Copertina
Autore Mauro Curradi
Titolo Junior
EdizioneMeridiano zero, Padova, 2005, Questa non è una pipa 17 , pag. 224, cop.fle., dim. 115x195x14 mm , Isbn 978-88-82370-83-1
LettoreElisabetta Cavalli, 2005
Classe narrativa italiana
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Da tre giorni se ne stava rinchiuso nella sua stanza d'albergo. Di Firenze aveva visto i pochi metri quadrati d'asfalto che separano la nuova stazione dall'ottocentesco edificio del Baglioni Hotel. In quei pochi metri Firenze non è molto Firenze: pure la nuova stazione, progettata dal Michelucci per volere del Duce nel 1932, puntualmente riprovata dai fiorentini, tradizionali nemici del nuovo, aveva acquistato col tempo un certo posto nei loro cuori.

Rivedendo quei luoghi e il cielo sbiadito come nei quadri esposti agli Uffizi, udendo quel timbro di voci a lui familiare, Elia Rapaccini ebbe un capogiro come chi vede le cose uscendo da una prigione.

Firenze l'aveva lasciata prima che i camerati tedeschi distruggessero i ponti per ritardare l'avanzata dei nuovi alleati. Era fuggito a Milano, insieme alla famosa Tamara, su una camionetta della Wehrmacht, poi a Gargano del Garda, poi, solo, a Genova, e di qui a Barcellona su una nave di linea. Alla fine si era stabilito a San Paolo del Brasile, torrida e afosa come Firenze d'agosto.

Tre anni erano passati, e in questi tre anni aveva scritto solo alla sua amante, Tamara Milovich, per implorarne il perdono; perdono di averla lasciata, sola e senza mezzi, nell'inferno di Gargano del Garda. Non avendo ricevuto risposta, scrisse di nuovo.

Voleva sapere se era viva.

Lei rispose che era viva, ma non parlò di perdono.

Gli fece sapere che poteva tornare: gli anni dell'odio e della vendetta erano finiti. La legge si era placata da tempo con l'amnistia voluta dal ministro Togliatti, che invitava gli italiani a una nuova, definitiva concordia. Il lanificio intestato a nome suo e di suo figlio era ancora sotto sequestro, ma — secondo Tamara — avrebbe potuto riaverlo proprio perché l'aveva intestato a Francesco prima di lasciare Firenze, tanto più che da due anni questi si era iscritto al Partito. Nel frattempo, per non mandarla in malora, l'azienda era gestita sotto forma di cooperativa operaia, col consenso e la protezione del sindacato centrale.

Di suo figlio Francesco, Tamara sapeva che era iscritto al quarto anno di legge e che, non amando il lavoro di fabbrica, difficilmente se ne sarebbe occupato, tanto più che al Festival giovanile di Praga aveva incontrato una ragazza di Prato, figlia di un famoso avvocato.


Tamara era la sola a sapere del ritorno a Firenze di Elia Rapaccini. Pure vivevano, tra Prato e Firenze, persone che con maggiore diritto dovevano esserne messe al corrente. Per esempio Orio, il fratello maggiore, che per quattro anni si era tenuto nascosto in una borgata romana: fino al processo della Decima Mas, celebrato a Roma in un'aula della vecchia Sapienza, dove all'ombra della follia borrominiana tutti gli imputati, colpevoli o no, erano stati giudicati innocenti o condannati a pene minori. Tornato a Firenze, Orio aveva preso in affitto due camere con uso di cucina e ingresso in comune, da condividere con il nipote Francesco.

Orio, per prudenza e viltà, usciva soltanto di sera per recarsi alla fiaschetteria di via del Corso che, poco più grande di un armadio a muro, costringeva i clienti a sedere per strada. La gestiva una donna piccola piccola, nota a Firenze come quella donnina.

Orio tornava a casa sempre più tardi, sempre più alticcio, annunciandosi con un rutto o una virile scoreggia di stile fascista. Se Francesco stava ancora studiando, lo costringeva a subire i suoi nostalgici, cupi sermoni. Il nipote ascoltava con rispettosa pazienza quella voce calda e un po' repellente. Ascoltava quella stanca retorica che, quasi dall'oltretomba, veniva a rammentargli, ancora una volta, la loro rovina.

