Copertina
Autore Franco Crespi
Titolo Il male e la ricerca del bene
EdizioneMeltemi, Roma, 2006, Universale 18 , pag. 120, cop.fle., dim. 120x190x10 mm , Isbn 978-88-8353-448-5
LettoreGiovanna Bacci, 2006
Classe sociologia , psicologia , politica , religione
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Indice

  7 Premessa

 10 Capitolo primo
    Teorie del male che fanno male

 11 1. Assolvere Dio dalla colpa del male
 22 2. Il male in funzione del bene
 24 3. Razionalità e obbedienza alla legge morale
 29 4. Al di là del bene e del male
 35 5. Nuove aperture della morale e dell'etica

 39 Capitolo secondo
    L'origine del male: la fuga dall'esistenza

 39 1. L'esistere come situazione inconciliabile
 46 2. Forme di evasione dall'ex
    2.1. Dogmatismo e fanatismo
    2.2. Ragione e progresso
    2.3. Potere e possesso
    2.4. Autosufficienza
    2.5. Edonismo ed estetismo
 68 3. Forme di evasione contrapposte

 70 Capitolo terzo
    L'origine del male: l'assenza di riconoscimento

 71 1. Il carattere costitutivo del riconoscimento
 82 2. Forme di compensazione ed evasione dall'esistere
 85 3. La lotta per il riconoscimento a livello collettivo

 89 Capitolo quarto
    La ricerca del bene

 89 1. Contro il male ineliminabile
 93 2. L'adesione all'ex-sistere
    2.1. Desiderio e passioni
    2.2. I limiti del sapere e la ricerca della verità
    2.3. Ambivalenza dell'esistere e potere individuale
    2.4. Orientamenti etici
107 3. Una cultura dell'esistenza e del riconoscimento

117 Bibliografia

 

 

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Pagina 7

Premessa


Non suscita certo meraviglia il fatto che, negli ultimi sessant'anni, siano venuti moltiplicandosi i libri sul problema del male. Nel dopoguerra, dopo lo scoppio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki e, soprattutto, dopo le allucinanti immagini dei campi di sterminio nazisti e le successive rivelazioni sui gulag sovietici, la riflessione sul male aveva ripreso con forza.

Già all'inizio del Novecento erano entrati in crisi sia l'idea di progresso e l'ottimismo sul futuro dell'umanità condivisi, con qualche eccezione, dai filosofi dell'Illuminismo, sia l'utopia del superamento, grazie alla scienza, di ogni male e di ogni conflittualità promossa dal fondatore del positivismo Auguste Comte. Un'utopia che anche Karl Marx, pur attraverso la lotta di classe cui sarebbe seguita la vittoria finale del proletariato, aveva indicato come un raggiungibile traguardo.

In questi ultimi anni, il tema del male sembra essersi riproposto con ancor più vigore di fronte ai recenti devastanti genocidi avvenuti in Africa, al sanguinoso conflitto bosniaco, all'aggravarsi dello scontro tra Israele e Palestina, alla guerra in Afghanistan e in Iraq, al moltiplicarsi un po' ovunque degli attentati terroristici e, infine, alla catastrofe dello tsunami. In termini quantitativi, la nostra epoca, anche a causa dell'accresciuta sensibilità dovuta allo sviluppo a livello mondiale dei mezzi di informazione, appare la peggiore di tutte quelle vissute dall'umanità. Mai un così grande numero di individui sparsi nel pianeta è risultato vittima di povertà, malattie, violenze, guerre, crudeltà, ingiustizie, catastrofi naturali.

La percezione collettiva del male, in particolare dopo la catastrofe prodotta dallo tsunami all'inizio del 2005 e con le celebrazioni del sessantesimo anniversario della fine di Auschwitz che sono seguite poco dopo, sembra aver subito una profonda trasformazione. Questi due diversi eventi, che hanno visto, da un lato, una mobilitazione a livello mondiale forse mai così ampia nell'invio di aiuti alle popolazioni asiatiche colpite, e, dall'altro, una vigorosa ripresa del tema della memoria, hanno grandemente sottolineato non solo la nostra vulnerabilità nei confronti degli eventi naturali e il rischio sempre presente di derive legate al dominio, ma anche l'aspetto della responsabilità che coinvolge l'intera umanità nei confronti sia dei danni ambientali, sia della violenza politica e sociale.

