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| << | < | > | >> |IndiceIn cui Claude Garamond, maestro stampatore a Parigi, si reca a Neuchâtel, in Svizzera, per scoprire la verità 15 I Come ho deviato dalla strada tracciata per me dalle consuetudini e sono diventato l'apprendista stampatore di maestro Antoine Augereau 26 II Come imparo a padroneggiare la cassa di composizione e a conoscere meglio maestro Antoine Augereau, che mi racconta frammenti della sua infanzia 41 III Come svolgo il mio lavoro di apprendista e capisco che non basta stampare i libri, bisogna anche saperli scegliere 55 IV Come faccio la conoscenza di un grande amico e mi preparo per un viaggio alla ricerca di libri più saggi e di caratteri più chiari 70 V Come iniziamo il nostro viaggio in direzione di Basilea, incontriamo persone interessanti e perfino l'ombra di maestro Villon 83 VI Come proseguiamo il nostro viaggio per Basilea, dove arriviamo presto, incontriamo stampatori illustri e ammiriamo tanti bei libri 100 VII Come valichiamo le Alpi, giungiamo a Venezia e ci sistemiamo all'insegna dell'Ancora e del Delfino, dove ci si affretta con calma 112 VIII Come familiarizziamo con Venezia, stampiamo libri, incontriamo persone interessanti e torniamo a Parigi 124 IX Come imparo quanto necessario a concludere il mio tirocinio, e come mio padre si ammala con grande turbamento di mia madre 139 X Come, dopo la morte di mio padre, sentiamo parlare di Martin Lutero, e come tutti sperano l'avvento di tempi migliori 151 XI Come le nostre vite sono travolte da tristi avvenimenti, poi dal gioioso intervento di Cupido 163 XII Come attraversiamo la dolce Francia in direzione di Fontenay-le-Comte, incontriamo frate François e troviamo qualche ostacolo sulla nostra strada 178 XIII Come osservo Poitiers con gli occhi di maestro Antoine, e arrivo a dare uno sguardo anche ai suoi anni di tirocinio 190 XIV come arriviamo a Fontenay-le-Comte, dove maestro Antoine Augereau è nato e dove la sua famiglia gode di onorata reputazione 203 XV Come, a Fontenay-le-Comte, maestro Antoine Augereau, vedovo Bocard, sposa Françoise Barbier, vedova Garamond 217 XVI Come, tornati a Parigi, cominciamo ad attuare i Tempi Nuovi e incontriamo le prime difficoltà 230 XVII Come le prime difficoltà si tramutano in guai e come i miei maestri mi consigliano di cambiar padrone 245 XVIII Come lavoriamo a creare i caratteri dei Tempi Nuovi, ci accorgiamo che tutto è collegato ed è difficile lasciare l'occhio del ciclone 258 XIX Come la felicità del mio matrimonio viene guastata dalle prime persecuzioni di cui sono vittime i nostri amici e che potrebbero minacciare anche noi 271 XX Come, mentre lavoriamo a creare l'alfabeto dei Tempi Nuovi, le forze dell'oscurantismo gotico annientano il cavaliere di Berquin 286 XXI Come maestro Bocard passa la mano a maestro Antoine che, a poco a poco, diventa l'unico responsabile dei libri che stampa 303 XXII Come maestro Antoine Augereau stampa libri per eruditi e studenti e si pone numerose domande 317 XXIII Come, a dispetto della sua volontà di restare nell'ombra, maestro Augereau si trova esposto, per l'eccellenza del suo lavoro, ai pericoli della notorietà 332 XXIV Come «Lo specchio dell'anima peccatrice» subisce le prime persecuzioni in una Parigi dove ormai regna la diffidenza 348 XXV Come i pericoli si avvicinano e come maestro Antoine Augereau scampa per un soffio a un brutto guaio 362 XXVI Come l'affissione dei manifesti sacrileghi contro la messa viene imputata a maestro Antoine Augereau, che pure li biasimava, e come lui si difende ma invano 378 XXVII Come un giusto muore ingiustamente e come siano i fatti a vendicarlo, ma troppo tardi 395 In cui maestro Claude Garamond, stampatore a Parigi, fa importanti scoperte e regola i conti in sospeso prima di mettersi in viaggio per tornare a casa 413 Scoprire Antoine Augereau 428 Che ne è stato dei miei amici? 443 Bibliografia 455 |
| << | < | > | >> |Pagina 11La tradizione chiama garamond il carattere tipografico che state leggendo e che risale al 1530 circa. Contrariamente agli altri garamond, questa non è un'interpretazione bensì una ricostruzione, quanto più fedele possibile all'originale, realizzata nel 1994-95 dal creatore di caratteri canadese William Ross Mills. La font è attribuita a Claude Garamond per ragioni che chiarirò alla fine del libro. Tuttavia nessun documento prova tale attribuzione e anzi, se la si analizza con attenzione, alcuni fatti concreti inducono a porsi delle domande. In base all'opinione di numerosi esperti, i quali si sono perfino stupiti della cosa, è indubbio che quelli di Garamond siano una «copia fotografica» (sic) di caratteri risalenti anch'essi al 1530 circa ma intagliati da Antoine Augereau, suo maestro di tirocinio. In pratica, si può ipotizzare che questi caratteri garamond siano di Augereau, il cui nome è però andato perduto nel corso della storia. Comunque stiano le cose, la parentela tra le due font è così stretta che il lettore non sbaglierebbe se attribuisse i caratteri che sta leggendo ad Augereau. Il corsivo (o italico) invece, come attestato da documenti incontrovertibili, è proprio opera di Garamond, che lo ha inciso intorno al 1545. Antoine Augereau non ha mai intagliato caratteri italici. La ricostruzione del corsivo che si dà in questo libro è sempre di William Ross Mills. I capilettera decorati, all'inizio di ogni capitolo, sono di Antoine Augereau. | << | < | > | >> |Pagina 55A posteriori mi accorgo che, pur raccontandomi un mucchio di cose, maestro Antoine teneva conto della mia giovane età. Si guardava bene dal parlarmi delle sue letture o, più precisamente, dei sentimenti che gli suscitavano. Ma mi incoraggiava a leggere, e mi prestava sovente dei testi che lo avevano colpito. Però devo ammettere che, nei primi tempi del mio tirocinio, il libro mi interessava più come oggetto, più per la tecnica che per il contenuto. Mi piaceva correre a sbrigare le commissioni che mi affidava il mio maestro — l'apprendista deve avere le gambe più svelte della bottega; mi inebriava passare davanti alle bancarelle degli innumerevoli librai che costellavano il mio tragitto. Vendevano ciò che presto sarebbe stato il prodotto del mio lavoro e, ai miei occhi, la loro semplice esistenza era di enorme interesse. Ci tenevo a saperli riconoscere. Ma non mi occupavo di quello che vendevano. Ovviamente, mi era impossibile ricordarli tutti: lungo le vie che scendevano alla Senna, intorno a chiese come Saint-Yves, Saint-Mathurin, Saint-Etienne o Saint-Hilaire, intorno alle collegiate, intorno alla nostra stessa bottega, nel quartiere dell'università, non c'era casa che non avesse un torchio o non ospitasse una rivendita di libri. Ho iniziato esplorando i dintorni immediati. Uscendo a destra, dal lato di Saint-Hilaire, c'era la libreria di Thibault Charron, all'insegna di San Claudio; a sinistra c'erano allora Lo Scudo di Basilea, L'Albero verdeggiante, Il Cuore volante, L'Immagine di San Cristoforo, Il Corno di daino, La Samaritana, per citarne soltanto alcune. Dietro rue Saint-Jean-de-Brauvais si trova rue des Carmes. Mio padre vi possedeva una casa, una delle poche non occupate da uno stampatore. Brulicava anch'essa di mercanti di libri: Al Buon cuore, Alla Casa rossa, Alla Pigna, Al Leoncino d'oro, Al Grifone d'argento... L'apoteosi era, ed è tuttora, Grand-Rue-Saint-Jacques: lì ogni casa ospita non uno, ma più mercanti. Non li ho mai contati, ma credo che già all'epoca ci fossero nove o dieci dozzine tra stampatori e librai. La Graticola, L'Unicorno, La Rosa bianca incoronata — tenuta dalla famiglia Le Noir; La Salamandra, dove lavorava il grande Josse Bade detto Badius; Il Fior di giglio, Al Sole d'oro, Allo Scudo di Borgogna, di Bretagna, di Colonia, di Francia, Alla Quercia verde, Al Pellicano e tanti altri. Poi c'erano i ponti, dove si trovavano (e si trovano) soprattutto venditori: La Rosa bianca al Pont Saint-Michel, L'Uomo selvaggio al Pont au Change — una libreria dove da decenni si può acquistare quasi tutto quello che viene stampato. Con il Palazzo invece avevo a che fare di rado, non mi ci mandavano quasi mai. Ma anche là, a ogni pilastro il suo mercante — o i suoi mercanti — di libri. Gli unici posti in città che non mi piacevano erano i luoghi di supplizio: per quanto facessi, il mio tragitto ne era sempre disseminato. Ruote di ferro, patiboli di legno, gogne, spuntavano a ogni angolo di Parigi: place de Grève, Les Halles, Croix-du-Trahoir, Marché-aux-Pourceaux, Montfaucon, place-aux-Chats, porta Saint-Denis e soprattutto, vicino a dove lavoravo io, in porta Saint-Jacques. Impossibile nominarli tutti. Passarci non mi piaceva ma, con la disinvoltura dell'adolescenza, chiudevo gli occhi e mi sforzavo di pensare ad altro: mi sembrava che non mi riguardassero. Oggi invece, dopo averci visto morire tanti innocenti, alcuni dei quali mi erano amici, non posso rievocarli senza rabbrividire. Da