Copertina
Autore Michael Cunningham
Titolo Carne e sangue
EdizioneBompiani, Milano, 2002, Tascabili 793 , pag. 394, dim. 125x193x25 mm , Isbn 978-88-452-5157-3
OriginaleFlesh and Blood
EdizioneFarra Strauss and Giroux, New York, 1995
TraduttoreEttore Capriolo
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa statunitense
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Pagina 35

1935



Constantine, otto anni, stava lavorando nell'orto di suo padre e pensava al proprio, un quadrato di granito polverizzato che aveva recintato e rastrellato nella parte più alta della proprietà di famiglia. Per prima cosa sarchiò i filari di fagioli del padre, poi strisciò fra i nodi e i ceppi del vigneto, legando di nuovo ai paletti i viticci ribelli con della ruvida corda marrone che secondo lui aveva esattamente il colore e la consistenza di un nobile sforzo destinato a fallire. Quando suo padre parlava di "ammazzarsi di lavoro per mantenersi vivi", Constantine immaginava questa corda, ruvida e forte e grigiastra, elettrizzata dai suoi stessi fili vaganti, che avvolgeva il mondo in un goffo pacchetto riluttante a restare legato, proprio come i viticci che continuavano a liberarsi e guizzar fuori in estatiche inclinazioni verso il cielo. Occuparsi dei viticci era uno dei suoi compiti, ed era arrivato a disprezzarli e a rispettarli per la loro indomabile insistenza. Avevano una loro aggrovigliata vita segreta, una torpida volontà, ma sarebbe stato lui, Constantine, a pagarla se non fosse riuscito a tenerli ordinati e palettati. Suo padre aveva un occhio spietato, capace di scoprire un'unica pagliuzza cattiva in dieci balle di buone intenzioni.

Mentre lavorava, pensava al suo orto, nascosto sulla sommità della collina dal bagliore del sole, un metro quadrato, così inutile al futuro fermamente prestabilito da suo padre che lo aveva regalato a lui, il più piccolo, come un giocattolo. La terra del suo orto era poco più di un centimetro di terriccio intrappolato nel declivio roccioso, ma lui l'avrebbe fatta fruttificare con la sua determinazione e il suo lavoro e la sua forza di volontà. Dalla cucina di sua madre aveva trafugato dozzine di semi, di quelli che restavano attaccati al coltello o cadevano sul pavimento nonostante la sua attenzione a non macchiarsi del peccato dello spreco. Il suo orto era su un cocuzzolo di roccia riarsa dove nessuno metteva mai piede; se fosse cresciuto qualcosa, avrebbe potuto occuparsene senza dir niente a nessuno. E avrebbe potuto aspettare la stagione del raccolto e scendere trionfante con una melanzana o un peperone, forse anche un pomodoro. Sarebbe tornato a casa nel crepuscolo autunnale mentre sua madre serviva la cena a suo padre e ai suoi fratelli. Avrebbe avuto la luce alle spalle, vivida e dorata. Che avrebbe squarciato la penombra della cucina appena lui avesse aperto la porta. La madre, il padre e i fratelli si sarebbero voltati verso di lui, il cuccìolo, da cui ci si aspettava così poco. Quando nel vieneto guardava dall'alto il mondo - i ruderi della fattoria di Papandreous, gli uliveti della Kalamata Company, il luccichio lontano della città - pensava che un giorno si sarebbe arrampicato sulle rocce per vedere i verdi germogli spuntati nella sua macchia di terriccio. Il prete sosteneva che i miracoli erano frutto dell diligenza e della fede cieca. Costantine aveva fede

