|
|
| << | < | > | >> |Indice7 Pci e televisione tra gestione e politica di Enrico Menduni Il frigorifero del cervello 21 Introduzione 25 I. La televisione alla sbarra La politica culturale del Pci negli anni cinquanta, p. 25 - «Lascia o raddoppia?», un gioco pericoloso, p. 28 - Il processo al piccolo schermo, p. 33 - Il cinema contro la tv, p. 39 - La morte di Mario Riva, p. 42. 47 II. La tv di Bernabei I fanfaniani alla Rai e le elezioni del 1963, p. 47 - Montanelli e il teleschermo «avvelenato», p. 54 - Umberto Eco e Rita Pavone, p. 58 - L'inutile tentativo di Rossanda, p. 62 - La tv diventa adulta, p. 64 - Lo «sciopero del canone» nelle elezioni del 1968, p. 69. 75 III. Tra «libera antenna» e difesa del monopolio Il documento degli «esperti» del 1969, p. 75 - «Canzonissima», p. 80 - «Libertà d'antenna», p. 82 - Fantasmi a colori, p. 88 - Tv via cavo e riforma del monopolio, p. 92 - Il referendum sul divorzio: la tv secondo Pasolini, p. 96 - La riforma dell'aprile 1975, p. 100. 105 IV. Il mito della «riforma tradita» La «riforma tradita» tra fedeltà ideologiche e comunicazioni di massa, p. 105 - «Austerità» e nuovi bisogni: sinistra storica e nuova sinistra di fronte ai media, p. 112 - I nuovi scenari dell'informazione e l'esplosione dell'emittenza privata, p. 120 - Quarta rete e terza rete: la sinistra si divide, p. 124 - Verso nuove riflessioni teoriche, con qualche intoppo, p. 128. 135 V. Il Pci e i media negli anni ottanta: un approdo inutile «Effimero»: politica e polemiche, p. 135 - L'espansione del consumo e la questione della serialità, p. 142 - «Guardare la tv non è reato», p. 147 - Dai convegni del Jolly al «decreto Berlusconi», p. 153 - Alla ricerca della tv intelligente: il «villaggio di vetro» e il rilancio di Raitre, p. 160 - Dal cinema al cinema: la campagna contro gli spot, p. 166 - La legge Mammí, p. 170 - Epilogo, p. 174. 177 Note 213 Riferimenti bibliografici 219 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 21Introduzione
Un problema irrisolto
Che la televisione non solo sia stata, nel passato, un problema irrisolto per il Pci, ma che ancora continui ad esserlo per coloro che in qualche modo ne sono oggi gli eredi, ce lo ha non molto tempo fa ricordato la polemica sul primo «Grande Fratello», l'ormai celebre format comprato e mandato in onda da Canale 5 alla fine dell'anno duemila. I due diversi approcci verso la trasmissione trovavano un puntuale e speculare riflesso nei commenti dei politici diessini piú in vista: cosí se da un lato Walter Veltroni affermava di guardare con piacere il programma e di ritenerlo «sociologicamente interessante», dall'altro Massimo D'Alema ricorreva indignato, piú che a valutazioni antropologiche, alla scomunica politica, accusando Berlusconi di trasmettere «amplessi a pagamento» sulle sue tv. Del resto non molti anni fa, dopo la sconfitta elettorale del 1994, la cultura di sinistra si era ancora una volta divisa sul giudizio da dare sulla produzione televisiva di Raitre e sulle scelte del suo direttore Guglielmi, non del tutto indenni queste ultime, secondo alcuni, da colpe e responsabilità in relazione all'insuccesso: «quasi tutto sarebbe stato meglio della cultura parodistica e della parodia della cultura con la quale la tv di sinistra ci ha cosí piacevolmente intrattenuto per anni», denunciava, un po' ingenerosamente, Corrado Augias su l'Unità all'indomani del voto. Questi due esempi, ma altri se ne potrebbero trovare, appartenenti alla storia del nostro presente appaiono come la spia di una perdurante differente sensibilità dell'anima post-comunista rispetto ai media e anche il sintomo di un equivoco tra estetica e politica che ogni tanto, nonostante le indubbie novità e il trascorrere degli anni, purtroppo si ripresenta. Insomma essi rappresentano le tappe piú recenti di una storia che parte da lontano e che sin dagli anni cinquanta si snoda in un processo che ha visto il video elettronico cercare a lungo, senza risultati, presso il Pci una legittimazione che invece gli era arrivata quasi subito dalla società. Lo scopo di questo nostro lavoro allora, sarà quello di fornire di una cornice unitaria i tasselli di questa vicenda storica, alcuni dei quali sí rintracciabili in qualche mirato contributo saggistico, anche di qualità, o nelle pagine dei meritori lavori di Steven Gundle sui comunisti e la cultura di massa e di David Forgacs sull'industrializzazione della cultura in Italia, ma mai collocati definitivamente in una ricostruzione storica complessiva. Siamo convinti che la situazione italiana dell'emittenza televisiva, per certi versi unica al mondo, si sia potuta configurare nella sua attuale dimensione grazie