Copertina
Autore Ugo Cundari
Titolo Mistero Napoli
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2006 , pag. 198, cop.fle., dim. 14x21x1,5 cm , Isbn 978-88-7937-370-8
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe narrativa italiana , citta': Napoli , libri
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Pagina 7

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La luce invisibile e sfrenata che da secoli pulsava nelle arterie sotterranee del Vesuvio aveva ripreso a mostrarsi. Sordi muggiti rimbombavano sotto le tuniche, lungo le pendici cresceva un solido muricciolo di sciara.

Da mesi, istantanee scattate dalla bocca del vulcano lampeggiavano contro un sole imbarazzato o contro una luna impassibile; una volta rischiarando una mandria di svelte nuvole, un'altra un effimero equilibrio di stelle e pianeti. Da un paio di notti, al lucifero spettacolo di fuoco si era aggiunta l'ombrosa frenesia della pioggia e un nuovo ritmo tellurico. Connubio di elementi, incertezza della materia — ma i napoletani non sembravano impauriti, lui era solo uno dei tanti lazzari irriguardosi. E poi, fintantoché la terra si limitava a balbettare, senza grossi scossoni, non c'era nulla da temere; avevano fatto più morti e spavento la peste e la prima eruzione per il battesimo del secolo barocco.

Nell'umida oscurità del Duomo di Napoli, rischiarato dai lumini a olio posti sull'altare, l'aria era carica dell'odore e dei fumi dell'incenso. Spesse nubi si aggiravano tra i banchi, le colonne pardiglie e i fedeli in preghiera. Una preghiera di scongiuri, un coro di tremuli toni:

«Tu, che ognor vomiti turno sì nero,
or che sovra lo cielo spalanchi cento orizzonti, deh!
fuga le caligini tonanti, ricacciale là
giù nel fosco Acheronte, dona a noi la pace».

Fuori c'era la notte del quindici dicembre 1693. Alcune botteghe avevano ancora i battenti aperti, qualcuno continuava a contrattare sul prezzo dei Re Magi o del Bambinello di sughero. Robuste villanelle si affrettavano cariche di ceste traboccanti di verdure e frutta. Dal ventre della terra s'alzava un canto disperato, una litania di quelle che solitamente precedono travagli laboriosi.

In fondo alla chiesa, inginocchiato ai piedi di un crocifisso nudo, privo di corpo, il canonico Carlo Celano stringeva i grani del rosario. Aveva gli occhi chiusi, due ciocche di capelli gli scappavano fuori dalla papalina, sulla faccia bruna e rugosa sporgevano folte sopracciglia e un pizzo curato. Il vecchio cuore pulsava lentissimo, il respiro era quasi una sequenza di apnee. Negli orecchi drizzati, desiderosi di ascoltare buone notizie, arrivava solo la litania di scongiuri. Il freddo, dopo avergli morso le gambe, risaliva lungo la spina dorsale. S'avvinghiava ai muscoli, alle cartilagini, alle ossa. Ma era suo compito resistere, aspettare il parroco a tutti i costi.

Frate Bronte, finalmente, fu di ritorno. Recitando mentalmente l'ultimo verso del millesimo rosario quotidiano si avviò verso il maestro. Dai sandali che gli lasciavano i piedi scoperti scorrevano rigagnoli di acqua sporca, la tonaca inzuppata gli cascava pesante. Si inginocchiò alla destra di Celano, rabbrividì e guardando il crocifisso sussurrò:

«Pater è certo, lo Vesuvio rumperà brevi tempore, la terra è pronta a girar velocie come a lo principio de lo munno, fatevi salvo e...».

Un tuono, di fulmine o di Vesuvio, lo interruppe. Dall'alto, attraverso i rosoni colorati, filtro una figura di luce geometrica, che visse il tempo di un istante sul pavimento della chiesa. La litania dei supplici si interruppe, poi riprese più spedita e intonata di prima.

«Tu, che ognor vomiti fumo sì nero,
or che sovra lo cielo spalanchi cento orizzonti, deh!
fuga le caligini tonanti, ricacciale là
giù nel fosco Acheronte, dona a noi la pace».

Il canonico si sforzò di parlare. La robustezza delle mani nodose, tenacemente avvinghiate ai grani, lo incoraggiava.

«Si pure delibera de inondarci de lava, cierto abbiamo da credere che sia lo foco purificatore de lo Purgatorio, et non abbiamo de che preoccupare. Tieni a mente quello che ci dicemmo sovra de isso, intorno a la sua bocca, lungo li suoi declivi... Piuttosto riferisci de l'ottavo: volume neopitagorico?» riuscì a domandare spalancando gli occhi per un momento.