Ed era diligente. Ogni giorno prendeva la sua razione d'acqua, ne beveva metà e spruzzava il resto sui suoi semi. Questo era facile, ma aveva anche bisogno di terra migliore. I pantaloni cucitigli dalla madre non avevano tasche, ed era quindi impossibile rubare manciate di terriccio dall'orto di suo padre e arrampicarsi poi oltre la stalla per le capre e sulla parete curva della roccia senza farsi scoprire. Rubava quindi nell'unico modo possibile, chinandosi ogni sera al termine della giornata di lavoro, come per legare l'ultimo viticcio, e riempiendosi la bocca di terra. Aveva un sapore inebriante, fecale; un buio sulla sua lingua, insieme ripugnante e stranamente, pericolosamente squisito. Con la bocca piena saliva allora il ripido pendio verso le rocce. Il rischio non era grande, anche se avesse incontrato suo padre o i suoi fratelli. Erano abituati al suo silenzio. Lo attribuivano al fatto che lo consideravano uno sciocco. In realtà, stava zitto perché aveva paura di sbagliare. Il mondo era fatto di sbagli, un groviglio spinoso, e per quanta corda si usasse, per quanto la si annodasse con cura, non c'èra modo di legarlo bene. Il castigo era ovunque in agguato. Meglio quindi non parlare. Ogni sera camminava in silenzio, come al solito, passando davanti a quelli dei suoi fratelli che erano ancora al lavoro fra le capre, ed evitando di muovere le guance perché nessuno si accorgesse che aveva la bocca piena. Attraversando il cortile e arrampicandosi sulle rocce, si sforzava di non inghiottire, ma era inevitabile che gli accadesse, e un po' di terriccio gli filtrava in gola, infettandolo col suo acre sapore. Era infatti striato di sterco di capra, e gi faceva lacrimare gli occhi. Ma quando finalmente arrivava in cima, gli rimaneva una palla di terra umida di dimensioni discrete da sputare su un palmo. A quel punto, con grande rapidità, temendo che uno dei fratelli potesse averlo seguito per prenderlo in giro, conficcava la manciata di terriccio nel suo orticello. Era impregnata della sua saliva. La massaggiava e pensava a sua madre, che lo trascurava perché nella sua vita c'erano già fin troppi problemi di cui occuparsi. Pensò a lei che portava da mangiare ai suoi voraci e sguaiati fratelli. Pensò alla faccia che avrebbe fatto vedendolo entrare dalla porta una sera di raccolto. Si sarebbe fermato nell'obliqua luce polverosa davanti ai familiari sbalorditi. Poi si sarebbe avvicinato al tavolo per posarvi quel che aveva portato: un peperone, una melanzana, un pomodoro.

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Pagina 32

Quando sua madre lo chiamò per la cena, Billy sdraiato sul suo letto, stava guardando un fumetto. Era un vecchio fumetto, regalatogli da sua madre, su una gatta innamorata di un topo che la disprezzava. A oggi mattone che il topo le lanciava in testa, l'amore della gatta cresceva, fin quando la sua testa era tutto un turbine di cuori e di punti esclamativi, segni mischiati della sua devozione e delle sue ferite. Billy aveva talmente adorato quel fumetto da supplicare la madre di permettergli di tenerlo, e quasi ogni giorno guardava la gatta dal gran naso istupidita dall'amore per il collerico topo dalle braccia lunghe e sottili. Sua madre gli aveva letto tante volte le parole da fargliele imparare a memoria. "Ignatsio, cuor mio, io ti amo un milione di volte. Ugh." La successione delle vignette lo eccitava, gli smuoveva qualcosa dentro. Non si stancava mai di guardare gatta e topo che passavano per una serie immutabile di ingiurie e di puro sconfinato affetto.

Scese a cena e si sedette al suo solito posto, osservando ogni cosa. Suo padre non parlava. Mangiava con una schizzinosa riluttanza, che non era il suo modo abituale, tagliando con precisione ogni boccone come un sarto. Ogni tanto nel tagliar la carne, emetteva un lieve gemito, come se il coltello avesse toccato la sua carne viva. Billy guardò le mani di suo padre, rosse e venate, e talmente grandi che potevano coprirgli tutta la testa. Si ricordò che gli era proibito fissare. Si concentrò allora sugli altri commensali, meno pericolosi. Zoe giocava con un cucchiaio che scintillava e s'offuscava e scintillava di nuovo alla luce della lampada. Susan sedeva impassibile e compita di fronte a Billy, il quale sapeva che la sua attenzione era tutta concentrata sull'accertarsi che nessun boccone sul suo piatto toccasse qualsiasi altro boccone.

La madre di billy mangiava con distaccata precisione. Nutrirsi era per lei un compito da affrontare con metodo e con attenzione. Mangiando, manteneva vivo il flusso della conversazione. Ogni argomento era buono. Era suo compito comprare e cucinare ii cibo ed era suo compito assorbire il mondo ed elargirlo alla famiglia in queste conversazioni. "Oggi sono passata da Widerman," disse, "per comprare qualche cosetta, e pensate un po'. Avevano uno scaffale pieno di radio a transistor con un grande cartello che diceva 'Occasione. Tre e novantanove.' Non potevo crederci. Pensavo che dovessero avere qualcosa che non andava e allora l'ho chiesto a Jewel, quella con il figlio morto a Pearl Harbor. 'Jewel,' le ho detto. 'Cos'hanno che non va quelle radio?' E lei: 'Capisco cosa vuoi dire, ma non hanno niente che non vada. Sono giapponesi. Sembra cne i giapponesi lavorino praticamente gratis, e così il costo di una radio é quasi soltanto quello dei componenti e della spedizione. Ma vi rendete conto? Sono stati loro ad ammazzare l'unico figlio maschio di Jewel, e lei adesso se ne sta lì a vendere le loro radio a prezzi con cui nessuna ditta americana potrebbe mai competere.