A fronte di questa realtà, la mia riflessione nasce da una profonda insoddisfazione riguardo al modo in cui, ancora oggi, vengono indicate le cause dei mali che affliggono l'umanità e, in particolare, dalla convinzione che le stesse teorie teologiche, filosofiche e morali del male che, sin dall'inizio, hanno prevalso nella nostra tradizione culturale, pur cogliendo quasi sempre alcuni aspetti rilevanti del problema, si siano rivelate nel complesso inadeguate e, in molti casi, siano divenute, a loro volta, fonti di negatività, impedendo di far fronte in modo più efficace alla presenza del male.

Non ho certo la pretesa di aver trovato una soluzione, ma in questo libro vorrei indicare alcune linee a carattere generale che, a mio giudizio, possono permettere di orientarci verso una migliore comprensione del fenomeno del male, fornendo gli strumenti concettuali utili a contrastare alla radice alcune delle sue cause.

Procederò esaminando tre diversi livelli, strettamente collegati tra loro, attraverso i quali il male si manifesta come conseguenza del tentativo di esorcizzare il carattere inconciliabile della situazione esistenziale. Nel primo capitolo, prenderò molto brevemente in considerazione alcune tendenze presenti nelle concezioni teoriche del male che hanno caratterizzato la cultura occidentale. Non intendo in alcun modo sviluppare un'analisi storico-critica di tali diverse concezioni, che altri hanno già egregiamente condotto, bensì cercherò di mettere in luce quegli aspetti che ritengo più significativi per la mia argomentazione. Tali teorie derivano in gran parte da alcune delle principali rappresentazioni culturali di tipo religioso e metafisico presenti nella nostra tradizione, che appaiono generalmente mosse dal tentativo di trovare una via di uscita dai limiti propri dell'esistenza. Il secondo capitolo sarà appunto dedicato all'analisi dei diversi modi di evadere dall'esistenza. Nel terzo affronterò una delle cause e, al tempo stesso, uno degli effetti più gravi del rifiuto di accettare l'esistenza, ovvero la mancanza di riconoscimento reciproco nei rapporti interpersonali e sociali, nonché nei rapporti tra collettività diverse, mostrando in particolare come il tentativo di compensare tale mancanza a livello individuale viene a incontrarsi, in un circolo vizioso, con le forme culturali prima descritte.

A partire dai presupposti chiariti in precedenza cercherò infine, nel quarto capitolo, di indicare alcuni orientamenti per una lotta contro il male e per una ricerca del bene che siano immuni da tentazioni illusorie, tenuto conto dei gravi effetti negativi che, malgrado ogni buona intenzione, anche tale lotta e tale ricerca hanno spesso prodotto in passato.

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Pagina 39

Capitolo secondo

L'origine del male: la fuga dall'esistenza


Il termine esistenza, di origine latina, è composto dall'avverbio ex – fuori – e dal verbo sistere – stare. Per sottolineare questo significato di star-fuori, amo usare l'espressione ex-sistere (anche se forse sarebbe più corretto scrivere, come fanno altri, ek-sistere). Lo star-fuori che caratterizza la situazione esistenziale rinvia alla dimensione dell'autocoscienza: solo l'essere umano è cosciente di essere qui e questa consapevolezza lo pone al di fuori dell'immediatezza naturale che è propria degli altri esseri viventi. L'essere umano non è più, come gli altri animali, determinato direttamente dalla struttura istintuale, ma, pur conservando una base biologico-istintuale, egli vive nel regime di mediazione del linguaggio e dei modelli socio-culturali attraverso i quali egli si costituisce nella sua individualità con un lungo apprendimento, reso possibile, sin dalla nascita, dal suo rapporto con gli altri. Tale processo essendo condizionato dal particolare ambiente naturale e storico-sociale nel quale egli viene a trovarsi.