quel girovagare, che interrompevo giusto in tempo per non farmi rimproverare e che variavo ogni volta, rientravo con la testa piena di immagini, di colori, di voci. E, a differenza di certi colleghi apprendisti che avevo finito per conoscere durante le mie scorribande, tornavo sempre con piacere. Maestro Antoine mi aveva trasmesso il suo amore del mestiere. Paradossalmente, è proprio tramite la tipografia che ho potuto comprendere quale passione lo animava. Una sera mi ero ritirato nel mio bugigattolo — le lanterne erano spente e la casa si stava preparando, così pensavo, a dormire — quando maestro Estienne e maestro Antoine sono entrati nella stanza attigua: quella dei correttori, il posto migliore per parlare. Ho capito subito che con loro c'era Robert, il figlio degli Estienne destinato alla stampa. Ascoltandoli (del tutto involontariamente: le voci filtravano benché mi tappassi le orecchie per cercare di dormire), ho capito che il mio maestro giudicava noiosi i libri che stampavamo. Dagli Estienne si parlava quasi sempre in latino: madama Guyone, la moglie di Henri, lo parlava bene quanto lui, i suoi figli lo imparavano in fasce, e lo usavano anche le serve, talvolta persino tra loro. Questa conversazione, invece, si svolgeva eccezionalmente in volgare. «Cosa stampiamo all'infuori delle solite glosse teologiche, degli immancabili commentari latini su Aristotele? Niente». «Ma cosa state dicendo? Si vendono. Anzi, sono molto richiesti». «È vero. E lo accetterei senza fiatare, se accanto ai dotti trattati di matematica o di teologia stampassimo anche qualcos'altro». «Che cosa intendete con qualcos'altro, mio caro amico?». «Libri di cui ci si ricorderà!». «E non credete che opere che contribuiscono a educare dottori, teologi, avvocati e medici siano tra quelle di cui ci si ricorda?». «Sapete bene che non mi riferisco a questo tipo di ricordo. Parlo di libri davvero immortali, come quelli di Aristotele stesso». «Ma se avete appena detto che non ne potete più di Aristotele!». «Io Aristotele lo venero. Sono stufo dei commentari oziosi e spesso stupidi sulle sue opere; sembrano fatti per oscurare il testo anziché rischiararlo. Ma non c'è solo Aristotele. Non avete visto, al Pont au Change, i libri arrivati da Venezia? Aristofane, Esiodo, Omero, Virgilio... E poi ci sono i grandi poeti italiani che hanno scritto anche in volgare: Dante, e la sua magnifica Commedia, le poesie di Petrarca, i racconti di Boccaccio... Noi stampiamo libri splendidi, curatissimi, ma lavoriamo solo con il torchio, non con la testa». «Padre, i racconti di Boccaccio...». «Tu sta' zitto, per favore! E ti ho già detto di filare a letto!». «Con tutto il rispetto, non è il momento di mandarlo a dormire. È lui il lettore di domani, dobbiamo educarlo, interessarlo a ciò che si stampa». «Come no! Mandiamo a chiamare anche gli apprendisti, già che ci siamo». «Ho l'impressione che Claude ci stia già ascoltando, visto che dorme proprio dietro la parete. Non è vero, Claude?». Mi sono infilato in fretta e furia le brache sopra la camicia e sono uscito, scarmigliato e a piedi nudi. «Bene, eccomi assediato dalla gioventù» ha commentato sarcastico maestro Estienne. «Hai qualcosa da dire, Claude?». «N... No». Avevo la sensazione di tradire maestro Antoine, la mia mente era intorpidita. Ma lui sapeva sostenere le proprie ragioni anche da solo, non aveva bisogno di me. «Innanzitutto, perché non stampiamo mai niente in volgare?». «Ma mio caro amico, non c'è richiesta, e inoltre la Facoltà non lo vedrebbe di buon occhio». «Sapete che sta facendo Jacques Lefèvre d'Étaples all'abbazia di Saint-Germain? Traduce la Bibbia. È stato qui non più tardi di ieri a portarci il suo Commentario sulle Lettere di san Paolo, di cui sto preparando la stampa; non faceva che parlare della sua gioia all'idea che i testi sacri saranno presto accessibili a tutti. Sì, sta traducendo la Bibbia in volgare, basandosi sui testi più affidabili. La libera dalle scorie accumulate nel corso dei secoli sopra alle Scritture autentiche. Altri hanno scoperto un nuovo mondo. Noi potremo pur scoprire il vero contenuto dei testi sacri! Smetterla di andare alla ricerca dei quattro sensi delle Scritture». «Da dove arriva una simile idiozia? "Smetterla di andare alla ricerca dei quattro sensi delle Scritture"!». «Direttamente dalla bocca di Lefèvre, o meglio dalla sua penna. Si legge così nel suo Commentario sulle Lettere di san Paolo. Per uno come Lefèvre conta il senso letterale, la scoperta del senso profondamente spirituale dei testi. Chi potrebbe dissentire?». «Più o meno tutta la Sorbona! E...». «Vado a messa come ogni buon cristiano, e domenica dopo domenica sento quegli ignoranti torcere le Sacre Scritture in tutti i versi per far sì che dicano ciò che gli fa comodo. Uno di questi giorni dovranno rendere conto alle loro pecorelle di quel che raccontano». Ha riso senza allegria. «Capisco che la cosa li preoccupi un po', visto che non ci sono abituati». «State dicendo delle mostruosità. Io mi limito a stampare i libri che mi portano». Maestro Antoine è scoppiato a ridere, e in effetti ne aveva ben donde: Henri Estienne era un grande studioso, di immensa erudizione; prima di decidere se stampare un libro ne parlava a lungo con il suo autore o, se si trattava di un classico, con il suo curatore. Ma in quel momento era furente e ha continuato come se maestro Antoine nemmeno lo avesse interrotto. «Non tocca a me scegliere. Gli studiosi che mi onorano della loro amicizia sono molti: Brigonnet, du Bellay, Guillaume Budé...». «Ma io non ho niente da ridire sul vostro lavoro, maestro, Dio me ne guardi. E nemmeno su tutti questi dotti personaggi, è chiaro. Chi stampa libri più belli dei vostri, a Parigi? Posso rispondere a ragion veduta: nessuno. Eccezion fatta, forse, a volte, per Josse Badius. E possiamo continuare così. Oppure, in più, possiamo fare anche qualcos'altro». «Che cosa, per esempio?». «In primo luogo, dovremmo utilizzare dei punzoni romani di qualità». «Ma insomma, mi state parlando di punzoni o di contenuti?». «Sono inscindibili. A materia nuova, nuova forma. E già che ci siamo, potremmo fabbricarne di greci». «E chi lo farebbe?». «Come chi? Io!». «Ma la cosa richiede una abilità, una competenza...». «Maestro Estienne, vi ricordo che ho imparato il greco fin dalla più tenera infanzia, che ho fatto un lungo tirocinio di oreficeria, che quando sono arrivato da voi ho iniziato con l'incidere dei caratteri da voi usati ormai quotidianamente — e che non mi piacciono più molto, sia detto tra parentesi. Vorrei fare di meglio. Non avete mai avuto niente da rimproverarmi, che io sappia. Volevo diventare stampatore, e l'ho fatto. Ma ho cominciato come chierico, poi incisore e fonditore di caratteri». Maestro Estienne l'ha guardato, pensoso. «Non farete mai nulla come gli altri, Antoine. No. Non protestate. Voi fate le cose a modo vostro senza cattiva volontà, senza neanche pensarci. Non è che cerchiate di distinguervi, siete semplicemente appassionato del vostro lavoro. Però vi distinguete. Certe persone sono così, e voi siete una di quelle. Allora, cosa proponete?». «Di cercare testi nuovi». «Che genere di testi nuovi?». Maestro Antoine ha sollevato un libro con cui aveva giocherellato durante la discussione. «Un libro come questo. Purtroppo, siamo stati preceduti ed è già uscito. Perciò, non saremo noi a goderne i frutti». Maestro Estienne l'ha preso come se si trattasse di un tizzone ardente. L'ha aperto. «Moriae Encomium. Elogio della follia. Non ci mancava altro!». «Leggetelo, maestro, e vedrete». «Io l'ho letto» è intervenuto Robert. «È straordinario». «Di che t'impicci? E poi chi ti ha dato un libro del genere? Scommetto che siete stato voi» Estienne ha puntato un indice accusatore contro maestro Antoine. «Certo che no! Il mio apprendista è testimone che non cerco mai di indottrinare nessuno. In questo momento, L'elogio della follia gira il mondo, ecco la verità». «L'ho letto a Palazzo, da maestro La Garde. Ogni tanto, sua moglie mi lascia sfogliare i libri». Henri Estienne ha guardato suo figlio come si contempla una bestia rara. «Questo ragazzino non smetterà mai di stupirmi... A sei anni fa dissertazioni in latino, a otto legge le novità editoriali». «Gli piacerebbe anche stamparle» ha detto Robert con voce stridula. «Ma guarda che insolente! Basta, signorino, non voglio più sentirti». Si è girato verso maestro Antoine. «Ci ho riflettuto». Era una delle grandi qualità di maestro Estienne. Mentre parlava, una parte della sua testa risolveva i problemi più intricati. «È da molto che mi riprometto di andare a Venezia, a Padova, in cerca di libri da stampare. Però mi rendo conto che non è mai il momento di partire. Invierò voi da Aldo Manuzio, gli chiederemo di istruirvi nell'arte di incidere dei punzoni come i suoi. L'altro giorno monsignor Briconnet me ne parlava con grandissima ammirazione. Decideremo al vostro ritorno come usarli». «A