoio di energie riformistiche e riformatrici, una grande forza nazionale e popolare». Questo errore «significò per i partiti cosiddetti laici rimanere prigionieri di un clamoroso vuoto strategico» che «spiega perché non sia mai passato per la mente a questi partiti [...] di rompere con la DC e di lanciare al PCI una proposta di "compromesso storico" tra tutte le forze di sinistra per l'attuazione di un programma di riforme». Il giudizio sul ceto politico laico è sferzante: «Evidentemente per concepire questi piani bisogna chiamarsi Mitterrand e non La Malfa. Nel paese di La Malfa si è preferito moraleggiare andando a braccetto con i re dei ladri, fare sfoggio di intelligenza e di cultura continuando a frequentare Flaminio Piccoli, proporre a parole, e restando al governo con la DC, soluzioni che si sapeva attuabili solo cacciando la DC dal governo». | << | < | > | >> |Pagina 190Benedetto Croce aveva paragonato il "partito nuovo" di Togliatti a un ircocervo. Norberto Bobbio, dopo un quarto di secolo, aveva paragonato il vecchio partito di De Martino a una pernice, morfologicamente simile all'aquilotto, ma diversamente da questo impossibilitata a volare. «Fuori di metafora», aveva detto in un convegno di «Mondoperaio» alla vigilia del Midas, «il Partito socialista è un partito medio, cioè un classico partito di coalizione, sia di destra o di sinistra o di centro, sia di governo o di opposizione. Il medio partito, piaccia o non piaccia, è il partito coalizzato, cioè il partito che non può esercitare la propria influenza se non coalizzandosi». E aveva conseguentemente teorizzato l'elemento di debolezza del PSI, che, «proprio in quanto partito medio, è un partito nella migliore delle ipotesi necessario ma non sufficiente», per cui «si viene a trovare, in qualsiasi coalizione, in una posizione subordinata a quella del partito dominante». Secondo un osservatore tutt'altro che corrivo verso Craxi, Franco Cazzola, il leader socialista «di quello che sembrava un punto di debolezza» aveva «cercato di fare la forza del Psi: la teorizzazione della governabilità, al centro come in periferia, ha costituito la traduzione in chiave di mercato politico della collocazione etica del partito operata da Bobbio», in modo da far diventare il PSI «partito medio sì, ma di governo; partito medio sì, ma con l'ambizione di diventare almeno medio-grande nel breve periodo». Cazzola era scettico, allora, sulla possibilità, per Craxi, di ottenere la guida del governo. Sottovalutava non solo la crisi della DC, ma anche il peso della risorsa "governabilità", merce rara nell'Italia degli anni ottanta. Per cui fu possibile che la pernice facesse il volo dell'aquilotto. Per farsi aquila, però, avrebbe dovuto volare più alto, lontano dalle balene e dagli ircocervi. Craxi, nel 1987, aveva rinunciato all'avventura. Ma nel 1992 quello che si era rinunciato a perseguire per amore risultò in qualche modo perseguibile per forza. La balena si era arenata. L'ircocervo faceva fatica a uscire dal bestiario medievale. La funzione di capo del governo era stata attribuita a Giuliano Amato. E anche in politica, qualche volta, la funzione crea l'organo. Scrive Marcello Fedele: «Condizionato da tante parti, questo esecutivo nasce soprattutto solo: nessuno lo aveva in mente e nessuno in effetti lo ha scelto. E stato imposto semmai dalla logica delle cose, dalla debolezza del "vecchio" quadripartito e, forse, anche dal caso. Per il governo tutto ciò si trasformerà dunque in un peso enorme, ma anche in una grande opportunità». In tempi di crisi, infatti, «programmi e obiettivi che sino a quel momento non erano mai riusciti a passare attraverso le formule, potranno perciò insinuarsi – purché il governo sia disposto a rischiare – attraverso il reale processo di formazione dell'indirizzo politico, in una inevitabile miscela del "vecchio" con il "nuovo"». Per Fedele «è ciò che è successo con il governo Amato. Nato "piccolo piccolo" da una maggioranza parlamentare esigua e anche da una decisione personalissima di Craxi che – indicando il "delfino" – impone per l'ultima volta una sua scelta, questo esecutivo non avrebbe avuto di certo alcun futuro se nel frattempo non fosse improvvisamente maturata un'opportunità decisionale, da nessuna forza politica peraltro anticipata o anche soltanto richiesta. Messo con le spalle al muro da una delle peggiori crisi finanziarie del dopoguerra, il governo sarà infatti costretto a scegliere se continuare con le piccole cattiverie di sempre fatte di una tantum, di ticket e di provvedimenti tampone; oppure imboccare decisamente un'altra strada. Nonostante l'ostilità crescente del sistema politico, Amato sceglie questa seconda soluzione, e il Welfare State "all'italiana" verrà perciò individuato come il principale aspetto del sistema sul quale intervenire». Amato, come è noto, intervenne drasticamente: con la riforma del pubblico impiego, con la prima riforma delle pensioni, con la riforma sanitaria, con l'avvio delle privatizzazioni, con l'accordo sul costo del lavoro che Trentin firmò contro il parere della segreteria della CGIL, con la legge finanziaria da 93.000 miliardi. Con quegli interventi Amato non solo salvò l'Italia dalla bancarotta, ma cominciò a mettere in pratica molte di quelle idee riformiste che egli aveva contribuito a elaborare negli anni precedenti, e che erano spesso rimaste nei cassetti. Ebbe l'opportunità di farlo anche e soprattutto grazie alla crisi conclamata del