1. L'esistere come situazione inconciliabile

La consapevolezza dell'essere-qui presenta, sin dall'inizio, una caratteristica ambivalenza tra il sentimento gioioso di esserci e l'insicurezza circa il proprio esserci effettivo e circa il senso della propria vita. La percezione della propria contingenza è, infatti, molto presto, anche consapevolezza del proprio essere mortale, della propria radicale finitezza. Da qui l'esigenza di una conferma del proprio esserci che, come vedremo meglio in seguito (capitolo terzo), può venire solo dal riconoscimento degli altri e dal senso di appartenenza a una comune condizione umana e sociale.

Se dobbiamo presupporre in ciascun essere umano una predisposizione al linguaggio e alla comunicazione con gli altri e una capacità di elaborare la propria esperienza, la formazione dell'unità individuale appare come il risultato di un processo nel quale la dimensione relazionale, la struttura intersoggettiva, appare determinante. A seconda delle risorse culturali presenti nel particolare contesto storico-sociale, l'essere umano verrà anzitutto assimilando un'immagine di sé, una sua identità, che sarà in gran parte definita in base alle particolari determinazioni simboliche presenti nel suo ambiente familiare, nel suo gruppo o classe di appartenenza: definizioni di natura umana, di individuo, ruoli sociali, senso della vita, rappresentazioni del mondo e della società e via dicendo. La rottura dell'immediatezza istintuale derivante dalla consapevolezza autoriflessiva comporta una serie di interrogativi: "chi sono?", "dove vado?", "cosa debbo fare?", "che senso ha la vita?", "cosa avviene dopo la morte?" ecc. È appunto l'insieme delle risorse culturali che si sono venute accumulando nel tempo, attraverso il linguaggio di senso comune, i racconti mitologici, le narrazioni storiche orali o scritte, ovvero attraverso la memoria collettiva e la tradizione, a dare inizialmente risposte, più o meno convincenti, a queste domande. Da questo punto di vista l'identità di ogni individuo appare come un prodotto socio-culturale (cfr. Crespi 2004). Ma è proprio la capacità di elaborazione cosciente, più o meno sviluppata a seconda dei casi, a far sì che l'essere umano sia anche in grado di prendere le distanze rispetto ai modelli socialmente codificati che gli vengono proposti e di orientarsi nel riferimento ad altri significati e valori culturali che egli avrà scelto in base alla sua particolare esperienza di vita. Ovviamente possono esservi culture che lasciano maggiore spazio di altre a tale elaborazione personale: se nel regime mitico-sacrale, relativamente stabile nel tempo, delle prime comunità tribali, nelle quali non esisteva la nozione dell'autonomia individuale, tale spazio può apparire minimo, esso risulta invece, almeno potenzialmente, massimo nelle società contemporanee caratterizzate da una grande mobilità spaziale e sociale, dalla trasformazione costante delle condizioni di vita, dalla critica dei valori tradizionali e dal pluralismo culturale.

Ciò che importa, tuttavia, tener presente a questo riguardo è il particolare carattere delle forme di mediazione simbolica fornite dal linguaggio e dalla cultura: in quanto forme di determinazione dei significati necessarie per definire la realtà, esse, proprio perché determinate, non possono che essere parziali e riduttive rispetto alla complessità della realtà stessa e dell'esperienza individuale e collettiva, ma, per poter assolvere la loro funzione di determinazione, devono almeno in certo grado venire assolutizzate quali verità "indiscutibili" e "oggettive".

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Pagina 46

2. Forme di evasione dall'ex

I diversi tentativi di evadere dall' ex-sistere, di eliminare l' ex, costituiscono la prima fonte dei molti mali prodotti dall'uomo che nel corso della storia hanno afflitto l'umanità. Tali tentativi vanno tutti sotto il segno dell'assolutizzazione e della sublimazione, ovvero della tendenza contraddittoria ad assumere una formula parziale come se fosse una soluzione esaustiva, a negare l'ambivalenza propria dell' ex-sistere tra finito e infinito, tra determinato e indeterminato, affidandosi a spiegazioni univoche che pretendono di essere definitive o affermando la propria singolarità e autosufficienza senza tener conto del proprio debito nei confronti degli altri.