Aveva uno sguardo intenso, ribelle, non da prete sottomesso o in cerca di potere.

«Volume neopitagorico. Ho portato a compimento toti li vostri desiri... l'ottavo eletto sta salvo».

«Li autri?».

«Come vostra voluntas, in subterranea castelli de...».

«Et la sigla supra lo volume neopitagorico? Hai fatto imprimere la estabilida? Sei cierto che lo volume habbia legature de argiento e charta de Amalfi? Chi saperria scovarlo avarrà certo da esse anco un accesus librorum amator».

Il parroco esitò, non voleva che il suo maestro si affaticasse. Celano strinse più forte i grani. Era una lotta impari. Frate Bronte gli si avvicinò ancora un poco, ponendogli una mano amorevole sulla spalla. Era magro, vestiva una vecchia tonaca lisa, ma poteva fare affidamento su un'energia enorme. Aveva trascorso i primi anni della vocazione alle pendici del Vesuvio, vivendo in una grotta come un eremita e cibandosi solo di bacche e ghiande. L'unico suo peccato era stato, nei momenti di sconforto in cui i ricordi della vita nel mondo erano troppo intensi, quello di arrampicarsi in cima al vulcano, passeggiare sulle sue labbra grinzose e da lì cercare la compagnia del mare: era capace di fissarlo anche una giornata intera, gli comunicava quell'energia che gli altri, il mondo, non avrebbero esitato a chiamare rabbia, a condannarla perché di ispirazione demoniaca, mentre era la sua inestinguibile fonte di fede. E anche quando le eruzioni del vulcano diventavano più intense, quando una pioggia di pietre e massi cadeva fitta, lui rimaneva impassibile al suo posto, certo che il sommo padre non avrebbe mai osato procurargli del male.

Una notte di luna nuova aveva incontrato Celano, che invece si arrampicava sul Vesuvio per scaricarla la rabbia, quella accumulata esplorando Napoli. Nel redigere i libri della sua erudita guida della città e nel portare conforto al popolo, infatti, si rendeva conto della estrema miseria in cui era tenuto dai vicerè spagnoli. La prima volta parlarono l'intera notte, passeggiando tra i boschetti di mirti e di gelse come se nulla fosse, mentre il Vesuvio secerneva lava da tutti i pori.

Le notti seguenti continuarono a incontrarsi sulla bocca di fuoco, finché il canonico non convinse il discepolo a ritornare tra la gente, forte della sua fede e della possibilità di fare uso della rabbia a fin di bene. E poi, altrimenti, il canonico sarebbe morto senza eredi spirituali.

«Sì, anco la sigla è la misma, come vostra voluntas: non è mutata nec una nota nec una lettera. Ma nunc pigliate quiete, dimettete qualunque cogitazione e fujtevenne, fino a che rimane lo tiempo!».

Il viso di Celano si distese. Le tre grosse rughe che gli solcavano la fronte si allentarono. A che pro fuggire?

«Morio felice. Chi hanno nomenato in vece mia?».

Un tuono lontano, stavolta in assenza di luce, invase in un lampo la chiesa. Il diluvio non aveva mai smesso. Frate Bronte sentiva l'irresistibile richiamo del suo vecchio padre, ma non osava abbandonare Celano.

«Come fate a sapere che...? Lo consiglio de lo Istituto ha designato a la unanimità... lo abate Andrea Belvedere... proprio lo Pontefice ha datum disposizione, et lo medesimo viceré...» rispose il parroco imbarazzato.

Si avvertì un rumore sordo, poteva essere tanto un colpo di tosse di un fedele, quanto l'urto delle ossa congelate del vecchio frate che cedevano. O forse si trattava di un masso ruttato a breve distanza dalla chiesa.

Celano guardò diritto negli occhi il fido discepolo. Voleva confidargli il suo ultimo sogno, voleva descrivergli la città di Napoli — i suoi quartieri, i suoi cunicoli, le sue viscere, il suo popolo — come l'aveva contemplata l'ultima notte, lì nella cella del chiostro, ma vocali e consonanti alterate, nel mezzo dei fumi di incenso, si fecero largo:

«Dove è, dove è lo dissimulatore et birbante? Aggio da avere la mercede che m'ha promisso!».

Comparve frà Mastino, parroco della chiesa di santa Maria del Purgatorio ad Arco.