Suo padre lo aveva visto di rado, perché dopo la morte della mamma, avvenuta nel 1938 il giorno di Natale, Francesco era stato messo in collegio come interno al Cicognini di Prato, celebre per avere educato il Vate delle Camicie Nere, Gabriele D'Annunzio. Dopo la maturità, di suo padre non aveva saputo più niente. Lo aveva visto una volta dall'avvocato Giannessi, per la firma di un atto che, indicandolo come "Junior", lo dichiarava titolare della ditta insieme a lui. Era il giorno della fuga. Poi, più niente.

Al Monte dei Paschi erano rimasti solo pochi soldi, che a Francesco servivano per mantenere alla meglio zio Orio e se stesso.

Altre cose di Elia Rapaccini, oltre ai soldi, erano rimaste tra Prato e Firenze. Erano i ricordi. Gli amari ricordi compressi nella memoria delle persone che la crudeltà sua e della sua donna, Tamara Milovich, aveva ferito nel corpo e nell'anima. Mostruosi ricordi che ancora divoravano il cuore di coloro che avevano visto e patito. Gli altri - le vittime - giacevano fermentando nella saggezza della terra, serena custode di ogni umano dolore. Ma i vivi si agitavano ancora nel cuore della notte, svegliati dal ricordo di un grido, di una camicia macchiata di sangue, di una fede nuziale: muti testimoni di morte che tornano agli occhi ormai inariditi di una madre, una sposa, un amico.

Nonostante tutto questo, Tamara Milovich aveva ragione. Elia poteva girare per strada senza paura. Poteva presentarsi anche in fabbrica, a Prato. L'odio, l'odio che uccide e chiede vendetta, si era dissolto o rimarginato in dolore, e raramente il dolore - lo rassicurava Tamara - è capace di concepire vendetta. A questa sarebbe bastato un sentimento obliquo e meschino, nato da un amore umiliato, da un orgoglio ferito dalla nostra viltà.

Questo aveva scritto Tamara nella sua ultima lettera.

Elia era arrivato in albergo la mattina alle otto. Sulla scrivania aveva trovato un pacco di giornali recenti e le carte riguardanti la fabbrica che Tamara era riuscita a procurargli con l'aiuto dell'avvocato Giannessi, suo cliente e amico.

La prima telefonata era arrivata alle dieci di sera. Già per lettera, avevano convenuto che lei non sarebbe venuta in albergo. Elia temeva che qualcuno, riconoscendola, potesse seguirla. Elia Rapaccini, un tempo conosciuto come il boia di Prato, aveva paura di tutto e di tutti. Come tutti, in passato, avevano avuto paura di lui. Perciò passarono tre giorni prima che si lasciasse convincere a uscire.

In quei tre giorni, le telefonate di Tamara furono l'unica sua distrazione. Il resto del tempo lo passava a leggere e rileggere le carte della fabbrica intestata ormai anche al figlio, i listini della borsa valori, le disposizioni e i disegni di legge riguardanti le aziende ancora sotto sequestro. Quando telefonava Tamara, sempre alle dieci di sera, le diceva per quali vie pensava di rientrare in possesso della fabbrica di cui anche lei, col matrimonio, sarebbe diventata padrona.

Tamara ascoltava, alterata da un vecchio telefono, la voce dell'uomo che disprezzava e amava. La prima volta le era sembrata estranea, tanto era diversa da quella che le risuonava nella memoria. Le era subito parsa irriconoscibile, al punto di farle dubitare che il corpo di Elia conservasse intatte, da nudo, le sue forme aitanti e lubriche. Con un certo imbarazzo sentiva la voce di lui, viva nella memoria, parlarle come la voce di un morto. O come se fosse registrata su un logoro nastro.