Ovviamente, non tutte le forme di assolutizzazione presentano lo stesso grado di distruttività: le forme di tipo religioso sono, in via di principio, animate da "buone intenzioni" e, in genere, tentano di orientare positivamente verso la vita e l'amore degli altri, mentre al contrario le ideologie totalitarie di tipo politico, come, ad esempio, quella nazista, o quelle che credono di trarre la loro ispirazione dalla fede religiosa, come, ad esempio, oggi alcune rilevanti frange dell'islamismo, di fatto promuovono il culto della violenza, la sopraffazione degli altri e la discriminazione razziale. In ogni caso, proprio per il loro carattere assolutizzante, anche le forme mosse dai migliori propositi sono suscettibili, come vedremo, di produrre effetti molto negativi.

Non posso ovviamente neppure tentare di sviluppare una tipologia completa delle complesse e molteplici forme di assolutizzazione e dei diversi danni da esse arrecati. Mi limiterò quindi a indicarne schematicamente solo alcune tra quelle che mi sembrano più rappresentative di una patologia che è assai diffusa nella nostra tradizione.


2.1. Dogmatismo e fanatismo

Fin dalle età arcaiche, i grandi racconti mitologici hanno costituito la forma di mediazione attraverso la quale gli esseri umani hanno rappresentato il mondo nel quale vivevano e spiegato il senso della loro esistenza, derivandone anche le regole della morale e della convivenza sociale. Successivamente tale funzione è stata in gran parte assolta dalle religioni universaliste (ebraica, cristiana, musulmana, brahmanica, buddista) e dal pensiero teologico e metafisico.

Queste diverse espressioni sono state il riflesso delle complesse esperienze individuali e collettive realizzate nel corso della storia umana e hanno, senza dubbio, enormemente arricchito la possibilità di comprendere gli infiniti aspetti della nostra esistenza e, tuttavia, hanno anche spesso contribuito a nasconderne i limiti e la sua fondamentale inconciliabilità. Proprio in quanto volti a dare una spiegazione esaustiva del senso della vita e della storia umane, i grandi sistemi religiosi hanno avuto, in Occidente, la tendenza a considerare l'esistenza come un momento di passaggio e di prova in subordine a una vita nell'al di là, mentre, in Oriente, come sottolineava Nietzsche, le diverse religioni sono state per lo più ispirate a una sorta di annichilimento dell'esistenza nella fusione con il tutto, e orientate a estinguere ogni desiderio e ogni volontà di vita, evitando così le sofferenze legate a successive reincarnazioni.

Tali diverse versioni dell'assolutizzazione religiosa, se hanno generalmente costituito per molti secoli le forme di mediazione simbolica attraverso le quali veniva vissuta l'esperienza esistenziale e se hanno senza dubbio favorito atteggiamenti di compassione e di solidarietà tra gli esseri umani, sono state anche fonte, come vediamo ancora ai nostri giorni, di grandi conflitti e di conseguenze distruttive, sia nei confronti degli individui che di intere collettività.

Se prendiamo, ad esempio, in considerazione i processi nei quali è venuta sviluppandosi la fede cristiana in Occidente, con la costituzione di una religione istituzionale gestita dall'apparato gerarchico della Chiesa romana, possiamo rilevare le caratteristiche proprie che assume il dogmatismo, confermando l'equivalenza posta da Nietzsche tra possesso della Verità e dominio.

La religione istituzionale è stata quasi sempre in grado di svolgere un'importante funzione di integrazione sociale. Seguendo la logica di ogni altro tipo di istituzione sociale, essa ha trovato il suo naturale consolidamento sia assolutizzando le forme di determinazione simbolico-normative che la legittimavano, sia articolandosi come struttura di potere. Il prezzo dell'efficacia storico-sociale della religione istituzionale è quindi, da un lato, l'abbandono dell'originario spirito profetico che, costituendo il messaggio religioso come segno di contraddizione, lo contrapponeva alla logica del mondo secolare e, dall'altro, l'adeguamento alle condizioni storiche nelle quali operavano anche le altre istituzioni politiche e sociali.