La litania dei fedeli non subì ripercussioni, continuando incessante. Frate Bronte si alzò di scatto e si voltò furioso, il canonico impassibile.

«Colloqueo cum voi, canonico, scorno de la Chiesa! La lapide è sistemata, in unione a lo inintelligibile sigillo che avete voluto far inscrivere a li anguli, et in unione a la imagine che solo in parte comprehendo. Anco lo rito è stato mutato come vostra voluntas! Et in ista maniera voi ahora cacciate lo argiento!».

Il parroco del Duomo stava per avventarsi contro l'altro. Fra i due non era mai corso buon sangue, sembrava l'occasione buona per una resa dei conti. Ma il canonico anticipò la rissa rivolgendosi a frà Mastino:

«Non ti abbastano li furti de li tornesi che prendi a li poveri, le galline che esigi da le vecchie de lo Lavinaio? Si non ti abbasta, spoliati tu de la tonaca e vesti la porpora del vicerè o de lo birro».

«Significa che non avarria le monete d'oro che voi m'avete promisso? Farria destruere illa maledicta lapide, farria nullare la ordinanza de recitare ille insolite et aliene formule...».

Celano, pur non riuscendo più a comprendere le parole, ne distinse chiaramente il tono minaccioso. Sollevò di scatto le braccia al cielo, con una forza presa Dio solo sa da quali meditazioni, e lampeggiò uno sguardo incendiario dentro agli occhi di quel frate che insieme al saio di seta portava anelli d'oro ai mignoli.

Frà Mastino perse l'equilibrio, si accasciò vicino al canonico e prese a recitare la litania appresso ai fedeli.

Ormai a Celano le parole sembravano sommessi lamenti di bocche senza suono, vani desideri di articolazione di bui. Inspirò per l'ultima volta: ingoiava saliva dolciastra. I fumi dell'incenso si colorarono di un blu violento, intravide ali d'angeli sulle braccia del crocifisso, la pelle del serpente inchiodata al posto del corpo del Redentore. Per qualche minuto credette di stare meglio, ma durò poco; presto ebbe la sensazione che qualcosa si fosse arrestato, sentì il sangue rallentare e il singhiozzo di un pianto discreto.

Ebbe l'impressione che il cervello galleggiasse dentro una nuvola di celestiale confusione. I pensieri presero la forma dei vicoli della Napoli delle sue Notizie, un concentrato di tutte le voci di scugnizzi, feste, chiese, monasteri, castelli, sirene, pulcinella elevati all'ennesima potenza e masanielli costretti ai lavori di strada per i loro dieci venti figli, di donne enormi a tutte le età che nascono vivono e muoiono per sfamare, delle capere, delle Piedigrotte cristianizzate a forza, dei pozzi e delle catacombe dove s'era calato fino a sessantaquattro anni, delle pietre rivolte nella speranza di trovare antiche iscrizioni o imbattersi in pezzi di belle arti, delle leggende sulle madonne e sui padreterni, del Dioniso che festeggiava dove ora era stata eretta una sobria fontana... di una terra violata, di una violenza immatura, poco sfruttata, che si ritorce contro.

L'ultimo respiro di incenso, l'ultima stretta delle mani ai grani.

La certezza di avere agito a favore delle rivolte di domani.

Il sereno riposo del nulla.


Il Vesuvio, quella notte, fu tartarea torcia visibile fino in Africa, schizzò tutto il fuoco e la rabbia, provocò le stelle più luminose, interruppe il corso di una cometa, bruciò il drappo imbellettato del cosmo – poi tacque a lungo, finché non fu abitato di nuovo da frate Bronte.

La terra, di rimando, si mosse all'improvviso per una manciata di secondi, ma pacificamente – poi riprese a inseguire e inseguirsi rispettando le sue leggi.

L'aria fu corsa da soffi bizzosi e irreali, ora ghiacciati ora bollenti – poi si paralizzò pesante, divenendo cappa.

Ti mare di Meraellina fu sempre pacato, diritto come una tavola pulita e ordinata - eppure aveva qualcosa del lugubre legno dove s'esegue l'autopsia di un cadavere.

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Era stanco, si preparò per la notte in un battibaleno. Sotto le coperte, prese dal comodino il libro del suo venerato filosofo bibliofilo, Elemire Kapnist. Il libro come sinonimo di guerriglia interiore aveva sempre quell'incipit così trascinante...