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Pagina 105

La casa era tranquilla. Tubi e condotti emettevano i loro rumori, sommessi ed efficienti. Ronzavano gli elettrodomestici. Mary era di sopra a dormire, a sognare i suoi sogni. Una ladra, una delinquente recidiva; una donna che era rimasta silenziosamente seduta nella luce fluorescente dell'ufficio dello sceriffo, con il trucco che le colava sulla pelle pallida e mortificata. Billy era andato seminudo dai suoi amici. Versandosi un altro drink, Constantine pensò a Susan, coraggiosa e intelligente e comprensiva, che procedeva con agile sicurezza verso un futuro che le riservava novità sempre più belle. Quel che c'era stato fra loro non aveva importanza. Lo aveva fatto solo un paio di volte, da ubriaco: una cosa da poco. Soltanto baci e abbracci. Era stato amore, nient'altro. Pensò di telefonarle, ma sapeva che il suo orgoglio non si sarebbe mai riavuto dal ricordo di quella conversazione da sbronzo durante la quale le aveva chiesto perdono. Un giorno sarebbe diventato un vecchio. Doveva stare attento al passato che si stava costruendo.

La camicia di Billy giaceva in un mucchio colorato sul pavimento. Constantine si pigò e, con un lieve scricchiolio delle sue ginocchia irrigidite, si chinò a raccoglierla. Era leggera come fumo, di un tessuto simile a garza. Papaveri arancione grandi come pollici e fiori violacei a forma di trombe sbocciavano in un campo nero. Constantine se la portò al viso e ne aspirò l'odore. L'odore di suo figlio - la sua colonia dolciastra e il deodorante e le caramelline di gaulteria che succhiava per l'alito. Billy era ossessionato dall'idea di puzzare e Constantine capiva il suo terrore adolescenziale. Lui stesso aveva masticato anice, si era innaffiato di profumo, si era lavato i denti tre volte al giorno. Quali pensieri spaventavano Billy fino a indurlo a inzupparsi di essenze, a ustionarsi la pelle a forza di docce che appannavano le finestre dell'intera casa? Quali oensieri? Constantine lasciò ricadere la camicia sul pavimento. Poi, poiché era uno che teneva alla famiglia, poiché aveva per il figlio un amore venato di odio, tornò a raccoglierla e la drappeggiò con cura sullo schienale di una sedia della cucina.

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Pagina 147

1972



Will, Inez e Charlotte s'impasticcarono insieme un'ultima volta, si confermarono il loro affetto e tornarono tutti dai genitori per l'estate. Quando quelli di Will vennero a prenderlo alla stazione e lo portarono a casa, fu per lui una sorpresa vedere che la cittadina gli appariva ridicola e insieme profondamente familiare, in un senso quasi magico. Come se fosse sotto ipnosi e vicino a ricordare una vita passata. Come se stesse viaggiando in un altro paese dove, per qualche ragione soprannaturale, sapeva che il guidatore avrebbe imboccato la prossima svolta a sinistra e che una casa gialla a due spioventi sarebbe apparsa dietro un nero gelso scheletrito. Si era preparato a una sesazione di fastidio e d'irritazione alla vista dei prati inalterati e delle case linde e prospere. Aveva immaginato con precisione che si sarebbe sentito come privo di peso mentre suo padre guidava con entrambe le mani sul volante e sua madre parlava del nuovo costume da bagno che aveva comprato per lui a una liquidazione. Ciò che non aveva previsto era la sensazione di benessere, di un luogo quasi surreale. Non aveva previsto che, quando la Buick di suo padre avrebbe girato il solito angolo, sisarebbe sentito di nuovo a casa, in tutte le accezioni del termine. Sceso dalla macchina, rimase sul prato a guardare l'edificio che suo padre aveva costruito, imponente alla sua maniera suburbana, una grande irregolare follia con tetti mansardati e bovindi, pulita come un osso nella luce d'estate. Dentro non c'erano libri, a parte i best-selier in edizione economica che sua madre leggeva nelle vacanze estive. Non c'era un oggetto, o un piatto o un mobile, che fosse più vecchio di Will. Ma c'era il cibo familiare. C'era un rifugio. Suo padre dominava la casa dalla sua posizione di totale ed eterno proprietario e Will rimaneva il servo di suo padre in una maniera tanto più forte perché non aveva un nome.