Nel caso della religione cattolica, possiamo appunto constatare come il messaggio evangelico, originariamente profetico e religioso, sia venuto gradualmente trasformandosi in verità dogmatica che legittima l'esercizio del potere da parte dell'istituzione ecclesiale. È noto che, sin dalla prima fase di costituzione della Chiesa cristiana, soprattutto con Paolo, si è verificato un sincretismo tra rivelazione biblica e filosofia greca, sul quale successivamente sono venuti innestandosi elementi derivanti dalla cultura giuridica romana. Il testo evangelico è stato così progressivamente interpretato secondo l'immagine platonica di un Dio immutabile, nonché secondo il dualismo tra spirito e materia e attraverso la svalutazione metafisica del tempo, per essere successivamente, con la Scolastica, tradotto nelle categorie del razionalismo aristotelico.

Nella tradizione cattolica, com'è noto, l'interpretazione dei testi sacri non è stata affidata, come poi è avvenuto con il protestantesimo, al singolo individuo, affinché egli potesse applicarla alla sua personale esperienza esistenziale, ma è stata invece considerata in pratica come una prerogativa esclusiva del magistero esercitato dall'autorità ecclesiastica. In tal modo, l'interpretazione ufficiale del testo sacro è stata presentata come una verità certa e indiscutibile. La trasformazione del messaggio evangelico in dogma svolge, a sua volta, la funzione di criterio assoluto di legittimazione del potere della gerarchia ecclesiastica, che, come unica depositaria del patrimonium fidei, è abilitata a emanare le leggi, a giudicare le coscienze, a concedere o negare la grazia salvifica, e via dicendo. Come mostra la logica di ogni sistema politico totalitario, colui che possiede la verità si ritiene legittimato a indicare la via da seguire e le mete da raggiungere: coloro che non si adeguano ai suoi comandi o vengono puniti per la loro cattiva volontà o vengono curati come malati incapaci di comprendere. È insita nell'idea di possesso della verità una dimensione di violenza e di repressione che favorisce, da un lato, il fanatiscmo di massa e, dall'altro, sulla base dell'applicazione pratica del principio "il fine giustifica i mezzi", le forme di un cinico opportunismo da parte di chi detiene il potere.

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Pagina 70

Capitolo terzo

L'origine del male: l'assenza di riconoscimento


Come ho accennato prima, l'individuo viene formandosi fin dalla nascita (ma si potrebbe dire fin dal suo concepimento) attraverso il rapporto con l'altro. L'intersoggettività non va intesa come una relazione che interviene tra individui già costituiti autonomamente, bensì come l'essenziale relazionalità a partire dalla quale si rende possibile la stessa costruzione della soggettività. Nessuna coscienza di sé potrebbe, infatti, emergere, nessuna individualità potrebbe costituirsi se non vi fosse all'origine uno scambio relazionale con gli altri. Lo sviluppo fisico e psicologico dell'infante è determinato dal tipo di rapporto e dalle forme di comunicazione gestuale e linguistica che i genitori o altri adulti stabiliscono con lui. Ovviamente dobbiamo presupporre nell'essere umano una predisposizione genetica alla riflessività propria della presa di coscienza e allo scambio comunicativo, che gli consente di entrare attivamente in rapporto con le persone che lo circondano anche prima dell'apprendimento linguistico, ma in ogni caso, senza quel rapporto, tali predisposizioni non potrebbero svilupparsi.

Negare il riconoscimento equivale quindi a escludere una dimensione fondamentale della situazione esistenziale, cercando ancora una volta un'illusoria via d'uscita da una delle sue condizioni imprescindibili.


1. Il carattere costitutivo del riconoscimento

Come ha dimostrato Hegel, "non si può dare un'unica autocoscienza, giacché il suo costituirsi dipende dal sussistere di un'altra autocoscienza o meglio dal suo essere riconosciuta da parte di un'altra. La condizione della consapevolezza di sé è il riconoscimento da parte di un'altra autocoscienza" (Cortella 2002, p. 257). La richiesta di riconoscimento comporta necessariamente anche la dimensione della reciprocità: infatti il riconoscimento dell'altro è per me valido solo a condizione che io, a mia volta, lo riconosca come un'autocoscienza degna di essere riconosciuta e quindi, come tale, in grado di darmi un riconoscimento (p. 265).