«Per libro noi intendiamo ogni riunione, ogni organizzazione non autorizzata di parole il cui fine primo e ultimo sia ferire il cervello del lettore, ridicolizzare le sue più intime e salde convinzioni, mostrare la stupidità dei suoi più ragionevoli ragionamenti, arricchire la sua vita di ombre e luci mai vissute prima. In questa fine di Ventesimo secolo di libri così non se ne scrivono e, se pure, non si leggerebbero. Noi vogliamo aizzare, istigare chi ha le capacità di scrivere un libro: perché per noi, dire libro è già dire rivolta. Ecco perché libro va in corsivo, perché deve tagliare, essere affilato, subdolo nella sua onesta ricerca della verità, fare deragliare il senso comune. Il libro quieto non esiste, è un'aporia, una contraddizione in termini. La libertà che offre un libro è la ferita degli ideali e delle convinzioni... è assurdo e quasi un crimine che un libro, la lettura, non comporti per ciò stesso febbri e convulsioni... è assurdo che un libro possa essere letto in metropolitana o per rilassarsi, davanti al fuocherello di un camino o in spiaggia sotto l'ombrellone... Libri così non esistono o per lo meno non hanno il diritto di chiamarsi libri. Per leggere i libri che intendiamo noi bisogna armarsi di scudo e lance, accettare di ferirsi e di perdere molto, molto sangue... Riconosciamo l'esistenza di libri teorici e pratici, dove i primi insegnano modi e tecniche per mettersi in rivolta nell'animo, i secondi colpiscono direttamente il lettore per quello che dicono e per i concetti che esprimono. Noi crediamo al libro come strumento di ribellione dei popoli oppressi e come strumento di risveglio dei popoli liberi. Con i libri si cambia il mondo, con i libri si possono fare le uniche guerre giuste e sante. Noi non amiamo la pace interiore, pur consapevoli che la prima rivoluzione di tutti i tempi sia stata quella della terra intorno al sole, che da miliardi di anni segue sempre le stesse regole. Libro è lib-e-ro troncato della e che gira le terre e i cuori degli uomini, indossa l'elmo appuntito di un accento e insegna urlando che cosa è la libertà, che cosa è vita, chi è uomo».

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Si guardò intorno, all'inizio con circospezione. Poi, complice anche il silenzio assoluto rotto qua e là da rimbombi che potevano essere tuoni del cielo o sfoghi del Vesuvio, non gli bastò più leggere i dorsi da lontano e si decise a sfogliare qualche volume. Non ce n'era uno che non contenesse già dal titolo il seme della rivolta, che non fosse contro ogni tipo di teoria ufficiale o di quieto vivere. Dalla Nuova dimostrazione che il Sole gira attorno alla terra di Federico Roccagiada, alla Vita di Cristo sulle montagne del Tibet di Ib'n Sul'mon Rasfajan', alla Aritmetica dimostrata senza algebra e senza Euclide di autore anonimo, al raro esemplare cartesiano L'innamoramento dimostrato more geometrico, fino ai dieci volumi della Enciclopedia delle scienze primordiali di Jesus Bunjas e alla Guida alla liberazione dalla morte artificiale di Alì Akbar Sâkkobôshî. Ma il libro che più colpì la sua attenzione fu un trattato mistico del 1199, in cui si svelava l'unica tecnica per giungere a cospetto dei cherubini del sesto cielo: inumidirsi le labbra di olio, spruzzarsi le orecchie di zolfo, cospargersi le palpebre di mercurio e le narici di sale. Bisognava modellarsi una sorta di volto alchemico; una volta raggiunto un perfetto equilibrio di proporzioni, si sarebbe sviluppata una energia interna, un calore tale che tra i due occhi si sarebbe sprigionata una potenza così forte da far staccare realmente la testa del mistico, che saliva in cielo a contemplare...

«Si interessa di mistica?».

Palmieri, in elegante vestaglia rossa chiusa sopra un completo scuro con cravatta bordeau, con due occhi piccolissimi, i capelli scarmigliati, comparve sull'uscio. Profumava di sapone da barba.

«Sì, i libri di mistica mi attirano perché li vedo come scale. scale costruite per salire al cospetto dell'unico Dio esistente, che è dentro di noi... Complimenti per le librerie».

Si strinsero la mano.

«Grazie, ma in verità mi manca ancora un gradino».

«Per...».

«Per raggiungere le vette di Ludovico Manuzio».

«Il bibliofilo?».

«Il più grande, secondo me; ma soprattutto l'autore di una trentina di pubblicazioni sullo scopo ultimo del libro».

Un tuono lontano acconsentì.