anche alle caratteristiche assunte dal rapporto tra lo schermo domestico e le strategie del Partito comunista. In particolare, come vedremo, saranno gli anni settanta, un passato non ancora remoto ma comunque abbastanza distante per essere valutato in termini di giudizio storico, a determinare, in mezzo alle disattenzioni e agli errori della sinistra, l'odierno stato delle cose. In questo volume seguiremo soprattutto la traccia degli interventi e degli scritti pubblicati sulla stampa di partito a partire dal 3 gennaio del 1954, giorno in cui la televisione compare in Italia, aprendo una fase di accelerazione dello sviluppo della cultura di massa, già in parte realizzatosi con la diffusione e il successo di radio, cinema ed editoria popolare. L'ipotesi da cui prende le mosse questa ricostruzione è che il pensiero comunista sulla televisione si concretizzò il piú delle volte, nei primi due decenni dopo la comparsa del piccolo schermo, in un atteggiamento nel quale si mescolano, pur tra intelligenti ma sporadiche accensioni d'interesse, varie componenti, che vanno dalla demonizzazione ideologica alla preoccupazione moralistica, dagli approcci semplicistici nell'analisi degli effetti sociali all'attenzione tutta politicamente orientata. Ciò almeno sino all'esordio di una riflessione volta al superamento definitivo delle tradizionale letture «strutturali», avvenuto verso la fine degli anni settanta, alla conclusione di un decennio, cioè, durante il quale la rivoluzione tecnologica aveva mandato per sempre in soffitta le ipotesi di governo del broadcasting nazionale fondate sull'esclusività del servizio pubblico. | << | < | > | >> |Pagina 135V. Il Pci e i media negli anni ottanta: un approdo inutile
«Effimero»: politica e polemiche
Dopo l'estate del 1977, quando a Roma, per opera dell'assessore comunista Nicolini, vide la luce la prima edizione di «Massenzio», una rassegna cinematografica organizzata (non senza qualche mal di pancia) tra le vestigia della città antica, nella quale ai film di «qualità» si mescolava il prodotto piú «popolare» e già al suo esordio divenuta oggetto di una inaspettata partecipazione, gli assessorati alla cultura mostrarono (e molti grazie all'azione dei comunisti) una vitalità sconosciuta, finendo col giocare un ruolo d'avanguardia nel raccordare cultura di massa e politica. In un fenomeno senza precedenti le città italiane chiamarono centinaia di migliaia di persone a consumare la cultura dei concerti rock, delle manifestazioni teatrali, delle proiezioni cinematografiche, dei recital di poesia. Tradizioni locali e cultura d'élite, folklore e cultura di massa si fusero ben presto nel calderone delle estati italiane, dando la stura nel mondo della politica ed in quello delle lettere a polemiche anche feroci che non risparmiarono l'interno del Pci e toccarono la punta massima nel biennio 1980-81. L'«effimero» di Nicolini era in realtà la felice risposta allo sviluppo dei bisogni di immaginario nelle pratiche sociali degli anni settanta, aumentati dall'accesso ai consumi culturali di strati metropolitani sempre piú larghi. Ma rappresentava anche un altro modo di affrontare, diverso dagli slogan fallimentari sull'«austerità», la crisi della metà degli anni settanta. Fu un'impresa costruita sul presente senza strategie precostituite né linee già elaborate nelle commissioni di partito, di fronte a realtà urbane che mal si adattavano ai vecchi progetti marxisti o alle vecchie abitudini (anche della sinistra) che sovente riducevano le iniziative politico-culturali all'esposizione di opere d'arte (con ricevimento o cocktail). Le scelte dell'architetto Nicolini, non a caso una figura senza cursus honorum d'apparato, erano guidate da una concezione della cultura intrecciata al consumo, che insinuava una soluzione di continuità nella tradizione della sinistra e che riteneva occorresse, in una società frammentata, accettare il privato riponendo «tesi culturali troppo organiche». Proviamo a immaginare una storia della cultura italiana negli ultimi anni e a indicare come date fondamentali: la prima trasmissione di «Lascia o Raddoppia», il primo numero di «Linus», Italia-Germania 4 a 3, la prima puntata radiofonica di «Alto gradimento», la rottura del monopolio pubblico della Rai-tv e l'entrata in funzione delle tv private, l'assunzione di Oreste Del Buono nella redazione del «Giallo Mondadori» e, perché no?, la prima proiezione, 25 agosto del 1977, di Senso alla basilica di Massenzio e il festival dei poeti di Castelporziano. Forse questa storia d'Italia non ci darebbe il senso completo di quello che è accaduto nella cultura italiana negli ultimi vent'anni, ma certo una