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Pagina 151

1973



Constantine piantava semi nel terreno e il terreno rispondeva con lattughe dalle foglie rosse, con le volute dei fagiolini e la goffaggine sessuale dei peperoni dolci. Lui e Zoe lavoravano insieme nell'orto e avevano momenti eccitanti. Poteva darsi che lui scoprisse una perfetta zucca torta, lunga esattamente come il suo anulare, che luccicava sotto una foglia, o che Zoe si alzasse in piedi nella luce pomeridiana con le braccia cariche di basilico. Erano momenti in cui credeva di essere arrivato proprio dove aveva voluto. Ma passavano. Passavano sempre.

C'era una volta una gran confusione. C'era una volta una luminosità inquietante.

Adesso Mary, la sera, andava a letto con guanti; disponeva fiori su un piccolo cerchio di spilli. Susan se n'era andata. Gli aveva scoccato appena un'occhiata da sotto il velo quando lui l'aveva condotta all'altare. Ogni tanto telefonava, ma non era più una che gli tenesse compagnia.

E che cosa era successo a suo figlio? A vent'anni era un ragazzo con un paio d'occhialetti rotondi, come quelli che portano le zitelle inacidite. Un ragazzo i cui capelli toccavano le sue esili spalle con nervosa secchezza come le tendine di una vecchia signora. Si era stabilito a Harvard, a impietosirsi per gli umili della terra che in tutta la vita avevano lavorato meno di quanto lavorasse Constantine in una sola settimana. Avrebbe potuto raccontarne di storie sugli svantaggiati. Provatevi ad arrivare in questo paese senza un soldo e senza saper niente d'inglese tranne hello e please. E partendo da hello e da please quanti uomini erano riusciti a costruire ciò che aveva costruito lui? Allora sei un nero. Mi dispiace. E adesso raccontami la tua vera storia.

Che cosa era successo? Uno come Billy, un giovane così dotato, dovrebbe divorare il mondo. Dovrebbe avanzare a grandi passi nella vita, abile come un cavallo e astuto come un lupo, e spremere il ricco docile sangue dal cuore delle donne. Quando Mary aveva partorito un maschio, Constantine aveva immaginato se stesso che prendeva manciate di futuro e se le ficcava in bocca. Le figlie, anche le migliori, sparivano nelle vite di altri uomini. Ma un figlio ti sosteneva. I suoi piaceri includevano anche te; vivevi nella tua pelle e vivevi anche nella sua.

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Pagina 162

[...] Aveva bisogno di concentrarsi su come riempire d'aria i polmoni. Una volta trovato il bagno, chiuse la porta a chiave e tirò fuori una pillola dalla borsetta. La inghiottì e per un po' rimase in piedi a respirare davanti al lavandino. Nel lavandino c'era un lungo capello scuro arricciato come un punto interrogativo. C'era anche uno specchio sporco; e una tazza di ceramica con tre spazzolini da denti, di Billy e delle sue due compagne di stanza che lei non aveva mai conosciuto. Mary non sapeva quale fosse lo spazzolino di Billy. Quello giallo dall'aspetto molliccio? Quello più nuovo, più ispido, di un verde vivo, con setole rigide come qulle di una spazzola per capelli? Quello chiaro con una minuscola mezzaluna di dentrificio che era rimasta attaccata al bordo? Nessuno indicava chiaramente suo figlio, e nessuno le era incontestabilmente estraneo. Si rese conto all'improvviso di quanto era rimasta indietro. La sua vita personale, i ritmi della casa, la sua manutenzione, le erano sembrati così reali, così quintessenziali, che le vite vissute altrove, comprese quelle dei suoi figli, si erano svolte lungo i margini, in un regno particolare e immutabile come una fotografia. Sebbene pensasse costantemente a Billy, lo faceva in termini leggermente astratti, come poteva pensare a un personaggio di uno show televisivo quando lo show era in corso. Ma qui c'era questo bagno, col suo acre odore di muffa che fluttuava sotto un velo di cloro. E c'erano questi spazzolini da denti. Guardandoli, fu colta da una tale ansia che dovette sedersi sul bordo della vasca e piegarsi in avanti fin quasi a sfiorare le ginocchia con la fronte. "Respira," disse a se stessa. "Rilassati. Fa' entrare aria." Sembrava che non fosse passato neppure un minuto quando udì Constantine che bussava alla porta, chiedendo se si sentiva bene. "Sto benissimo," gli gridò allegramente. Allungò una mano e azionò lo sciacquone. Rialzatasi, sentì l'impulso di infilare gli spazzolini, tutti e tre, nella sua borsetta, per poter poi esaminarli e cercar di capire quale appartenesse a suo figlio. Ma sarebbe stata una pazzia. Avrebbero capito subito chi li aveva presi. Constantine bussò di nuovo.