Venezia?» il mio maestro era sbigottito. Si aspettava di tutto, ma non questo. «Per quanto tempo?». «Per vedere il più possibile, per imparare qualcosa e per trovare dei bei testi avrete bisogno come minimo di un anno». Maestro Antoine l'ha guardato in silenzio, a lungo. «Siete sicuro che non state cercando di sbarazzarvi di me?» ha finito per dire con un mezzo sorriso. «No, amico mio, perché adesso che abbiamo acquistato un torchio in più dovrò assumere qualcuno per sostituirvi, e questo è un rischio di cui farei volentieri a meno. Ma avete senz'altro ragione. Dovremmo rinnovarci. Avete la mia più totale fiducia. Andate a Venezia. Anzi, se messer Garamond consente che suo figlio parta, fatevi accompagnare da Claude». «Da me?». «Sì, da te. C'è forse un altro Claude Garamond in questa stanza?». Venezia! Si diceva che fosse la città più bella del mondo. Si diceva che laggiù ci fossero i più valenti studiosi. Si diceva... Si diceva... | << | < | > | >> |Pagina 70Se fa fede il colophon, abbiamo finito di stampare il Commentario sulle Lettere di san Paolo di Jacques Lefèvre d'Étaples il 27 dicembre 1512. Per verificare l'esattezza di quest'affermazione, se ora mi trovassi a Parigi, dovrei consultare il libro di nascosto, dal momento che è stato censurato dalla Sorbona, come tutti gli scritti di maestro Lefèvre. Qualche volta stento a crederci: rivedo quell'uomo nel suo convento, già anziano (eppure oggi è ancora in vita, dopo ventitré anni), con la mente svelta, il volto pervaso di bontà, pallido ed esile accanto a un maestro Antoine scuro e robusto; sono entrambi chini su una pagina stampata e discutono la scelta di una parola. Il mio latino classico non bastava per capire le sottigliezze che guidavano le loro decisioni. Una cosa però era chiara: quei due erano integralmente e appassionatamente votati alla causa della Chiesa, mentre oggi uno deve nascondersi per non finire sul patibolo dove è morto l'altro. So che la fine di maestro Antoine ha sconvolto maestro Lefèvre quanto me. 27 dicembre 1512... Non ho ricordi precisi di quel giorno. Avevo passato settimane, forse mesi, ad assistere maestro Antoine su quel lungo testo che stava componendo e impaginando. Gran parte del Commentario è su due colonne: testo di san Paolo da una parte, commento dall'altra. Maestro Antoine mi aveva fatto comporre qualche pagina tra le più semplici e mi aveva incitato a riflettere su quello che stavo componendo. Io però avevo solo quattordici anni e la mia istruzione era troppo sommaria per permettermi di capire il senso profondo del testo: non avevo mai studiato teologia e non ero precoce come Robert Estienne. Ho aperto quel libro (avevo conservato come ricordo un esemplare troppo difettoso per la vendita) soltanto anni dopo, quando ho capito l'influenza che aveva esercitato su maestro Antoine e poi su tanti altri, compreso Robert. Non avevo colto, allora, che il rinnovamento purificatore della Chiesa invocato da tanti implicava una considerevole perdita di potere alla quale quest'ultima si sarebbe opposta con ogni mezzo. Quello che volevano persone come Lefèvre, Erasmo e, più modestamente poiché non aveva scritto niente, maestro Antoine, era che la Chiesa si prendesse cura delle anime ma lasciasse la gente alle sue occupazioni, alle sue letture, che desse fiducia alla sua fede. La Chiesa di Roma però non dà fiducia, pensa di dover governare tutti e di dover dirigere tutto. Se qualcuno cerca di resisterle, fosse pure per poco, lo distrugge. Vedendo camminare per strada Noël Beda, il decano della facoltà di Teologia, basso, gobbo, panciuto e con l'aria un po' tonta, chi avrebbe creduto che quell'uomo era un assassino i cui piedi sguazzavano nel sangue e nelle ceneri dei tanti che aveva fatto giustiziare? Bastava che li sospettasse di eresia per stecchirli come topi. Ora il re gli ha espresso il proprio disappunto — finalmente! — e l'ha esiliato in Normandia. Sua sorella, la nobile Margherita, ha vinto: ha vendicato il suo stampatore. Troppo tardi per salvare maestro Antoine, che Noël Beda ha perseguitato e fatto perseguitare con odio implacabile senza che mai il mio maestro lo avesse sfidato apertamente. Lo so come se potessi leggere nel grande libro del futuro: Beda e ciò che rappresenta sono destinati a perdere. Se l'unico mezzo per proclamare una verità è ammazzare tutti quelli che non la riconoscono, significa che questa verità non è pura quanto si pretende. Quando gli indecisi vedono un uomo morire pur di non rinunciare alle proprie opinioni, concludono che probabilmente valevano qualcosa. È la miglior prova che si possa dare a un ignorante per convincerlo. | << | < | > | >> |Pagina 117Calava la notte, e la prima sera non ho potuto ammirare lo splendore di Venezia, che era solo un'ombra stagliata contro un cielo rosa-viola. Una barca ci ha lasciati non lontano dal luogo a cui eravamo diretti: Aldo Manuzio era noto a tutti.«È all'insegna dell'Ancora e del Delfino, girate a destra, poi... vediamo... la terza, no, la seconda a sinistra, dopo di che andate sempre dritti, sbucherete in una grande piazza, e ve la trovate davanti». Questa spiegazione, estorta in latino da maestro Antoine a un religioso che passava di fretta, non ci ha condotti da nessuna parte. Tuttavia, a forza di girare (quasi) in tondo, siamo giunti in una piazza, nel cui centro si distingueva solamente un pozzo, visibile perché vi avevano fissato sopra una candela, dove abbiamo per vero trovato l'insegna dell'Ancora e del Delfino. Essendo già buio (era estate, quindi era molto tardi), ci aspettavamo di trovare la stamperia deserta. Ma quando la porta si è aperta al nostro bussare, abbiamo visto, al chiarore delle candele, una bottega operosa quanto un alveare. In un angolo, un uomo scriveva e passava i fogli appena riempiti a un compositore; in un altro un anziano leggeva con attenzione, matita alla mano, altri fogli, probabilmente delle bozze. Nessuno parlava, l'unico rumore che si udiva era il ticchettio dei caratteri nelle casse. Maestro Antoine era entrato per primo e, davanti allo spettacolo inatteso a quell'ora, è rimasto sulla soglia senza parole. C'è voluto qualche istante prima che l'anziano in fondo alla bottega alzasse la testa e ci scorgesse. Ha chiesto qualcosa a maestro Antoine in una lingua che non capivo. Lui ha risposto in latino: «Ci raccomanda maestro Henri Estienne, veniamo da Parigi». Il volto severo dell'anziano si è aperto in un grande sorriso. «Ah! Antonius Augerellus! Sono settimane che vi aspetto. Non più tardi di ieri ci chiedevamo se vi fosse capitato qualcosa». «No, no. Ma passare per Basilea ha rallentato il nostro viaggio». «Per Basilea? Avete visto il mio amico Amerbach?». «Sì. Vi manda anche un dono, come pure maestro Estienne. Ve li consegneremo domani, quando avremo disfatto i bagagli. Questo è Claude Garamond, il mio apprendista». «E ci portate due braccia supplementari! Ottimo. Sapete comporre, giovanotto?». «Sì, maestro». «Entrate, entrate, andiamo su dalla famiglia». Si è girato verso lo stanzone e ha gridato qualcosa che ho inteso come l'ordine di finire la pagina in corso e chiudere bottega. Dall'atteggiamento autoritario, dai comandi eseguiti all'istante, ho riconosciuto in quell'uomo curvo, incanutito e dall'aria stanca, maestro Aldo Manuzio in persona. Siamo saliti. C'era parecchia gente. La moglie di Aldo Manuzio ci ha accolti con gentilezza. Ci hanno mostrato un piccolo alloggio nel sottotetto. Io avrei dormito su un lettuccio che si infilava sotto il letto di maestro Antoine. Avevamo perso di vista Odino e l'avremmo ritrovato soltanto l'indomani. Si era occupato dei bagagli e aveva venduto il nostro mulo, mercanteggiando aspramente in non so quale lingua — nel suo latino maccheronico, probabilmente — con risultati apprezzabili. Si era finanziato il viaggio di ritorno, che aveva intenzione di fare un po' a piedi e un po' navigando per i corsi d'acqua. «Quello che ci interessa, almeno quanto i libri mio caro Claude, sono i caratteri con cui vengono stampati» mi ha sussurrato maestro Antoine nel buio della nostra stanzetta, quando finalmente ci siamo coricati. «Ma non lo diremo troppo apertamente, perché sembra che Aldo Manuzio sia molto suscettibile: teme che gli si rubino le sue forme, sicché terremo gli occhi aperti ma parleremo soltanto di letteratura». Che dire dei mesi successivi? Venezia l'abbiamo vista poco. Maestro Antoine ha dovuto insistere perché non ci si facesse lavorare anche di domenica, appena finita la messa. E ha dovuto dar prova di grande fermezza per far dispensare dal lavoro anche me. Negli altri giorni eravamo attivi dalle prime luci dell'alba fino alle nove o alle dieci di sera. Ho imparato più greco e latino in quel periodo che in tutti i miei studi: parlavamo latino tutto il giorno con i diversi tipografi (ci sono voluti mesi perché riuscissi a farmi capire nella lingua di Venezia, che aveva pochissimo in comune con l'italiano di Petrarca