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| << | < | > | >> |IndiceIX Premessa 3 PARTE PRIMA - VIAGGIO A BEIRUT, CITTÀ DELLE SFIDE 5 Capitolo 1 - Piazza dei Martiri: «a fronte alta cammino. In mano un ramo d'ulivo, e sulla spalla la mia bara...» - In aereo, destinazione Beirut, p. 5 - Il Casino du Liban e la città dei caffè, p. 12 - Una città ambigua? Tre opinioni, p. 16 - Mettere in musica l'idea che le tradizioni sono le rivoluzioni di ieri, 18 - La piazza di Beirut: un orologio nel tempo sospeso, p. 19 23 Capitolo 2 - Un gigante dai piedi d'argilla sfida i regimi - Seduto al Caffè degli Specchi, osservando la città... le montagne, p. 23 - Beirut nell'Ottocento, p. 31 - Una città cosmopolita, ma con il rovescio della sua anima, p. 33 - Il nazionalismo arabo, le mitologie, la guerra civile, p. 37 - La resistenza, la rassegnazione.. e il kitsch, p. 41 - Un gigante dai piedi d'argilla, p. 42 - Davanti alla moschea invocata tra le minigonne nasce il simbolo che unisce Croce c Corano, p. 43 - 2004-2007: un'agghiacciante catena di delitti politici p. 46 - Verso la guerra di luglio: il ruolo di Damasco letto attraverso l'assassinio di Samir Kassir, p. 57 - Tre racconti della guerra del 2006, n. 59 - L'assedio del palazzo del Grande Serraglio, p. 69 - Un possibile bilancio, p. 72 - Ma vale la pena parlare di Beirut?, p. 74 77 PARTE SECONDA - LA PRIMA SFIDA: IL CONCETTO DI CITTÀ. E DI CIVILTÀ 79 Capitolo 1 - Beirut: le origini cosmopolite secondo Jens Hanssen - L'avventura dell'Ottocento: feudalesimo e modernizzazione, p. 79 - Ibrahim pascià e Bashir II, «Emiro dei Drusi», p. 81 - I due governatorati e l'orrore del 1860, p. 87 - Una lettera al sultano per sfidare Damasco, p. 92 - I tratti salienti degli appelli al sultano, p. 95 - La rivoluzione delle Tanzimat, p. 98 - La provincia ottomana di Beirut: strani confini e novità amministrative, p. 100 - La miserevole sconfitta dello Yang Tse e del capitalismo finanziario, p. 102 - Stessa città, altro volto, p. 108 - La rete tranviaria, p. 109 - Beirut, città ottomana p. 111 - Al di là del sistema dinastico, p. 112 114 Capitolo 2 - La rivoluzione scolastica: Butros al-Bustani e Muhammad 'Abduh - Gli albori di un nuovo metodo scolastico, p. 114 - Butros al-Bustani, p. 116 - Un egiziano a Beirut: Muhammad 'Abduh, p. 119 - La Bibbia tradotta in arabo, p. 121 123 Capitolo 3 - «Al centro sia Place de l'Etoile: anche se è impossibile!» - Il colonialismo francese: una valutazione di «impatto sociale», p. 123 - Il «metodo» Place de l'Etoile, p. 125 128 Capitolo 4 - Osservando lo spazio urbano e la società civile: dal 1992 al 2007 - I poster di Hafez al-Assad e il primo ricordo di Beirut, p. 12 - Addio caffè Modka, p. 129 - L'incantevole voce di Fairouz, p. 131 - L'irresistibile ascesa di Rafiq Hariri, p. 132 - Solidere, p. 135 - Un primo sguardo, p. 137 - I critici di Solidere e alcune «dimenticanze», p. 139 - Hariri: un oppositore per imposizione, p. 141 - L'opinione pubblica, Wadi Abu Jamil e la nuova città, p. 144 - Hezbollah nella nuova città, p. 146 - La Beirut di Hariri: costruzione di un finto passato?, p. 147 151 PARTE TERZA - LA SFIDA NEL CAMPO DELLE IDEE 153 Capitolo 1 - Uno sguardo fugace negli scritti della Nahda - Beirut e Damasco, p. 153 - Rifa'ah Tahtawi, p. 155 - Farah Antun, p. 156 - Quattro articoli di Salim al-Bustani, p. 157 - Tanzimat: valutazioni conclusive, p. 159 161 Capitolo 2 - A scuola di mitologie: padre Lammens letto da Kamal Salibi - Una brutta sorpresa, a Parigi, p. 161 - La storia capovolta di Henri Lammens, p. 163 - La mano divina nei confini di Siria e Libano, p. 164 - Maroniti perseguitati dai musulmani? No, dai bizantini, p. 165 - Il mito del fenicianesimo, p. 167 - L'inquietante lascito politico, p. 169 172 Capitolo 3 — Beirut prima della guerra civile: rifugio del libero pensiero. E inferno dei diseredati - 1970: una città di un milione di abitanti, p. 172 - La vita dei poveri vista con gli occhi del vescovo «ribelle», Gregoire Haddad, p. 174 - Il Sessantotto di Beirut nel racconto di Samir Kassir, p. 175 - Il crack dell'Intra Bank, p. 177 179 Capitolo 4 — La questione sciita ed Hezbollah, nuova «fabbrica di povertà» - «Shi'iyy shuyu'iyy »: uno scioglilingua o una verità che impauriva molti?, p. 179 - Hezbollah e gli sciiti di Beirut, p. 183 - L'altro volto sciita. L'attuale imam di Tiro, p. 185 187 Capitolo 5 — Una rivoluzione copernicana. Kornet Chehwan, i cristiani e la politica - Il medico senza malati e il malato senza medici, p. 187 - Due patriarchi, due idee opposte, p. 188 - La rivoluzione copernicana e Kornet Chehwan, p. 190 - La visita di Giovanni Paolo II, p. 92 - Kornet Chehwan secondo il vescovo Joseph Beshara, p. 194 - La piattaforma del movimento, p. 195 - Un «piccolo» esempio: il patriarca e il Presidente sullo Shouf, p. 196 - Samir Franjiyeh e «Una lettera da Beirut», p. 197 - Samir Franjiyeh: sintesi di colloqui amicali, p. 201 207 Conclusione. Come si elegge un presidente? - Un'elezione emblematica. I deputati reclusi, p. 207 - «Il voto è rinviato!», p. 209 - La lista del patriarca, p. 210 - I francesi, il ruolo della religione... e la paura, p. 212 215 Cartina di Beirut 219 Cronologia 223 Bibliografia essenziale 231 Nota discografica 233 Ringraziamenti 235 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina IX«Quella storica non è una ricerca finalizzata soltanto al sapere, è finalizzata anche alla comprensione: e la casa della comprensione ha molti appartamenti.»
(KAMAL SALIBI,
A House of Many Mansions)
Prima di partire da Beirut trovo sempre il modo di fare una passeggiata sul lungomare. Ma quella sera ero assillato da un dubbio: sarei tornato nel 2008? Sarei potuto tornare? Dopo anni di delitti politici, gli ultimi mesi del 2007 avevano segnato l'inizio di quelli militari; si arrivava così al «crimine per fatto personale». Chi non voleva il tribunale internazionale per l'assassinio di Rafiq Hariri e di tanti altri infatti aveva preso ad uccidere generali ed inquirenti. Con il 2008 sarebbe scoccata l'ora dei magistrati? E poi di chi altro? Solo quando sono arrivato a Roma ho capito che il problema era un altro: cosa bisogna aspettare per dichiarare ufficialmente cominciata una guerra civile? Non basta che da oltre un anno il centro di Beirut sia sotto assedio e che quasi ogni giorno ci sia un attentato? La storia non è detto che si ripeta uguale a se stessa: forse Beirut sul finire del 2007 era già nella sua nuova guerra civile.