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Pagina 182

1979



Le canzoni dicevano che l'amore è dappertutto. Sotto la finestra di Will un uomo con un berretto da cacciatore e frusti pantaloni scozzesi passava metà della notte gridando: "Ehi, mi ami, mi ami, ehi, pezzo di merda, sto parlando con te." Si aveva un bel chiamare la polizia, lui tornava regolarmente - era il suo territorio. Per soffocarne là voce Will metteva su dei dischi, cantanti rock e trombonisti jazz che facevano tutti, con musica, la stessa insistente domanda. Mi ami, mi ami, ehi, stronzo, mi ami? Will sembrava incapace d'innamorarsi di una cosa complessa e sfuggente come una persona. Ma questo non lo preoccupava. Non molto. Divideva un grande e gelido appartamento con un'amica e la sua figlioletta di cinque anni. Aveva un piccolo giro di amici. L'amore capitava altrove, ad altra gente. Sarebbe forse capitato anche a lui, al momento giusto. Aveva ventisei anni e non si detestava troppo. Solo un po', solo in certi momenti. A volte, quando nessuno poteva sentirlo, dopo un giorno di lezioni, si sedeva alla scrivania e lasciava che dalla sua bocca uscissero piccoli striduli gemiti per tutte le riunioni, le ambigue vittorie sugli studenti, le umiliazioni potenzili che sembravano sgorgare all'infinito dalla linea di congiunziine fra il suo lavoro di maestro e il suo ruolo, più complesso e forse più autentico, di servo dei propri allievi. Will ripensava ogni tanto a quella sera di parecchi anni prima in cui aveva guardato la faccia infuriata di suo padre, il suo abbuffarsi ininterrotto, e aveva detto: "Farò l'insegnante." Lo aveva detto solo per fare impressione, per mandare all'aria le aspettative di suo padre. Ma poi aveva continuato a pensare alla sua sdegnata reazione: "Dovevi andare a Harvard per insegnare a dei bambini negri?" La macchiolina di salsa sul mento di suo padre, lo spento azzurro pastello della tappezzeria della sala da pranzo. E viaggiando qua e là per il paese, accettando posti di cameriere o di fattorino - preparandosi a staccarsi dall'infanzia e a iniziare una vita di lavoro - Will aveva sentito scivolare via il vecchio progetto di studiare architettura e si era man mano reso conto, con una sorta di inebriante e soddisfacente rassegnazione, che avrebbe davvero insegnato.

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Pagina 255

Dopo colazione. Mary andò con Cassandra e Jamal a Central Park. In realtà non avrebbe voluto, ma se avesse inventato una scusa sarebbe stata una di quelle donne che fingono un appuntamento col parrucchiere per fuggire dal proprio nipote. Quando propose d'andarci macchina, Cassandra insistette preché prendessero la metropolitana. "A quest'ora il traffico è spaventoso," disse, "e là non c'è posto per parcheggiare." Mary acconsentì, era più facile, anche se mentre percorrevano a piedi i numerosi isolati che li separavano dalla stazione della metropolitana, non poteva fare a meno di domandarsi se Cassandra era restia a salire sulla sua auto - a prender posto in quella calma fresca e prospera che era sua proprietà. La macchina di Mary era silenziosa, pulita, solida; la stazione della metropolitana quando vi entrarono era piena di luci violente e di individui furtivi e frustrati. Un sordo crepitio che veniva da un altoparlante puteva essere il mormorio inconscio della città in generale, dei suoi vecchi sogni irrequieti. Lì Cassandra sembrava a suo agio, in piedi sulla banchina a tenere per mano Jamal e a chiacchierare con Mary delle nuove gonne, più corte, previste per l'autunno. L'aria puzzava di marcio e di orina e di cibi fritti in olio rancido. Mary pensò improvvisamente alla propria infanzia, al futuro d'oppressione che l'aspettava allora, e qui le sembrava di non poter neanche respirare, aveva voglia di correre ansimando per risalire alla superficie. Invece sorrideva a Cassandra, annuiva e respirava. Era divenuta abile a gestire le sue crisi di soffocamento mantenendo un'assoluta tranquillità esteriore. Poteva superarle. E quando se ne sentiva sopraffatta c'erano sempre le pillole. Poi vide le luci del treno che si stava avvicinando e seppe che poteva farcela.

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