che maestro Estienne ci aveva un po' insegnato), e a tratti finivamo addirittura per parlarlo anche tra noi. Venezia è una città maestosa, più piacevole di Parigi perché il caldo non è mai soffocante. Basta mettere il naso fuori di casa e l'aria del mare ti solletica le narici e basta fare pochi passi per contemplare la Laguna. Quando ho iniziato a capire com'erano disposte le vie, mi sono dato da fare per uscire il più possibile. Le case hanno i loro nomi, come da noi, ma poche insegne. Avevo l'impressione che i veneziani conoscessero tutti quei nomi a memoria. Invece si sbagliavano spesso anche loro, e i primi tempi mi smarrivo. Ho poi finito più o meno con il capire il sistema delle calli. Approfittavo di ogni occasione per andare a sbrigare le faccende che vengono affidate — in tutto il mondo, credo — all'apprendista stampatore. C'era un posto che mi piaceva particolarmente: l'Arsenale. Vi si costruivano imbarcazioni immense, e un marinaio ci ha detto una volta che, volendo, all'Arsenale si poteva costruire un'intera nave in un giorno solo. Venezia era stata in guerra appena tre o quattro anni prima, una guerra che, a quanto ho capito, non si era conclusa a suo favore e durante la quale maestro Aldo aveva chiuso la sua stamperia. L'aveva riaperta da due anni, e diceva spesso che si doveva lavorare il doppio. Era un uomo abbastanza strano, Aldo Manuzio. Severo e inflessibile in bottega, incantevole in famiglia. Di un'erudizione stupefacente, soprattutto per me che non avevo mai frequentato in modo assiduo uno studioso così dotto. Ci avevano raccontato che prima della guerra ospitava in casa sua un'Accademia frequentata dalle menti migliori d'Italia; alcuni degli ospiti partecipavano alla stampa dei libri. Quando siamo arrivati noi, però, non esisteva già più. Maestro Antoine e io lavoravamo alla stamperia, ma allo stesso tempo eravamo ospiti di Aldo Manuzio, che ci trattava come persone di famiglia. Senza più timore, vedendoci al sicuro, Odino aveva finalmente accettato di tornare a Parigi, giurando però di tornare a prenderci, come ha ripetuto al momento di andarsene, con gli occhi umidi e carico come il mulo che non aveva più dei libri che maestro Aldo e noi mandavamo sia a maestro Lefèvre sia a maestro Estienne. Maestro Aldo aveva una biblioteca da sbalordire. Migliaia di opere, così mi sembrava. Ci aveva permesso di consultarle a condizione che non le portassimo fuori di casa, e così facevamo. Non erano tutti libri stampati: ce n'erano parecchi trascritti a mano da copisti. Abbiamo letto opere che per noi, prima d'allora, erano come dicerie senza conferma: Virgilio, Quintiliano, Esiodo, Teocrito, Aristofane, Erodoto, Tucidide, Sofocle, Euripide, Demostene, Platone, Plutarco, un'edizione di Aristotele di cui pare si parlasse in tutto il mondo cristiano, e così via. Mi si apriva un mondo nuovo. Maestro Antoine era come pazzo e non dormiva quasi più. Deve aver speso, in quel soggiorno veneziano, una fortuna in candele. Era raro che avesse già spento quando mi addormentavo. «Come fate ad avere libri di provenienza tanto diversa?» aveva chiesto a maestro Aldo. «Venezia, amico mio. La gente arriva dal mondo intero, porta cose che non si troverebbero da nessun'altra parte». | << | < | > | >> |Pagina 126I ricordi più indelebili, però, riguardano il mio lavoro. Alle discussioni che maestro Antoine aveva con Francesco Griffo facevano eco le raccomandazioni dell'uno o dell'altro al mio indirizzo.«Lo stampatore va lodato per la precisione, per la pulizia dell'impronta, per la purezza della correzione e tutto quello che ne consegue» diceva Francesco con voce corrucciata. «E' proprio necessario che si appropri anche delle lodi che spetterebbero ad altri, a uomini lasciati cadere nell'oblio pur dovendosi a loro quanto la stampa ha di più bello? Oggi tutti ammirano il mio corsivo, ma di me non si sa più nemmeno che esisto. C'è addirittura chi crede che sia stato Aldo a inciderlo, come se quell'erudito pensatore sapesse incidere! Mi meraviglio che quanti vanno in visibilio per gli stampatori non spendano una parola sugli incisori; eppure lo stampatore, o per meglio dire il tipografo, sta all'incisore come un bravo cantante a un buon compositore di musica». «È vero, il carattere è l'essenza della stampa» ribatteva maestro Antoine con fare pacato. «Ma il mestiere dell'incisore è una di quelle professioni che stanno al servizio di un'arte più alta, alla quale devono cedere la scena. Cosa sarebbe un testo magnifico da vedere ma che contenesse solamente sciocchezze? Anche maestro Estienne dimentica spesso come io abbia inciso per lui dei caratteri che oggi mi sembrano completamente da correggere, ma comunque migliori di quelli che usava prima di me. Manuzio o Estienne forse non sarebbero niente senza di noi. Ma senza le scelte di Aldo Manuzio o di Henri Estienne, forse nessuno avrebbe mai notato il nostro lavoro». Quando ci ritrovavamo da soli, il mio maestro diceva: «Claude, se vuoi essere un uomo di cui si parla, non scegliere il mestiere di incisore. L'incisione dei caratteri è davvero il segreto della stampa. Ma per esercitare quest'arte bisogna essere umili. Tutti gli stampatori elogeranno la bellezza dei tuoi caratteri, te ne faranno richiesta, te li acquisteranno, ma rari saranno i lettori che sapranno della tua esistenza, e ancora più rari quelli che parleranno di te. Se vuoi essere famoso, scegliti un'altra professione». Per mia fortuna non ho mai avuto il gusto di mettermi in mostra: la sola ragione che vedo per fare lo stampatore anziché l'incisore è che si guadagna di più. Tuttavia, il modo in cui la sorte si è accanita su maestro Antoine e su certi suoi colleghi non mi incoraggia in questa strada: rischierei come loro di ritrovarmi sul patibolo al minimo foglietto stampato in buona fede ma che venisse giudicato sedizioso. In quei giorni lontani ho capito che è meglio restare nell'ombra. D'altra parte, allora non pensavo affatto in questi termini: a sedurmi, nell'incisione, era il far nascere qualcosa dalle mie dita, e se questo qualcosa era un alfabeto, meglio ancora. Niente poteva appassionarmi quanto le spiegazioni di maestro Antoine sulle sottigliezze, per esempio, del grassetto romano. «Accarezza la vista» diceva, strizzando gli occhi per vedere meglio una lettera che aveva disegnato venti volte più grande che in natura. «Talvolta però mi dico che si potrebbe fare ancora meglio. Da lontano capita che si confondano la c e la e, per non parlare della O e della Q. E sono solo degli esempi. Bisognerebbe equilibrare meglio i bianchi e i neri, disegnare meglio l'occhio». Il carattere di maggior successo di Francesco Griffo era il corsivo, che lui chiamava cancelleresco e che, per via della sua origine, ha finito per chiamarsi italico. «Nelle cancellerie c'erano sempre degli scrivani pronti a sostenere che lo stampato era più difficile da leggere dello scritto» diceva Griffo. «La cosa mi irritava profondamente. Una quindicina d'anni fa, mi sono fatto una domanda: sarebbe possibile creare un carattere di stampa simile al manoscritto? Mi ci è voluto del tempo ma poi, un giorno, ho avuto l'occasione di vedere un autografo di Petrarca, il grande poeta italiano. Aveva una calligrafia davvero stupefacente, di regolarità e semplicità rare, che hanno colpito tutti coloro che l'hanno ammirata. In quella sobrietà, ho improvvisamente visto come fare i caratteri». Ha sospirato e fissato a lungo la parete di fronte prima di continuare: «All'epoca, Aldo e io eravamo grandi amici. Gli ho proposto di fare una prova. Abbiamo discusso parecchio». Ha riso. «A quei tempi, io e Aldo discutevamo. Oggi, se mi incontra, mi copre di insulti — e confesso che glieli restituisco, tanto più che a volte sono collerico, lo riconosco». «E allora, questo carattere italico?». «Aldo ci pensava da molto tempo. Voleva fare dei libri che occupassero meno posto, che fosse possibile portare con sé. E il corsivo permette di risparmiar spazio pur restando leggibile. Le nostre aspirazioni si sono incontrate. E così, nel 1501, Aldo ha pubblicato il suo Virgilio in carattere aldino, come lo chiamano tutti invece di franceschino o griffino, come si dovrebbe fare se proprio si vuole usare un nome diverso da italico o, a rigore, corsivo». «Il Virgilio ha avuto successo?». «Un successo in-cre-di-bi-le nel senso letterale del termine. Lo compravano tutti — e non è finita lì. Anzi, eccolo. Ve lo regalo». «Ma io...». «Se fossi Aldo, lo nasconderei sotto il materasso. Ma io non sono Aldo. Non ringraziatemi. Studiate l'originale del corsivo finché volete. L'hanno imitato tutti, e spesso massacrato. E già che ci siamo, vi darò un altro libretto». E ci ha teso un volume di piccole dimensioni, che maestro Antoine ha sfogliato con interesse. «Pietro Bembo: De Ætna. Che magnifico carattere romano!». «Griffino, ricordatevelo, non aldino». Va detto che maestro Aldo aveva ideato un modo nuovo di piegare il foglio