«Come ha potuto vedere lei stesso» proseguì Palmieri lanciando uno sguardo alle librerie, «i miei libri sono messi insieme per argomento, come consuetudine di ogni bibliofilo che si rispetti. Eppure, non sono ancora riuscito a mettere uno vicino all'altro un romanzo d'amore Harmony e un testo di patristica. Certo, lo potrei anche fare, ma quello che voglio dire è che ancora non sono riuscito a scorgere i legami sotterranei, che di sicuro esistono, tra questo genere di libri».

«E Manuzio?».

«Si dice che sia riuscito a collocare non solo sullo stesso scaffale, ma uno a fianco dell'altro la Bibbia dei Settanta, un trattato di botanica, le poesie di Bukowski, una storia del cinema... E in fin dei conti, caro professore, lo scopo supremo dei libri è proprio questo: legare insieme ogni aspetto del mondo e della vita, rivelare i legami sottili, sotterranei. E poi, un libro in una biblioteca non vive più solo delle sue parole, ma prende il senso e il valore anche delle parole dei libri che gli stanno attorno... una volta sistemati nelle librerie, i libri si scambiano ossigeno e anidride carbonica... D'altronde, per dirla con Borges, nella Biblioteca suprema quando tiri via un libro trascini anche tutte le altre migliaia dagli altri scaffali...».

«Quindi lei non e d'accordo con la teoria bibliotecaria di Calvino?».

«Quella secondo cui ogni biblioteca deve avere il suo centro di gravità, il suo nucleo di libri canonici? Mai e poi mai!!».

Palmieri, dopo un momento di arrabbiatura, sfoggiò di nuovo un largo sorriso e aggiunse, radioso:

«Eppure devo ammettere che venero il Calvino che scrisse: "La letteratura è ricerca del libro nascosto lontano, che cambia il valore dei libri noti, è la tensione verso il nuovo libro apocrifo da ritrovare o da inventare"».

Palmieri, soddisfatto, si strinse leggermente la cinta della vestaglia e fece cenno a Celano di seguirlo nello studio, dove i libri, stavolta, erano ammucchiati per terra, disordinatamente, in ogni angolo della stanza. Niente librerie, niente mensole; alla parete un quadro che raffigurava in mezzo alle fiamme e a una decina di teschi alcune figure umane, ma con una espressione che si sarebbe potuta dire non di sofferenza, piuttosto di speranza, di serena fiducia. Una lama di luce cupa, per tre quarti compatta ma alla estremità sfrangiata e senza forma, illuminava per quanto possibile l'ambiente attraversando una lunga vetrata. Da lì si scorgeva il Vesuvio, sporco di fumo e di rosso agli angoli della bocca.

«Non creda a un Vesuvio redivivo, a un Vesuvio che sputa fiamme! A Napoli il fuoco non viene mai fuori da lui, è raro; a Napoli il fuoco esce fuori direttamente dalla terra, dal Purgatorio delle anime dannate, non ha bisogno di vulcani intermediari. Quello è l'unico fuoco vivo e vero... Ma veniamo a noi! Allora, qual è questa formula segreta, o collocazione da biblioteca che mi ha accennato al telefono?».

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7



Lungo via Partenope la pioggerella obliqua sembrava generata dal mare più che dal cielo nero, puntando verso l'alto, soggetta a una gravità capovolta. Eppure nelle viscere della distesa d'acqua, così come sulla sua superficie, non c'era collera o fremito, anzi. Il mare era calmo, piatto, una lineare distesa. Tutt'al più, dava l'idea di ritirarsi lentamente e abbandonare il riflesso della città al suo cieco destino. Poseidone ripiegava.

L'andatura di Celano, con il bavero del cappotto rialzato e lo sguardo basso, era lenta, pensierosa. Si stava infondendo, ma non gli dava fastidio. Respirava profondamente l'aria salmastra, benché ogni tanto arrivassero ventate di zolfo, e provava gusto a sentirsi le goccioline sul viso. Aveva voglia di fumare, ma continuava a non farlo.

In anticipo per l'appuntamento, se la prendeva comoda, benché dovesse arrivare alla sede dell'Orientale che distava una buona mezzora. All'altezza di Castel dell'Ovo, fu subissato da toni di voce alterati e parole ispirate.

Alzando lo sguardo, si accorse che il lungomare era affollato di esaltati imbonitori, apostoli, predicatori, missionari e profeti che non aspettavano migliore occasione. Rubare, rubare le anime era stata la parola d'ordine corsa tra di loro dal primo minuto del risveglio del Vesuvio. E sembrava che i napoletani non aspenassero altro, perché era da molto tempo che non sapevano più che farsene della loro anima.