Da quando si è conclusa quella protrattasi fino al 1990 si ricorre
all'espressione «libanizzazione», che il dizionario Larousse ha introdotto così
in francese nel 1991: «libanisation, processo di frammentazione di uno Stato,
quale risultato dello scontro tra diverse comunità». A differenza di molti
altri Stati arabi questo non è una dittatura, ma con i drammatici eventi
susseguitisi dal 2005 il Libano ha preso nuovamente ad avvolgere Beirut nel
suo processo di frammentazione, che oscilla tra lo scatenare una
guerra civile ed il ridursi a pedina di altri, soprattutto per la forza
delle sue montagne, «rifugi eterni e sicuri dei perseguitati»: maroniti per i
maroniti, sciiti per gli sciiti, drusi per i drusi. Ma l'ultima grande città
mediterranea dell'Oriente, una città di commerci e commercianti sunniti,
maroniti, drusi, sciiti, non ha intaccato quelle mitologie? Per me la risposta
sta in due liriche di Marcel Khalife, il grande musicista che da anni racconta
conquiste e insuccessi di Beirut.
Memorie La sua memoria sovviene innocua Lui non si sottrae È bello nell'uniforme Mai stanco, mai smarrito Non ha lasciato mai il campo di battaglia Non ha perso la pace né la guerra È verde, come i pini È rosso, come la trincea È blu, come il tempo Noi ti portiamo i salici Quindi, puoi dormire Nel silenzio, in pace Libero e sicuro Come un prato all'alba Noi ti veniamo incontro E con la forza del dolore Ci liberi dalla paura Sai, la rabbia lievita nel sottile interstizio Che separa tradimento e onestà Guardati da me Io sono quello che tace Che esita, che si ritira E ritorna Io sono il relitto che si innalza Io sono la luce, testimone Dal deserto al mare Alla fine, anche la mia epica sta arrivando Il mio sangue, ferma obiezione E resistenza... resistenza Tu, questa canzone ed io Tu, questa canzone ed io Apparteniamo al tempo dell'amore Lascia che canti per te Lascia che ti racconti una fiaba Forse, amore mio, potremo dimenticare Nelle notti rischiose la tua voce Mi libera dalla paura Mi libera dalla pazzia Canta per me così che possa addormentarmi Canta fino a quando sarò ancora caldo Solo tu, amore mio, Rimani dei tempi tranquilli Canta, così dimentichiamo La tua voce, amore, È il sorriso nei tuoi occhi È il desiderio che rimane Sulle tue mani che tremano Tu sei la felicità, tutta Solo tu Rimani dei tempi tranquilli Canta, amore mio, Dimentichiamo Sì, Beirut è proprio così: resistenza, come ha dimostrato riversandosi in Piazza dei Martiri il 14 marzo del 2005 per chiedere libertà, e rassegnazione, come dimostra tenendo dentro di sé autentici ghetti. Forse non dovrebbe sorprendere che in tempi a dir poco difficili popolazioni traumatizzate tendano a ricollegarsi con la propria famiglia, la propria comunità. Eppure nelle aree miste di Beirut il valore delle case è superiore a quello che si registra nelle zone omogenee, al di là della qualità della zona o dello stabile. E maggiore è anche l'attività edilizia. Contraddittorio? Forse una risposta ancora valida l'ha indicata il 3 dicembre del 1991 lo sciita Talal Husseini sul quotidiano «an-Nahar»: «La stragrande maggioranza dei libanesi ha una grande fame di civiltà [...] La competizione tra di loro nella ricerca della civiltà è probabilmente la prima giustificazione della guerra civile. Il concetto di civiltà comporta che si dovrebbe applicare a tutti coloro che appartengono alla città. Ma questo non può portarci a ritenere coloro che precedono gli altri nella corsa alla civiltà, in gran parte cristiani, colpevoli del fatto che la civiltà non includa ancora tutti. [...] Ma la sua diffusione generale rimane il problema di fondo dal quale dipende il nostro destino: non abbiamo altra possibilità per sopravvivere che trasformare il nostro Paese da quello dei Rifugi in quello della Comune Civiltà». | << | < | > | >> |Pagina 5In aereo, destinazione Beirut Dire che una città è fatta al contempo di resistenza e rassegnazione vuol dire ritenere che trasmetta un carattere resistenziale e rassegnato a gran parte dei suoi cittadini. Ho interpretato proprio così il fatto che il 22 novembre del 2007, quando si prendeva atto che il Paese da solo era incapace