vecchio sistema politico: grazie, cioè, alla "solitudine" indicata da Fedele come caratteristica genetica del suo governo. | << | < | > | >> |Pagina 255Nel frattempo il "partito di plastica" messo su da Berlusconi ricordava a tutti (meno che ai Verdi, che lo sapevano già) che la plastica non è biodegradabile, e anzi secondo alcuni è indistruttibile. Neanche i Verdi, peraltro, immaginavano che la plastica non fosse materiale inerte, ma potesse invece crescere e consolidarsi. Si può discutere a lungo, infatti, sui motivi della vittoria elettorale di Berlusconi nel 2001: se essa sia dipesa dal collasso dell'avversario; se invece sia stato determinante il recupero di Bossi; se infine (bis in idem) sia stata il frutto della potenza mediatica del Cavaliere. Quello che è difficile negare, invece, è che il "partito di plastica" dura ormai da dieci anni, ha attraversato indenne sette anni di opposizione, e si configura ormai come un partito vero e proprio, nonostante la rinuncia ai riti e alle liturgie della retorica partitica del secolo scorso. Non è, come è noto, un partito molto democratico; anzi, è un partito piuttosto carismatico. Ma questa caratteristica, che in via di principio non scandalizzava Baldassarre nel 1980, non può scandalizzare nessuno nel XXI secolo. Non è più, comunque, un partito improvvisato, e regge bene ai tentativi di recupero del professionismo politico che anima le forze minori della coalizione, rintuzzandoli, quando serve, anche e soprattutto rimettendo in campo le armi del l'antipolitica. Il problema non è questo. In questione, semmai, è la capacità di questo partito di essere qualcosa di molto diverso dai partiti di governo degli anni ottanta, e in particolare dall'ultima Democrazia cristiana. Gianni De Michelis, nel 2003, ha chiesto a Berlusconi di «dimostrare se saprà essere Lorenzo de' Medici o Romolo Augustolo» (riformista o doroteo, insomma), proponendo come banco di prova la capacità di perseguire tre obiettivi: «Innanzitutto la messa a punto di una Legge finanziaria a carattere straordinario per il 2004 finalizzata ad accrescere contemporaneamente sia la nostra competitività sia la nostra autorevolezza in sede europea. [...] In secondo luogo, il riconoscimento della centralità strategica del dossier Difesa. [...] In terzo luogo, l'adozione consapevole di una ben precisa prospettiva geopolitica» che «non può che essere rappresentata dalla cosiddetta "dimensione mediterranea" dell'Unione europea». Alla prova dei fatti, quindi, dopo la finanziaria delle una tantum, il fallimento del semestre di presidenza dell'Unione europea, l'appiattimento sull'unilateralismo di Bush e Sharon, il licenziamento di Tremonti, e in assenza di notizie sul "dossier Difesa", Berlusconi assomiglia più all'Augustolo che al Magnifico, e l'ipotesi della continuità col doroteismo trova qualche giustificazione. Ci sono però due differenze. La prima è che l'inerzia dorotea non avrebbe mai rinunciato a occupare, sia pure passivamente, la "dimensione mediterranea" in cui si trovava immersa. La seconda, invece, riguarda il rapporto fra riforme e consenso. I dorotei avevano risolto il problema con la pratica del «governo ai margini», tanto preoccupata di evitare tensioni da ridurre programmaticamente l'incisività delle riforme. Berlusconi, invece, nei suoi tentativi riformisti, ha seguito la strada opposta: nel senso che ha stressato l'opinione pubblica per ottenere risultati assai più modesti di quelli che lo stress stesso avrebbe consentito. Il dossier giustizia lo ha svolto con la legge Cirami e quelle sul falso in bilancio e sulle rogatorie, invece che con la riforma dell'ordinamento giudiziario; il contenzioso con l'autorità ecclesiastica sulla libertà educativa lo ha affrontato con i buoni scuola a spizzico e i preti assunti senza concorso invece che con la legge sulla parità scolastica; la riforma del mercato del lavoro è arrivata dopo diciotto mesi di inutile rissa sull'articolo 18; e l'elenco potrebbe continuare. Può darsi che la colpa di questa curiosa tendenza a non commisurare, in termini di consenso, costi e benefici sia da attribuire all' handicap dell'apprendistato. Oppure che si tratti ancora di conflitto d'interessi, testimoniato dalla preferenza per le leggi ad personam rispetto alle riforme di sistema, e secondo alcuni autentica cifra del berlusconismo in quanto incarnazione della "privatizzazione" della politica. O ancora della proiezione simmetrica nell'azione di governo degli interessi, non sempre omogenei, di un blocco elettorale fondato soltanto su elementi simbolici e d'immagine.
Può darsi, però, che si tratti anche d'altro. Per esempio, delle conseguenze
del ruolo anomalo svolto dall'opposizione nella prima metà della legislatura.
Nel senso che Berlusconi può permettersi di sperperare il consenso, e di
condurre un'azione di governo incoerente, anche grazie al carattere aprioristico
e radicale dell'opposizione che lo fronteggia, e che, invece di sfidare il
premier sul terreno delle riforme, individua in ogni suo conato riformistico
un'intenzione reazionaria, lasciando così ampi margini di immunità
all'incoerenza e all'inefficienza dell'azione di governo, e consentendo allo
stesso Berlusconi di sottrarre al beneficio d'inventario il patrimonio delle
promesse elettorali, che infatti egli può mettere nuovamente all'incasso
del consenso secondo necessità e al netto del tasso di svalutazione.
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