storia della cultura italiana degli ultimi vent'anni che volesse ignorare questi argomenti sarebbe a mio parere largamente incompleta. | << | < | > | >> |Pagina 160Alla ricerca della tv intelligente: il «villaggio di vetro» e il rilancio di RaitreComunque con il «decreto Berlusconi» e la legge del febbraio '85 era successo un fatto nuovo, la cui portata si sarebbe colta interamente piú avanti: infatti i due contestati interventi governativi, fatti quasi ad personam, venivano adesso a legittimare un fino ad allora inedito diritto individuale e collettivo al divertimento, un nuovo diritto che aveva nella straordinaria esplosione del consumo di quegli anni il suo retroterra piú importante. La felicità e il piacere di un consumo individuale immediato si collocavano all'opposto dell'etica del progetto e dell'«austerità»: nel momento dell'affievolirsi delle spinte sociali del periodo precedente la tv commerciale incrociava questi fenomeni di valorizzazione del privato e a suo modo li interpretava. Ma la caratteristica forse piú rilevante dello sviluppo delle tv private, quella che forse ne determinava maggiormente l'ampliamento di pubblico, andava cercata piuttosto in una diversa direzione, come quella di essere in sintonía con il filone di antistatalismo e di antipartitismo, di fastidio per le ingessature istituzionali e di distacco dal discorso della politica, filone che lentamente s'insinuava tra le pieghe della società civile: in questo la «guerra dell'etere» prima e la «battaglia degli spot» dopo, rappresentarono, come è stato giustamente osservato, «una funzione latente di fenomeni sociali piú ampi e rilevanti». Il Pci adesso, accettando definitivamente il sistema misto e guardando al consumo senza preconcetti, premeva per un'azienda pubblica in grado di competere sul mercato internazionale e di riequilibrare il rapporto tra produzione e consumo senza amputare quest'ultimo. Il tema dello scarto tra produzione e consumo divenne forse il motivo trainante dell'impegno del Pci sulla televisione a partire dal 1984 e fino al 1987. Certo le preoccupazioni politico-ideologiche sul prevalere schiacciante della produzione americana continuavano a essere qua e là sollevate, ma il tratto che ora caratterizzava l'azione comunista, oltre alla fisiologica battaglia per una legge ancora assente, era quello della ricerca di una tv intelligente: una tv garbata e dalle buone maniere al posto della sguaiataggine che la rincorsa affannosa dell'audience portava spesso inevitabilmente con sé. Programmi come «Quelli della notte», prima, o come «Indietro tutta», dopo, furono in qualche modo l'espressione di questa mobilitazione culturale. [...] Ma il convegno dell'Auditorium cadeva all'indomani di un evento che ridimensionava la portata riformatrice della proposta di «disarmo» televisivo: si trattava delle nomine appena fatte di nuovi dirigenti di reti e tg Rai. Giuseppe Rossini e Nuccio Fava erano andati rispettivamente alla prima rete e al Tg1, Luigi Locatelli e Alberto La Volpe alla direzione della seconda rete e del Tg2, e infine Angelo Guglielmi e Alessandro Curzi rispettivamente direttori della terza rete e del Tg3. Si trattava nella sostanza della divisione esatta dell'azienda in aree d'influenza corrispondenti alle principali culture politiche nazionali: era una specie di «lottizzazione perfetta», che negli anni successivi avrebbe connotato le tre reti pubbliche, impedendo di fatto la riforma del sistema. Essa appariva comunque un passo in avanti ai dirigenti comunisti, che pure aggiungevano ritualmente (come fece Veltroni) che il fatto che professionisti comunisti fossero stati nominati a dirigere reti e testate non doveva avere nessun effetto sulla battaglia politica in corso.
In realtà proprio quanto accaduto con le nomine di
marzo, cui aveva contribuito il clima di ostilità tra Craxi
e De Mita in piena crisi di governo, avrebbe avuto un peso
non insignificante nel condizionare le strategie del Pci:
per esempio, la nuova responsabilità dalla quale erano stati
investiti professionisti di area comunista per la terza rete
veniva subito a confliggere con i propositi di «disarmo»
che Veltroni si era affannato a invocare. Sarebbe stato
certamente piú difficile per i comunisti da allora in poi
procedere su una linea che, se perseguita fino in fondo,
avrebbe comportato il ridimensionamento della rete piú
vicina al partito. In sostanza il convegno sui «Villaggio
di vetro» fu l'ultimo deciso tentativo fatto dal Pci per
giungere a una riforma del sistema mediatico nazionale,
prima di farsi invischiare in una pratica di spartizione,
dalla quale pensò erroneamente di trarre qualche beneficio
elettorale.
|