Un tizio in completo scuro gridava in una lingua a metà tra il napoletano e l'americano e chiamava alla conversione mormona. Un altro, in precario equilibrio su uno scranno di cartone, invitava a liberarsi da tutti i legami con questo mondo, perché la fine era vicina – mentre una signorina in corta gonnella e sorriso accattivante s'aggirava sussurrando nelle orecchie le coordinare bancarie utili alla liberazione. Un altro ancora, con una corona di agli sul capo e una collana di pomodori attorno alla gola, urlava a poca distanza da un gruppetto di donne abbracciate in preghiera e rivolte verso il mare:

«È la punizione della Terra. Troppe ferite, non l'abbiamo amata, distruggiamo le automobili i televisori le fabbriche e tutto quello che è contro natura... solo così potremmo evitare il castigo finale».

Qualcuna delle ammaliate già fissava una macchina in sosta.

C'era anche chi non s'era perso d'animo, e da una salda postazione sugli scogli del fondo pietroso appena nato dal ritiro delle acque, con un mucchio di ombrellini impiccati al braccio, gridava verso la gente che correva per ripararsi dalla pioggia:

«Non è il momento di arrognare la mano, compratene uno, solo ottomila lire... Li hanno fabbricati ieri a san Giorgio, sono di amianto, resistentissimi, fatti apposta per la cenere e i lapilli... la punta è stata affilata nel caso poi non vi rimanga altra soluzione che farla finita, da usare per voi o contro qualcun altro...».

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«Dunque nel secolo in cui visse il mio avo scrivere significava anche nascondere...».

«Forse dovremmo dire "soprattutto" nascondere. Ora veniamo alla sua domanda: è possibile che il canonico abbia voluto fare riferimento proprio a un libro contro la Chiesa? Partiamo di nuovo dal momento storico: tra il 1600 e il 1700 in tutta Europa, e soprattutto a Napoli, allora capitale del Regno delle due Sicilie e seconda città per abitanti dopo Parigi, ci fu un'improvvisa e inaspettata repressione cattolica contro ogni forma di eresia. Furono condannati al rogo più libri in quel periodo di quanti ne abbiano bruciati Hitler e Stalin messi insieme. A Napoli la gara fu tra spagnoli e preti, e proprio alla fine del secolo dei barocchi fu promulgata una legge, De impressione librorum, che rendeva più difficile l'esercizio dell'editoria e la circolazione dei libri imponendo regole ferree. Gli storici giudicano quella recrudescenza un evento fisiologico, feroce ma naturalmente ciclico. Eppure così non è. Lunedì quindici novembre 1699, al gruppo di archeologi impegnati nella riscoperta di Pompei, ma che ancora non aveva effettuato scavi sufficienti, arrivò una segnalazione: il temporale del giorno prima aveva fatto cedere parte del terreno nei pressi dei tentativi di scavo, ed era venuta alla luce una immensa biblioteca di papiri – dovevano affrettarsi, perchè alcuni già venivano rubati: per la cronaca, di lì a poco sarebbe stata scoperta Pompei. Oggi quei papiri sono conservati tutti al Museo Nazionale di Napoli, tutti tranne uno, scomparso irrimediabilmente. Da quel che è stato possibile ricostruire, anche dagli altri diecimila papiri ritrovati, il papiro scomparso doveva riportare la traduzione di un antico testo del celebre Dicearco di Cuma, quinto secolo avanti Cristo, considerato uno dei saggi dell'antichità, fine traduttore e insigne matematico: parlava correntemente quasi tutte le lingue allora conosciute, compreso il sanscrito».

«Fu uno dei fondatori di Neapolis, fra l'altro...» lo interruppe Celano.

«Esatto, e l'unica persona ad avergli dedicato una approfondita serie di studi, fu proprio il canonico».

«Nelle Notizie di certo non si fa riferimento a Dicearco, e nelle commedie scritte sotto pseudonimo non penso....».

«Nella biblioteca del British Museum si trova un testo di Gorge Spendel sulla storia delle colonie greche, in cui, riportando per intero il brano della fondazione di Neapolis, si rimanda proprio al Celano per approfondire gli studi su Dicearco, anche se il titolo del libro citato non sembra sia mai esistito... Cronistoria dei vagiti di Neapolis, città fondata con metodo pitagorico».

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