da mettere sul torchio. Oggi sembra una piccolezza, una cosa ovvia, ma prima di lui non ci aveva pensato nessuno. Grazie al suo sistema i libri si potevano addirittura mettere in tasca, come il Virgilio o il De Ætna. Uscivano dalle biblioteche erudite. «Non arriveremo mai a produrre caratteri così belli» ha sospirato maestro Antoine. «Sono perfetti». «Ho detto la stessa cosa quando ho visto quelli di Janson. E alla fine non ho neanche tentato di copiarli. Li ho interpretati. Interpretate pure i miei. Diventeranno vostri. Non parlatene con Aldo, lui è convinto che le cose, perfino quelle dell'intelletto, gli appartengano in esclusiva, perché lui possa trarne il massimo profitto. Ma le cose dell'intelletto appartengono a Dio, e a tutte le sue creature. Vanno condivise. In ogni caso io, contrariamente ad Aldo, le condivido. E inutile spiegarglielo, non capirebbe. Come è inutile spiegare le nostre faccende al lettore. Ma voi, voi ricordatevelo: griffino. È il vero nome di questi caratteri». Al termine di questi discorsi, sospirava. «Bisogna ammettere che Aldo è un genio. Se non fosse per la famiglia di sua moglie, per quel suocero Torresani così avaro e secondo me ignorante, Aldo sarebbe diverso». | << | < | > | >> |Pagina 132E l'accanimento con cui il mio maestro componeva e impaginava di persona i Libri de re rustica (con il mio aiuto, lasciandomi fare da solo di tanto in tanto ma controllando attentamente il mio lavoro), confermava il suo proposito. A volte, dopo dieci, dodici ore di fatica, mi reggevo in piedi a malapena. Mi spediva a dormire e andava avanti lui.«Vedi, Claude, io sono già maestro stampatore, ma l'esame vero lo sto passando adesso. Qui imparo cose che nessuno in tutto il regno di Francia sarebbe stato in grado di insegnarmi. Aldo ha degli emuli a Lione, a Parigi, perfino. Ma lo spirito dell'impresa... fuori di qui, non c'è nulla che possa rendere lo spirito dell'impresa!». Quei Libri sulla vita di campagna erano una raccolta di diversi scritti: si aprivano con un testo del grande Catone, il celebre tribuno romano, sull'agricoltura, cui seguiva l'opera di un altro romano della stessa epoca di nome Terentius Varro. Il grosso del volume consisteva nel trattato di Moderatus Columella, il testo che io trovavo più interessante. Era stato scritto da questo autore (nato un paio secoli dopo Catone, mi sembra) quando era già anziano, con un tono che a volte dava l'impressione che lui fosse lì, nella stanza, a parlare con noi. Il tutto terminava con il testo di un certo Palladius Emilianus. Ogni tanto lo studioso che aveva scoperto il manoscritto sul quale ci basavamo, Giovanni Giocondo da Verona, veniva a consegnarci nuovo materiale. Quei testi erano stati stampati già una volta, ma senza cura e sulla base di manoscritti corrotti. Giocondo ne aveva trovato uno più antico, anche più integro, e gli emendamenti che apponeva al testo lo rendevano limpido. Maestro Aldo e Giocondo spesso discutevano per ore su una frase, o addirittura su una singola parola. Anche maestro Antoine prediligeva Columella, tanto più che quell'autore aveva espresso, dodici o tredici secoli prima, concetti che lui stesso sottoscriveva. «Il capofamiglia che desidera conoscere un metodo sicuro per coltivare le sue terre si darà la pena di consultare i più esperti fattori della sua epoca; e dovrebbe studiare con attenzione i manuali degli antichi, riflettere sulle opinioni, sugli insegnamenti di ciascuno di loro per vedere se la lezione ricevuta possa applicarsi tale e quale al suo caso specifico o se debba essere modificata». E più avanti nel testo: «Nam multo plura reperiuntur apud veteres, quae nobis probanda sint, quam quae repudianda». In altre parole: «Rifacendoci agli antichi troviamo molte più cose da approvare che da rifiutare». «Esattamente come per il terreno della mente!» ha esclamato maestro Antoine quando abbiamo letto quel passo per la prima volta. «Dobbiamo consultare gli antichi, anche senza applicarne tutti i precetti. I nostri avi agricoltori l'avevano capito, c'è da chiedersi perché i dottori della Sorbona trovino quest'idea così difficile da accettare». «Posso rispondervi io» ha ribattuto maestro Aldo. «Il metodo degli antichi è il contrario di quello raccomandato dai chierici delle università, che citano per dritto e per traverso testi antichi deformati e si guardano bene dal controllare gli originali per paura che diano loro torto». Si è lasciato cadere pesantemente su uno sgabello. «Io ho avuto fortuna. In gioventù sono stato il precettore di un principe illuminato. Per tutta la vita lui e gli eruditi della sua cerchia mi hanno protetto, poiché la sua corte è molto influente. La Signoria mi tratta con benevolenza. Il futuro però mi fa paura. La Chiesa sta cominciando ad accorgersi che la stampa minaccia il suo potere assoluto sulle nostre anime. Il giorno in cui ne sarà pienamente consapevole, colpirà senza pietà e con tutta la sua potenza. Ha sempre agito così». Ha sfogliato il manoscritto e ha puntato il dito su una frase. «Tenete a mente questo pensiero di Cicerone che il saggio Columella riporta a giusto titolo, figlioli. Eos, qui generi humano res utilissimas conquirere et perpensas exploratasque memoriae tradere concupierint, cuncta temptare. "Coloro che desiderino veramente esplorare gli argomenti più utili al genere umano e trasmettere alla memoria le loro scoperte una volta esaminate, devono tentare tutto". E probabilmente rischiare tutto. Anche la vita, quando la Chiesa comincerà a decretare che i testi originali di Virgilio o di Aristotele contengono stregonerie». Ho avuto una breve visione dei libri di maestro Aldo in fiamme su un rogo. La cosa mi ha fatto sorridere. Povero ingenuo che ero! Non immaginavo che avrei finito per vedere proprio quello: dei classici, compreso Columella, bruciati perché «complici del diavolo e dell'eresia». | << | < | > | >> |Pagina 136Ci siamo presto imbarcati un'altra volta su una zattera, compreso il mulo, e siamo arrivati a Padova. Da lì ci siamo recati a Verona, dove ci siamo fermati da Giocondo, ossia al convento domenicano della città.E così ho potuto scoprire l'uomo che, da maestro Aldo, si limitava a entrare e uscire, scambiando con gli uni e con gli altri solo le parole strettamente necessarie al lavoro. Il monaco era anziano, aveva capelli bianchi ma folti, volto rugoso ma vivace, sempre in movimento. Al primo impatto appariva brusco, ma in fin dei conti era di una gentilezza fuori dal comune. A Verona abbiamo scoperto che parlava perfettamente il francese. Il nostro stupore l'ha fatto ridere. «Miei cari amici, voi mi conoscete da ben prima che mi incontraste. Per dirla meglio, conoscevate il mio lavoro, a Parigi lo usate tutti i giorni. Il vostro re Luigi XII mi aveva fatto l'onore di accogliermi a corte. Per lui ho costruito il palazzo della Chambre des Comptes. Ho rimesso a nuovo diversi saloni con gli artigiani che avevo portato con me dall'Italia. Poi Sua Maestà mi ha affidato l'edificazione del Pont Notre- Dame e del Petit-Pont, poiché la mia vera professione è architettore, o architetto, come dite voi a Parigi. Sul Pont Notre-Dame c'è perfino il mio nome». «Lo so!». Solitamente, durante quelle conversazioni non aprivo bocca, ma in quel caso le parole mi erano uscite come un grido dal cuore. «Che cosa sai?» ha chiesto maestro Antoine in tono divertito. «Ho visto l'iscrizione sotto il ponte, un giorno con un amico: Jucundus geminum posuit tibi, Sequana, pontem... Giocondo costruì per te due ponti... o qualcosa del genere». Questo ha fatto ridere fra' Giocondo. «Esatto, vedo che hai la vista buona dal momento che la scritta è stata ben nascosta sotto un'arcata; gli architetti francesi non erano particolarmente felici che il lavoro fosse stato affidato a uno straniero, e quindi hanno preferito non esporne il nome alla luce del sole». In convento occupava un'ampia stanza, molto alta, che traboccava di manoscritti d'ogni tipo, ancora più numerosi dei libri stampati. «Sono in procinto di partire per Roma, in Vaticano mi chiedono di aiutarli a risolvere il problema delle fondamenta della basilica di San Pietro, che rischia di crollare sulla testa dei fedeli, ah ah! A farmi ridere non è il pericolo corso dai fedeli, bensì questi tali che pensano di poter costruire un edificio tanto grande solo in quanto artisti, senza essere matematici. Se penso che... Prima di tutto, ricchi come sono, fanno pagare tutto questo alla cristianità vendendo indulgenze. E poi risparmiano stupidamente sulla costruzione. Ma via, non perdiamoci in discorsi oziosi, servitevi, amico mio, avete la mia fiducia, mi sembra che abbiate per i libri la stessa reverenza che provo io per la Santa Vergine; sono sicuro che mi farete restituire quanto prenderete in prestito. Stampate, stampate. Il vostro maestro Estienne è un uomo degno di stima, gli trasmetterete i miei omaggi, mi fa piacere fornirgli di che lavorare». Abbiamo fatto sosta a Verona