Si rivela qui, in primo luogo, che il riconoscimento non è riferito a un'identità già formata dell'individuo, bensì precede ogni possibile processo di formazione di un'identità determinata, essendone la condizione. Io riconosco l'altro come essere umano che, come me, si trova nella stessa situazione dell' ex-sistere, nella sua mancanza e inconciliabilità, nei suoi limiti e nella consapevolezza della morte. Qualunque sia la forma culturale attraverso cui l'altro potrà comprendere tale situazione, anche in modi molto diversi e lontani dai miei, resta pur sempre il fatto che, in ogni cultura, si cerca una risposta agli interrogativi di fondo sul senso dell'esistenza, una maniera di mediare simbolicamente l'esperienza di essere al mondo e di dover morire. Indipendentemente quindi dal modo in cui l'altro si rappresenta la sua esperienza, io posso riconoscerlo come qualcuno che, come me, ha bisogno di un'identità socialmente riconosciuta e, al tempo stesso, come singolarità che, in ultima analisi, rimane insondabile sia per lui che per me. La cultura mi offre infatti la possibilità di rispondere alla domanda "cosa sono?", nel senso che essa pone a mia disposizione, a seconda del contesto storico-sociale cui appartengo, risposte di tipo generale come, ad esempio, "l'uomo è un animale razionale", "l'uomo è il re del creato", ecc., mentre invece alla domanda "chi sono?" io posso rispondere non soltanto ricorrendo alle risorse culturali a mia disposizione, ma anche principalmente sulla base della mia esperienza personale di vita. La mia risposta, tuttavia, sarà in questo caso necessariamente sempre parziale e mai definitiva, dal momento che tale esperienza muta nel tempo e che non sono mai totalmente consapevole di tutte le componenti anche inconsce che operano in essa. La risposta sul "chi" non può quindi mai essere esaustiva della realtà dell'individuo: il chi resta, in ultima analisi, inoggettivabile.

Se non riconosco l'irriducibilità dell'altro a ogni definizione di tipo identitario, se non ne colgo la profonda differenza rispetto a ogni determinazione che, come tale, è necessariamente riduttiva, di fatto non lo riconosco veramente.

Si rivelano qui due aspetti complementari del riconoscimento: da un lato, esso è possibile solo a partire dalla convinzione dell' uguaglianza originaria tra me e gli altri fondata sull'appartenenza alla comune situazione esistenziale; dall'altro, esso nasce dalla consapevolezza che ogni singolo individuo, a partire dal suo contesto socio-culturale e dalle condizioni contingenti della sua vita, è, in via di principio, in grado di elaborare un'esperienza dell'esistenza che è soltano sua e, pertanto, il riconoscimento è veramente tale solo in quanto rispetto della sua differenza, che resta, in ultima analisi, refrattaria a ogni mio tentativo di definizione.

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Pagina 93

2. L'adesione all'ex-sistere

Il problema che si pone qui è se vogliamo continuare a combattere il male attraverso proiezioni illusorie che tendono a individuare univocamente, ora in questo ora in quell'altro fattore, l'obiettivo da combattere o il capro espiatorio da sacrificare, offrendo prospettive altrettanto illusorie di un definitivo superamento dell'inconciliabilità dell'esistenza, oppure se, sulla base della lunga esperienza storica che ha portato alla crisi dei grandi racconti mitici e ideologici di tipo religioso e politico, non sia venuto il momento di assumere più responsabilmente, ma forse anche più umilmente, un punto di vista diverso che, in termini generali, viene qui indicato come l'atteggiamento fondato sull'adesione all' ex-sistere.

Abbiamo cercato per secoli il senso della vita nell'ordine dell'universo, nel disegno divino, nella società ideale, nel progresso scientifico e tecnico; ora sembra venuto il momento di puntare direttamente lo sguardo sulla nostra situazione esistenziale, rivendicando un'autorealizzazione che è fine a se stessa, anziché essere subordinata a finalità astratte (cfr. Touraine 2005, p. 170). Potrebbe sembrare strano che dopo tanti secoli non ci siamo ancora resi conto della realtà che ci è più vicina, di ciò che in effetti costituisce il nostro quotidiano. Ma questo, come del resto aveva osservato Heidegger, è un fenomeno ricorrente: spesso ciò che ci è più vicino è il più lontano, guardiamo verso l'orizzonte anziché la terra che sta sotto i nostri piedi.