di eleggere un nuovo Presidente della Repubblica, il mio amico Zaki andasse di fretta. La temperatura era improvvisamente scesa in quei giorni e la pioggia aveva fatto il suo tardivo ingresso dopo un'estate innaturalmente protrattasi fino a domenica 18 novembre; in quell'ultimo giorno d'estate migliaia di persone hanno preso parte alla «Maratona di Beirut», facendo vedere a chiunque volesse vedere la doppia anima di Beirut; migliaia e migliaia di persone partecipavano, festose e determinate, ad un evento sportivo mentre intorno a loro si percepivano i preparativi di ronde armate, di gruppi paramilitari. Erano passati appena quattro giorni da quella domenica, ma non c'erano più 26 o 27 gradi, non era più il caso di sedersi all'aperto. Così quando ho incontrato Zaki l'ho invitato a prendere qualcosa da bere in un caffè dove si può stare confortevolmente all'interno. In città la tensione era evidente. Ormai erano tutti convinti che neanche quel giorno si sarebbe trovato un accordo sul nome del nuovo Presidente: e quindi che di lì a poche ore il Paese sarebbe entrato in un inquietante vuoto di potere. Ovviamente la politica era al centro di tutti i discorsi; discussioni infinite. Ma Zaki andava di fretta, visto che di lì a breve avrebbe portato la famiglia al teatro: «Vado, altrimenti faccio tardi davvero. Poi quando torneremo a casa riprenderò un discorso che sto facendo ai miei figli da tempo. Sai, qui tutti credono negli accordi dell'ultimo momento, è per questo che non si evitano le catastrofi. Così da un po' di tempo ho cominciato ad avvertire i ragazzi che un giorno mamma e papà potrebbero non avere i mezzi di oggi. Potremmo non avere la possibilità di comprarvi giocattoli nuovi, gli dirò questa sera. Ma gli dirò anche che loro non devono cambiare, devono continuare a sognare... Ed a chiederci di comprargli dei giocattoli nuovi con i quali giocare».
Ma come si è arrivati di nuovo a temere in modo così profondo, intimo, il
ritorno della guerra civile? E soprattutto, perché la
popolazione di Beirut ha vissuto con una sorta di isteria collettiva quelle ore,
arrivando a far registrare ad un noto istituto di ricerca che l'inizio dei
telegiornali e dei giornali radio causava nell'audience mal di testa, conati di
vomito, attacchi d'isteria? Per rispondere dobbiamo capire con quale città
abbiamo a che fare.
Beirut è al centro di un incastro di volumi davvero unico. È distesa sul mare, tra la collina di Ashrafiyye, cioè la zona «dei nobili», ad est e quella di Mousseitbeh ad ovest: qui le pendici precipitano a mare nelle rocce urbane di Rawshe (che i francofoni translitterano Raouche e gli anglofoni Raoushe). In mezzo, in una sorta di piccola vallata, c'è il centro cittadino. L'entroterra si fa immediatamente montuoso: tra il mare e le prime pendici dei monti ci sono poche centinaia di metri. Chi ha visto Beirut nel Settecento sostiene che giù, nel cuore della città, ci fosse il palazzo dell'emiro Fakhr al-Din, impropriamente considerato il padre della patria, essendo stato il primo emiro di un territorio paragonabile all'odierno Libano. Fakhr al-Din, morto nel 1633, era alleato del Gran Ducato di Toscana e nemico dei turchi: ma, quando tentò l'insurrezione contro la Sublime Porta, Firenze non inviò le truppe promesse e il sultano pose termine al sogno indipendentista dell'emiro ribelle facendolo catturare e strangolare. Un cronista settecentesco, Mariti, lo chiama Faccardino e racconta di aver visitato il suo palazzo restaurato, rimodellato in base al gusto europeo grazie all'aiuto di apposite maestranze che aveva portato con sé dalla Toscana. Nella sua cronaca si legge di marmi multicolori e di mura decorate con vasi. Quei lavori di restauro hanno segnato l'inizio di una certa storia moderna di Beirut, centro fortificato all'inizio dell'Ottocento, poi grande scalo ottomano, quindi città ridisegnata dai francesi, distrutta dalla guerra civile nella seconda metà del Novecento e recentemente ricostruita. Una città dalle tinte pastello e una storia che nell'Ottocento è stata affascinante sebbene con qualche tratto crudele, feroce sebbene con alcuni tratti affascinanti nel Novecento.