per due o tre settimane. Maestro Antoine quasi non ha messo il naso fuori di casa, leggeva tutto il giorno e dovevamo forzarlo a mandar giù un boccone ogni tanto. Quanto a me, gironzolavo tra gli scolari. Come a Venezia, la strada è riservata agli uomini. Le donne sono quasi invisibili. In questa regione del mondo non escono mai, se non coperte da capo a piedi e accompagnate. Se si affacciano alla finestra, vengono subito sospettate di essere di scarsa virtù. Una consuetudine che mi era già spiaciuta a Venezia, e che si ripeteva anche a Verona. Mi sono chiesto se uomini e donne si parlassero mai, cosa che ha fatto ridere fra' Giovanni, come lo chiamavano qui. «Un modo lo trovano sempre, non si può cambiare la natura umana con delle regole assurde. Fra' Matteo, un nostro giovane monaco, ha raccolto storie di ogni genere sull'argomento» ha dichiarato, e mi ha messo tra le mani un libriccino manoscritto, che ho divorato con passione, diverso dalla maggior parte dei libri che avevo letto fino a quel momento: era la storia di due famiglie di Verona che si odiavano, ma il figlio di una, Romeo, e la figlia dell'altra, Giulietta, si amavano. Si sposavano, addirittura, di nascosto — ma proprio quando stavano per scappare, le cose si mettevano male e morivano entrambi, per imprudenza ma soprattutto per colpa dell'intransigenza delle loro famiglie. Ero entusiasta. Per la prima volta capivo che ci si poteva sposare anche per amore, senza il consenso della famiglia. L'ho fatto leggere a maestro Antoine, che ha scosso la testa. «È bellissimo, esprime tutto quello che penso sull'amore tra uomini e donne, ma da noi nessuno degli stampatori autorizzati dalle università pubblicherebbe una cosa simile. Probabilmente un giorno succederà, ma non è ancora il momento». | << | < | > | >> |Pagina 180Siccome eravamo poco numerosi, abbiamo fatto subito conoscenza. Fin dalla prima occhiata, i monaci sono apparsi divisi in due gruppi distinti: da un lato c'erano i tre minoriti, che definirei tranquilli, dall'altro il quarto minorita e i due benedettini. I tre minoriti erano visibilmente ostili al quarto, mentre i due benedettini, che a dire il vero si facevano sentire poco, sorridevano con indulgenza all'inesauribile eloquenza del religioso che Odino aveva definito uno studioso: frate François.Quell'uomo mi incuriosiva. Oggi so che incuriosisce tutti. All'epoca tuttavia non era ancora «Alcofribas Nasier», alias François Rabelais, abile medico e scrittore ammirevole — o degno alla gogna, a seconda dei punti di vista. Era un semplice monaco di statura appena superiore alla media, sulla trentina, pronto al riso e grande oratore. Odino ci ha assicurato che era un ottimo predicatore e, a sentirlo parlare con una voce piena e sonora che stupiva in quel corpo smunto, gli si credeva con facilità. Al principio maestro Antoine lo guardava un po' di traverso. «I minoriti non godono di buona reputazione, nella nostra famiglia. Con loro ho passato gli anni peggiori della mia vita». Poi però, durante una discussione intavolata dal nostro mercante sulle predizioni degli astrologi, frate François ha conquistato maestro Antoine scagliandosi in una feroce rampogna contro quei ciarlatani. «I francesi sono sempre stati curiosi di conoscere le novità» ha esordito, scrollando le spalle. «Lo nota già Cesare nei suoi Commentari. Se arrivate da qualche parte venendo dall'estero, all'istante vi subisseranno di domande: "Quali notizie? Cosa si dice, di che si parla per il mondo?". E guai a voi se non portate una bisaccia piena di notizie fresche: rassegnatevi a farvi trattare da tonto o da idiota. Risultato: si impara a ricamare sul niente. E i ciarlatani si danno alla pazza gioia. Vi predicono tutto quello che volete, del genere: quest'anno i ciechi non vedranno bene, i sordi udiranno assai male, i muti non parleranno affatto, i ricchi se la passeranno un po' meglio dei poveri e i sani meglio dei malati. Come vedete, neppure io me la cavo male». Maestro Antoine rideva alle lacrime, e frate François ne ha approfittato per continuare. «E la credulità dei francesi è pari alla loro curiosità: più sono inclini a domandare notizie, più credono a quanto viene loro annunciato. Sapete cosa, maestro... Antoine, giusto? Sapete cosa, dicevo? Bisognerebbe mettere alle frontiere del regno dei doganieri del pensiero, destinati unicamente a esaminare le notizie che arrivano lì, e controllare se sono vere. Alle barriere del dazio si fa ben qualcosa di analogo con le merci, o sbaglio?». A quel punto ha alzato gli occhi al cielo, poi ha controllato la lunghezza delle nostre ombre e ha seguitato con lo stesso tono. «È ora di Sesta, vi lascio un istante per recitare le mie preghiere». Sono convinto che frate François volesse provare ai suoi tre confratelli di essere assiduo alla preghiera quanto loro. Quelli camminavano in gruppo, pregando la maggior parte del tempo a mezza voce, stretti gli uni agli altri come per respingere un pericolo. Reagivano alle battute di spirito solo con sguardi ostili. «Ogni volta che mi capita di parlare di culo, di coglioni e di fica, si fanno il segno della croce. Sono persuasi che io sia in preda al maligno, come se quelle non fossero parti del corpo proprio come il naso o la mano» aveva mormorato frate François, rivolgendosi a noi nell'intervallo tra due battute a cui tutti avevano riso tranne, appunto, i minoriti. | << | < | > | >> |Pagina 200Jacques Bouchet era impressionato proprio quanto lo eravamo stati noi, vedendo il libro per la prima volta, sia per i suoi caratteri sia per il formato. Perché lo si potesse portare dappertutto, maestro Aldo aveva usato fogli piegati in sedici, così si riusciva a metterlo in tasca. Il procedimento era già stato imitato in Francia, ma non era ancora molto diffuso e la vista di un volume come quello sorprendeva ancora le persone. Oggi libri del genere sono diffusi, soprattutto grazie a Simon de Colines e a Robert Estienne, che hanno fatto un uso costante di questa tecnica fin dal primo giorno della loro attività.Abbiamo dovuto raccontare a maestro Jacques il nostro viaggio veneziano fin nei minimi dettagli. L'avevamo intrapreso diversi anni prima, ma da allora maestro Antoine non era mai tornato a Poitiers. In quell'occasione mi sono reso conto che la sua memoria era di una precisione incredibile. Per lui, come per Odino, le conversazioni, gli avvenimenti, le letture restavano incise nella mente. «Perché veniamo da un mondo in cui la stampa non esisteva ancora» ha replicato quando ho espresso a voce alta la mia ammirazione. «Siamo stati obbligati a sviluppare la memoria. Adesso, per voi, è comoda la vita. Si stampano le cose, e poi si può lasciarle sbiadire. Caso mai, basta consultare i libri». Ha fatto un sospiro da far girare un mulino. «Temo che i narratori come Odino...». «... o come voi, maestro Antoine!». «Non proprio. Io ho sempre potuto contare sulla pagina scritta. Anche presso i monaci, in un'epoca in cui di fatto ignoravo che esistesse la stampa, la scrittura era sempre intorno a noi. Ma un Odino, che ha imparato a leggere a venticinque anni e che viveva della sua arte, ha sviluppato la memoria al suo massimo. Doveva poterci contare senza incertezze. Sono sicuro che più libri ci saranno, meno avremo degli Odino». Calava la sera e si accendevano le prime candele quando abbiamo lasciato la bottega di maestro Jacques. Maestro Antoine voleva riaccompagnarmi, perché non mi perdessi, diceva. Io mi sentivo di nuovo ragazzo, quando lui mi scortava fino a casa dei miei genitori affinché non mi capitasse niente di male. Tutt'intorno, le campane delle chiese suonavano a distesa. Era un autentico concerto, come se dita gigantesche percorressero i tasti colossali di un'immensa tastiera. Eravamo avvolti da un vortice di armonia. Maestro Antoine mi ha afferrato il braccio. «Ascolta» ha detto con voce vibrante. «Ascolta Poitiers che canta. La senti? Questo è il basso continuo della cattedrale. E questo? È il contralto modulato dalla campana maestra di Notre-Dame-la-Grande». Le campane più grosse hanno fatto una pausa. Si udiva ora solo un tintinnare argentino. «E adesso che il discanto tace, senti le umili note delle cappelle?». Ha lasciato la presa sul mio braccio. Nel buio, distinguevo a stento il suo profilo e il suo sorriso. «Cosa vuoi, le campane di Poitiers mi esalteranno sempre. La prima volta che le ho udite, ero appena arrivato da un convento nel mezzo delle paludi. Anche laggiù suonano le campane, ma non fanno un concerto come qui. La prima sera ero quasi impazzito. È un momento indimenticabile della mia vita. Quasi altrettanto intenso di quando ho visto tua madre per la prima volta, e Dio mi è testimone che quella sera ero folgorato dall'emozione». Credo abbia intuito il mio turbamento. Visto che non riuscivo a parlare, ha continuato lui allegramente. «Sapevi che gli abitanti di Poitiers — nei tempi antichi si chiamavano Pitti, una tribù selvaggia