Vi è chi ritiene che un cambiamento di questo tipo non sia possibile, in quanto considera che la cultura simbolica sia necessariamente legata ad astrazioni e ad assolutizzazioni distruttive. Wolfgang Sofsky, ad esempio, dopo aver correttamente denunciato il fatto che "Le idee grandiose costano innumerevoli vittime. Giustificano la violenza e la pretendono. (...) Il sogno dell'assoluto partorisce violenza assoluta", afferma fatalisticamente che la cultura è sempre legata alla violenza, che quest'ultima "è il destino delle nostra specie. Ciò che cambia sono le forme, i luoghi e i tempi, l'efficienza tecnica, la cornice istituzionale e lo scopo legittimante" (Sofsky 1996, p. 193). Ora, se è vero che la violenza non è mai del tutto eliminabile, che una certa misura di violenza è sempre presente nelle stesse determinazioni culturali in quanto forme riduttive della complessità del senso della nostra esperienza e che il rischio di tramutare tali forme in verità assolute è sempre presente, non si vede, d'altra parte, perché non sarebbe possibile pensare a una cultura che, sottolineando appunto lo stretto nesso tra violenza e assolutizzazione, sia in grado di proporre valori e modelli di tipo relativizzante e antiviolento, fondati sulla consapevolezza dei limiti del nostro sapere e delle nostre interpretazioni della realtà, nonché sulla nostra comune appartenenza alla situazione esistenziale. Tornerò tra breve sul difficile problema di una cultura prevalentemente orientata verso l'esistenza, ma è ovvio che tutto il senso del mio discorso va in quest'ultima direzione.

Mi si potrà obiettare che anche il mio punto di vista comporta un certo grado di assolutizzazione. In effetti, ogniqualvolta vogliamo dire qualcosa di determinato, non possiamo non assolutizzare, non parlare come se quello che stiamo dicendo fosse una verità assoluta. Vi è però una differenza di fondo tra chi propone, sia pure con passione, una prospettiva teorica, nella consapevolezza del suo carattere parziale e del fatto che, in quanto è una proposta, va considerata come un invito al dialogo e chi, invece, ritiene di possedere una verità assoluta che, come tale, vuole imporre agli altri.


2.1. Desiderio e passioni

Come ho ricordato prima (capitolo secondo, paragrafo primo) e come ho cercato di dimostrare nella mia critica dei modelli stoico ed epicureo volti a eliminare le passioni e il desiderio di assoluto, prestare attenzione all' ex-sistere comporta anche riconoscere che le passioni e il desiderio sono una componente essenziale del nostro modo di essere-al-mondo, non quindi cercare di estinguerli, ma al contrario viverli nella consapevolezza che la mancanza originaria non potrà mai venire colmata. A questo proposito, andrebbe rivisto il concetto stesso di speranza e di disperazione. Riconoscere il carattere insuperabile della mancanza vuol dire, infatti, essere in certo modo disperati, accettare realisticamente il fatto che la nostra esistenza rimarrà, in ultima analisi, incompiuta. La speranza va allora orientata, non, come nelle grandi visioni religiose e politiche totalizzanti, verso il raggiungimento di una soluzione definitiva dell'esistenza in un al di là trascendente o storico, bensì come speranza di poter aderire al senso dell' ex-sistere come tale, un senso, come ho già rilevato, che può essere vissuto, ma non può essere interamente detto, in quanto rimane irriducibile ai significati determinati propri della nostra capacità cognitiva. La disperazione che si esprime con l'atteggiamento di rifiuto dell'esistenza, "se non vi è una soluzione determinabile in modo assoluto, allora non vale la pena di vivere", è un'altra forma di evasione dall' ex-sistere, un'altra forma violenta di assolutizzazione. La disperazione invece che risulta dalla consapevolezza del carattere inconciliabile dell' ex-sistere non è il contrario della speranza di viverne concretamente il senso: per rappresentare tale significato particolare dell'unione di speranza e disperazione, sarei tentato di formulare qui il concetto di di-speranza.

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