Da quando ho visitato per la prima volta Beirut, circa quindici
anni fa, ho preso ad andarci con crescente frequenza. A differenza di molti
colleghi che hanno scritto su Beirut, io non l'ho conosciuta né visitata durante
la guerra civile, ci sono arrivato subito dopo. Potendo, prediligo arrivare la
domenica. A Beirut la domenica è molto più che un giorno di chiusura degli
uffici e di negozi. La vita è come rallentata; alcuni giornali non escono, le
strade sono deserte, chiunque abbia potuto è andato al mare o in
montagna: più facilmente in montagna, nel villaggio d'origine,
nella vecchia casa di famiglia. Ma i locali pubblici, i caffè di Beirut, sono
sempre aperti e al centro di continui cambiamenti. Recentemente, ad esempio,
sono arrivato in città ed ho notato che
il vecchio caffè Wimpy, un ritrovo storico su via Hamra, era
chiuso per via dei lavori di restauro dell'intero stabile, ma pochi
metri più in là il neonato Costa tentava di rinverdire i fasti del
più rinomato caffè degli anni Sessanta, l'Horse Shoe. Insomma,
arrivare di domenica consente di entrare in città con tutta calma e andare a
prendersi una bevanda dove si voglia, calati in un silenzio ovattato, l'opposto
del chiasso frenetico degli altri giorni.
Era il 16 settembre del 2007: poco prima, mentre ero in fila al
controllo passaporti, ho salutato una collega. Mi ha detto che andava a
stare a Jemmayze: «ah, il mio quartiere preferito», ho detto istintivamente,
aggiungendo «Io invece alloggio ad Hamra...». Lei mi ha risposto che quello è
il suo quartiere preferito,
«lo percepisci che in tempi lontani era un quartiere cristiano:
poi con i mutamenti urbani... Ma Hamra è Beirut!». Stranezze
della vita: benché tutto il quartiere di Ras Beirut, cioè «la testa di
Beirut», abbia luoghi prestigiosi e una vista stupenda, il suo corso principale,
via Hamra, cioè «la rossa», l'ho sempre trovato
un po' freddo, deludente, a differenza di Jemmayze, quartiere
per me caldo, romantico, come il suo nome, che è quello degli alberi che
riempivano i suoi patii; lì mi è facile andarci, molto più
difficile è decidere di andarmene via. Ma è vero che Hamra pur
potendo deludere comunque sorprende. Stretta e affollata di
gente ed insegne in arabo, inglese, francese, anche italiano,
Hamra come le strade limitrofe dà subito la certezza che comunicare non sarà
un problema; ed è così. Del vecchio Mediterraneo, quello di Smirne ed
Alessandria, forse Beirut è l'unica vera sopravvissuta. Lo indicano l'università
gesuita, quella americana, un tempo protestante, l'università francese. E
queste ultime due sono a Ras Beirut, a due passi da Hamra. Si dice che in un
tempo lontano, a metà dell'Ottocento, un missionario protestante decise di
mettersi in marcia proprio da questa zona della città.
Andava in montagna, ad aprire una scuola in un villaggio sperduto. «Ma a che
serve aprire una scuola in quel villaggio dimenticato da tutti?», gli avrebbero
chiesto: «Serve, serve: appena avrò avviato i lavori arriveranno i cattolici».
È facile rendere bella la storia con il senno di poi. È stato l'interesse
occidentale a portare in Libano i missionari. E dietro quell'impresa c'era
un'ispirazione coloniale. Ma oggi ci sono scuole cattoliche frequentate da 80
alunni musulmani su 100. E a Beirut le tante coesistenti educazioni hanno
segnato il carattere della città e dei beirutini;
entrambi difficilmente normalizzabili.
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