tra altre tribù selvagge nel vasto territorio che oggi chiamiamo Francia — credono fermamente di essere i discendenti di Ercole? Te lo dimostrano con le storie più incredibili. Tra le altre, ci sono certe leggende su delle campane che i più valorosi tra i Pitti tiravano giù dai campanili grazie alla loro forza erculea, per l'appunto. Jean Formond saprebbe raccontartele da mandarti in visibilio. Inutile fargli notare che all'epoca di Ercole, e anche ai tempi dei Pitti, non c'erano né campanili né campane». La sua risata sonora ha riecheggiato nel buio. «E poi ovviamente,» ha continuato «quando la gente vede Odino e viene a sapere che è di qui, si sente irrobustita nella sua opinione. Chi può essere, se non un discendente di Ercole? Perfino io l'ho pensato il giorno in cui gli ho chiesto di aiutarmi a portare delle casse piene di piombi: mi ha allontanato con un gesto e le ha sollevate da solo, quando io riuscivo a malapena a spostarle un po' trascinandole per terra. Devi arrenderti all'idea, Claude, noi del Poitou siamo diversi da voi parigini». Ha fatto una pausa. Dopo un istante ha ripreso, con voce piena di tenerezza. «Il che non ci impedisce di amarvi, mio caro Claude, e viceversa». Ho avuto in un istante la sensazione di aver toccato con mano il cuore di Antoine Augereau, e oggi non posso pensare a quel momento senza uno spasmo di dolore. Era così vivo, così gioioso, così — come dire? Era felice. E questo è il ricordo più bello che conservo di Poitiers. | << | < | > | >> |Pagina 278Ho scoperto che per sposarsi occorreva pubblicare dei bandi. Che bisognava preparare il cosiddetto cestino di nozze, da riempire con diversi oggetti — un rosario, un determinato numero di sottane, un cucchiaino d'argento... Confesso di aver lasciato quest'incombenza a mia madre, che si dedicava a organizzare la festa con incredibile energia.«Mio piccolo Claude,» la superavo di una testa da molti anni, ma per lei sarei sempre stato il suo piccolo Claude «hai fatto un lungo viaggio per darmi in sposa ad Antoine, lascia che io mi sdebiti. O forse potrei dire: lascia che ti renda la pariglia!». E ha riso con i suoi modi da ragazza. Mia sorella e suo marito (che nel frattempo avevano avuto due bambini) venivano a trovarla di tanto in tanto e a darle una mano. Hanno ordinato un pranzo che oggi definiremmo pantagruelico — ma a quell'epoca Pantagruel non era ancora nato. O, se era nato, lo ignoravamo. La cerimonia si è svolta nella chiesa di Saint-Jacques-du-Haut-Pas, che è piccola e si è subito riempita, sebbene non fossimo poi numerosi. C'erano mio fratello e mia sorella con le loro rispettive famiglie, mia madre, che mi ha accompagnato all'altare, maestro Antoine, ovviamente, con il suo apprendista, mio cognato Piene, e il resto della famiglia Gaultier (che conoscevo poco). Gli Estienne erano venuti al gran completo, come maestro de Colines e maestro Tory. Avevo detto più volte, nei giorni precedenti la cerimonia, che Odino mi sarebbe mancato. Era il mio fedele amico, nel quale vedevo da molto tempo un fratello maggiore a dispetto di quel suo ritornello: «Sono un semplice servitore». Maestro Marot — che per le notizie di corte era il più informato — ci aveva però riferito che il re, rientrato dalla prigionia, per prima cosa si era preoccupato del cavaliere di Berquin rinchiuso alla Conciergerie, dove lo tenevano a marcire, e aveva anche richiamato in patria maestro Lefèvre e maestro Roussel. Secondo maestro Marot, ora si trovavano sotto la protezione reale a Blois. E Odino con loro. «Datemi un messaggio per lui, cercherò di farglielo recapitare». Ci era riuscito. All'alba del giorno del mio matrimonio, mia madre e maestro Antoine avevano trovato Odino sulla soglia di casa. Distinguendo la sua massiccia figura e il suo volto buono tra la folla che entrava in chiesa, ho sentito che mi spuntavano delle lacrime di gioia. Quel giorno, la mia commozione superava quella per il matrimonio di mia madre e del mio patrigno. Dopo la funzione, abbiamo festeggiato tutto il pomeriggio in rue des Carmes. Odino, in veste di giocoliere, ha fatto danzare i piatti, con gran divertimento degli invitati. Ha recitato una delle sue farse, interpretando tutti i personaggi, si è fatto montare in groppa come un cavallo da tutti i bambini che ci scorrazzavano tra le gambe. Uno dei più vivaci era il mio fratellino, che aveva quattro o cinque anni. Con tutti quegli incisori intorno, è inutile dire che sapeva già l'alfabeto a memoria; scriveva con mano maldestra, ma scriveva. E maestro Antoine gli insegnava i rudimenti del latino. Ci ha subissati di filastrocche e di poesiole, dando mostra di una memoria che gli invidiavo. Calata la sera, ho lasciato sia il mio celibato sia, provvisoriamente, la mia vita d'incisore. Il giorno dopo, infatti, avrei iniziato a lavorare da maestro Chevallon. «Peccato che tu te ne vada» mi ha mormorato Pierre Haultin prima di rincasare, un po' alticcio — come me, del resto. «Domani comincerò a fare nuovi esperimenti». «E cosa sperimenterai?». «Provo a incidere note musicali». «Che...?». «Hai sentito bene, note musicali, la, la, la, la, laaaa-la». «Voglio venire a vedere». «Ci conto. Comunque, la dispersione del nostro gruppetto non ingannerà quei segugi. Gli darà solo un po' più di lavoro per tenerci tutti d'occhio». «Sempre meglio di niente». «È vero, tanto vale tenerli occupati». Sua moglie Marie è arrivata a strapparlo alla conversazione e se ne sono andati via insieme ridendo di gusto. Ancora una volta, indugio sui momenti felici per vigliaccheria: ho paura di affrontare le nostre disgrazie. Eppure, si sono abbattute su di noi assai presto. E per ora, dicendo «noi», non intendo il nostro piccolo gruppo, ma i librai in generale. | << | < | > | >> |Pagina 282Non saprei dire in che ordine esatto si siano succeduti i tanti episodi. Hanno arso vivo uno stampatore colpevole di aver pubblicato non so più quale libro definito sedizioso, un giovane avvocato accusato di essere luterano, un artigiano che si sarebbe chiesto se era giusto venerare la Vergine. Hanno anche giustiziato un gentiluomo del Poitou, messere de la Tour (maestro Antoine, che conosceva la sua famiglia, non se ne dava pace), solo in base a un sentito dire: avrebbe predicato il luteranesimo quando era in Scozia al servizio del re. Hanno bruciato un battelliere che non era abbastanza devoto. Questi sono i primi casi che mi vengono in mente senza che mi debba sforzare, ma non sono gli unici. La macabra litania potrebbe continuare. Quanto al cavaliere di Berquin, non lo si era ancora giustiziato ma, sebbene questo significasse che se la sarebbe cavata una volta di più, il meno che si potesse dire era che si tardava a liberarlo. In quest'atmosfera soffocante, Noël Beda ha pubblicato il trattato di cui avevamo già sentito parlare ma a cui nessuno aveva davvero creduto a causa dell'enormità dei suoi propositi: le Annotationes in Jacobum Fabrum Stapulensis libri duo, et in Desiderium Erasmus Roterodamum liber unus.I due grande studiosi erano accusati, proprio come il cavaliere di Berquin (a causa delle sue traduzioni), di essere degli «eretici nascosti». A maestro Lefèvre, poi, si attribuivano ogni sorta di epiteti ingiuriosi, come per esempio ariano o macedoniano. Non chiedetemi di spiegare le sottili differenze tra queste forme d'eresia. Maestro Antoine era riuscito a procurarsi una copia del libro. «Di fatto, Beda unisce in un'unica condanna scismatici e umanisti che aspirano ai Tempi Nuovi, tra i quali mi permetto di annoverarmi; secondo lui, se c'è uno scisma, ne siamo responsabili. Per lui, umanista e luterano sono semplicemente sinonimi». Ho scorso l'opera, e devo dire che, in certi punti, non credevo ai miei occhi. Maestro Beda non ci andava proprio leggero: già nella prefazione, apostrofava gli umanisti a suon di sabelliani, eunomiani, donatisti, spudorati eretici, valdesi, ussiti, wiklefisti dichiarati, bestemmiatori, empi, immorali. Come se non bastasse, si vantava di non aver letto i libri che condannava. Dodici anni dopo la pubblicazione, scopriva d'un colpo centoquarantatré proposizioni eretiche, non una di meno, nel Commentario sulle Lettere di san Paolo, che pure sosteneva di non aver letto! Nel corpo del libro si rivolgeva direttamente alle vittime del suo torrente di vuota eloquenza (ma non per questo meno pericolosa). Accusava Erasmo di recitare «una commedia che ingannava soltanto gli stupidi». Per Noël Beda, il maestro di Rotterdam era scismatico per il semplice fatto di scrivere cose che non si erano mai lette fino al presente. Infatti, ogni affermazione «che si allontani dalle tradizioni intellettuali consacrate dalla Sorbona è perniciosa». Leggendo queste parole, maestro Antoine ha fatto un balzo. «Già. Restiamo prigionieri per sempre nella nebbia dei tempi primitivi. Neghiamo le conquiste del presente. Fermiamo l'orologio del Palazzo, già che ci siamo!». Ce n'era anche per maestro Lefèvre. Secondo maestro Beda, se quello stigmatizzava la corruzione dei monaci era solo per lasciar intendere che la vita religiosa è incapace di osservare la legge divina. La prova? «Ho sentito uno dei suoi discepoli che lo diceva, tre anni fa» scriveva l'autore. «Sicuramente si esprimeva con le stesse parole del suo maestro». Una prova irrefutabile... E se maestro Lefèvre parlava, come san Paolo, del rispetto dovuto al potere civile sottintendeva in realtà che si volesse «sopprimere il potere ecclesiastico». È inutile continuare l'elenco di tante idiozie. Il metodo di questo sinistro teologo era talmente rozzo che perfino io ne vedevo la fallacia. Giudicava senza far distinzioni, estrapolava dall'opera le proposizioni che condannava. Poco importava il contesto, poco importavano le intenzioni dell'autore o l'autentico senso del discorso. Le Annotazioni contro Jacques Lefèvre d'Étaples e Desiderio Erasmo hanno provocato in quest'ultimo una rabbia furiosa che si è propagata da Basilea, dove si trovava, fino a Parigi. Per denunciare coloro che chiamava i bedaici, Erasmo si è rivolto al Parlamento e anche al re, tornato dalla Spagna dov'era stato tenuto prigioniero e da dove se n'era potuto andare solo lasciando i suoi due figli maggiori, per così dire, in pegno. Sua Maestà non ha esitato un secondo: ha vietato le Annotazioni. Troppi suoi amici erano coperti di insulti volgari. Al cavaliere di Berquin, che la nobile Margherita era finalmente riuscita a far liberare, pareva di trionfare. Si è subito sentito in dovere di denunciare, nelle stesse Annotazioni, dodici proposizioni eretiche. Credo che sia addirittura riuscito a far paura a maestro Beda poiché, quando il libro è stato comunque ristampato (in non so quale città tedesca), quelle dodici frasi erano scomparse. Il punto, tuttavia, non era certo questo: il punto era che, per il cavaliere, Noël Beda era diventato un acerrimo nemico, il quale vedeva «l'errore» dappertutto e non smetteva di ergersi contro di esso ovunque gli apparisse. Maestro Budé, che in quel periodo frequentava ancora la bottega di maestro Chevallon per il suo libro, era indignato quanto maestro Antoine. «Erasmo mi scrive che "in un solo Beda ci sono mille frati"; che gli attacchi di quella gente "sono una congiura di impudenza, ignoranza e paura"». Ha sospirato. «Non ha torto. Quelle persone ottuse e pigre, che si aggrappano a un pensiero superato, mettono in pericolo le lettere umaniste, miei cari amici». La sera, quando rincasavo, parlavo di tutto questo con Guillemette. Come tante altre figlie di stampatori, sapeva leggere e scrivere fin dalla più tenera età. Del resto, non aveva resistito al richiamo della libreria Chevallon, che si trovava proprio sotto di noi, e ci andava spesso. Alla fine ha iniziato ad aiutare Chevallon figlio e sua moglie nella vendita. Quando rincasavo, la trovavo sempre ad aspettarmi con un libro sulle ginocchia. La nostra unione era senza nubi. O, per meglio dire, lo sarebbe stata se avessimo avuto un figlio. Ma due gravidanze consecutive erano finite male. Guillemette aveva perso il bambino molto presto, prima che potesse vivere. Dopo quei due aborti, non è più rimasta incinta; oggi siamo sempre felici insieme, ma abbiamo dovuto arrenderci all'idea che non avremo discendenti. | << | < | > | >> |Pagina 295Una mattina, ho visto maestro Rabelais passare davanti alla mia bottega. Mi sono alzato per chiamarlo. È entrato. Credo vivesse nella nostra buona città, poiché l'avevo visto da lontano più di una volta. Aveva lasciato il saio da monaco e rivestito l'abito di un prete secolare. Abbiamo parlato per qualche minuto — e inevitabilmente anche di ciò che tutti ormai chiamavano il caso Berquin.«Guardatevi» mi ha detto maestro Rabelais con un ampio gesto. «Siete di fronte alla Sorbona. Tra le fauci del lupo. Se vogliamo continuare a pensare senza morire come mosche, dobbiamo tenere le distanze. Travestire quanto abbiamo da dire. Andare altrove. Perché il vostro maestro Antoine non se ne va a Fontenay-le-Comte, dove non si aspetta che l'avvento della stampa? Non dico che gli lascerebbero pensare quello che vuole. Ma la giustizia lì è più lenta, meno inesorabile che alla Sorbona. E poi, laggiù, monsignor d'Estissac veglia, e ha un potere diverso che a Parigi». «Si spera sempre che la burrasca passi». «Questa qui, mio caro amico, non passerà. Quando maestro Beda morirà, ne nascerà un altro. La Chiesa di Roma non accetterà mai di essere sfidata. Mai. Se deve tenere duro mille anni, lo farà. Saprà sedurre le pecorelle smarrite con sorrisi ingannevoli, vuote promesse. Ma dietro a tutto questo, sarà inesorabile. Poiché per la Chiesa "tutto quello che non è con me è contro di me; e tutto quello che è contro di me non è degno di esistere, per definizione"». «Voi frequentate più che altro la facoltà di Medicina, maestro François, e avete meno da temere». «Quei signori delle facoltà, giuristi o medici che siano, amano le idee nuove quanto quei sorbonuncoli dei teologi. Io ho optato per la tattica del camaleonte. Avete mai visto un camaleonte?». «No, mai». «A Fontenay, un marinaio ne aveva portato uno dai suoi viaggi. Sono animali che assumono il colore dell'ambiente in cui si trovano e poi restano immobili. Quando ci si avvicina, prima che uno riesca a vederli, si spostano e cambiano di nuovo colore. Come faccio io. Studio medicina a Parigi. Ma anche a Lione. E parimenti a Montpellier. Mi muovo. Quando mi cercano, sono già altrove». «Ma voi non scrivete. La medicina non è la stessa cosa». Ha riso di gusto. «Mio caro amico, ho cominciato come teologo e monaco, e lo sono ancora oggi. Ho la scrittura incatenata al corpo e, più maestro Beda si accanisce, più mi chiedo come applicare la mia tattica allo scritto senza cadere alla sua mercè». «Avete trovato una soluzione?». «Il camaleonte, mio caro amico. Innanzitutto, non intendo restare a Parigi. Poi, scriverò in francese. E, per concludere, non mi rivolgerò alla Facoltà ma al popolino, quello che ascolta intorno al fuoco le storie fantastiche narrate dai venditori ambulanti. Non criticherò gli eruditi dottori, non espressamente, comunque. Allegoricus interpres, come dice san Paolo. In questi tempi difficili, la lettera uccide ma lo spirito vivifica; sicché mi servirò dello spirito. Farò parlare giganti favolosi. Ci sto pensando seriamente». «E credete che...». «Mio caro maestro Claude, come si può sapere se si riuscirà? Tuttavia, come diceva Cicerone, se non mi inganno, quando si vuole riuscire bisogna tentare tutto. Ho pensato che le mie maggiori possibilità di successo consistano nell'attirare dalla mia parte chi ama ridere. E mi ci impegno». Poco tempo dopo, il Parlamento ha emesso la sua sentenza a carico del cavaliere. Quella mattina, Odino era di passaggio a Parigi; era venuto a prendere dei libri per maestro Lefèvre, che ormai risiedeva a corte, dove era tra i precettori di uno dei principi di sangue. L'ho visto risalire rue Saint-Jacques a passo svelto, in fitto conversare con maestro Antoine. Dalle loro facce, si capiva che erano angustiati da qualcosa di grave. Hanno varcato la mia porta. «Il Parlamento ha emesso la sentenza» ha detto maestro Antoine a mo' di buongiorno. Era inutile chiedere a quale proposito. Odino mi ha sepolto per un attimo tra le sue grandi braccia, poi ha scosso la testa a lungo. «L'ho udita, questa sentenza» ha detto alla fine. «E che cosa dice?». «Dice: Il condannato sarà innanzitutto degradato; sarà dichiarato decaduto dai suoi onori, dai suoi titoli; per aver abusato della sua dottrina, non sarà più dottore. In seguito sarà condotto, a capo scoperto e con una torcia di cera ardente in mano, dapprima alla procura civile del Parlamento, poi nel gran cortile del Palazzo, davanti alla pietra di marmo, per implorare pietà a Dio, al re, alla giustizia, a tutte le potenze del cielo e della terra che ha così criminalmente oltraggiato scrivendo libri e annotazioni in cui sono enunciate idee conformi a quelle di Lutero». Ho dovuto interromperlo. «Ma è del tutto falso! L'ho sentito io stesso dire più volte che Lutero si sbagliava». «Quando si vuole annegare il proprio cane, si dice che ha la rabbia, mio caro Claude». E ha ripreso a recitare il testo della sentenza.
«Successivamente, verrà condotto in place de Grève, dove i suoi
libri saranno bruciati in sua presenta e dove griderà nuovamente che abiura i
propri errori. Da place de Grève, il penitente e il
suo corteo si dirigeranno alla chiesa di Notre-Dame, dove ripeterà
la ritrattazione. Una volta concluse tutte le cerimonie della detta
abiura, il condannato sarà consegnato al boia, che gli trafiggerà
la lingua con un ferro arroventato e imprimerà sulla sua fronte il
marchio dell'infamia, un giglio. Infine sarà consegnato sanguinante al vescovo
di Parigi, che lo terrà prigioniero fino alla sua morte.
Questa sentenza verrà eseguita oggi stesso, alle tre della sera».
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