Una volta sola riconobbe la voce di un tempo. Le parole di Elia — una frase brevissima — la penetrarono, ancora una volta, nel corpo, nell'anima, nell'amore, nell'odio. Lui la possedette di nuovo, dopo tutti quegli anni, con quella voce morbida e rauca.

— Sei ancora bella?

— Per saperlo basterebbe vederci.

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Pagina 44

[...] Sulla via del ritorno, il gruppo aveva intonato "ce ne fregammo un dì...". Poi il canto era stato interrotto per orinare tutti insieme sul muro. Ognuno si era infine congedato dagli altri, stringendo mani con le mani congiunte, come si fa ai funerali. Uno di loro - Orio se ne ricordò mentre tentava di infilare la chiave - gli aveva fatto notare che l'arma del delitto non era stata trovata.

Queste incursioni nel recente passato, per occasionali che fossero, lasciavano nell'animo di Orio uno strascico d'ira, come se il passato non fosse davvero passato. Non un'ira politica, ma una sorda, inestinguibile rabbia contro se stesso. Una sorta di orgoglio-vergogna. Un disgusto che tornava alla gola col rigurgito del vino bevuto.

Suo fratello - avrebbe voluto spiegare - non era sempre stato fascista. Aveva sempre badato soprattutto alla fabbrica che aveva costruito pezzo per pezzo, tenendosi aggiornato sulle tecniche per il riciclaggio di stracci destinati a diventare tessuti. Nonostante gli elogi e gli encomi - ricevuti in piena autarchia -, si era tenuto alla larga da ogni impegno politico. Finché nel 1938, durante la visita del Fόhrer a Firenze, era stato costretto ad accettare la tessera di 'Camerata Onorario' del partito nazionale fascista. Nominato, di lì a poco, cavaliere del Regno d'Italia, non si era mostrato compiaciuto. Si era rinchiuso in uno strano riserbo che i pratesi avevano preso per una cupa scelta d'orgoglio. La scelta era stata fatta qualche anno più tardi, quando il cavaliere Elia Rapaccini, affascinato dagli occhi fieri sotto la tesa di un cappello di feltro, aveva scelto le parti del Duce, schierandosi contro il piccolo re che, diversamente dagli altri sovrani d'Europa, era fuggito dalla sua capitale. Per ordine di Salò, Elia Rapaccini era diventato, virtualmente, il capo del Movimento sociale della Toscana. Come tale, aveva sentito vivo il dovere che tutto funzionasse senza cedimenti o pietà per i traditori - badogliani o comunisti che fossero - caduti nelle sue mani. Le sue imprese, quasi sempre compiute insieme a una donna, costretta a esibirsi davanti alle vittime, erano ormai nella memoria di tutti. Come il nome della famigerata Tamara, di cui a Roma si sarebbe celebrato il processo. Esso apparteneva ormai alla leggenda che, nei giorni di mercato o di fiera, i cantastorie cantavano per un pubblico inorridito di contadini e massaie dei paesi vicini.

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Al piano di sotto la gente ballava, parlava, sorrideva un po' troppo, beveva un po' troppo, secondo le mode in vigore. Daisy stava attraversando la sala. Portava un abito verde dalla scollatura romantica, orlata di camelie rosate. Tra le dita teneva un settantotto giri. Il telefono continuava a squillare ormai da un pezzo, ma in assenza dei padroni di casa nessuno andava a rispondere. Mentre Daisy deponeva il suo disco sul piatto, Gianna e Francesco scendevano graziosamente le scale. Il telefono tacque, poi riprese a squillare. Al massimo del volume, il disco di Daisy diffondeva la nostalgia di un tempo in cui niente di terribile era stato ancora commesso. Con l'aiuto di Offenbach, Daisy Dφri proponeva il rimpianto dell'epoca, dopo tutto non tanto lontana, in cui era stata soubrette della compagnia dei fratelli Schwartz, che insieme al gioioso cancan esibiva in Europa le dame più belle di un passato sconfitto.

Gianna, di corsa, aveva raggiunto il telefono, la cui insistenza era diventata inquietante. Imponendo coi dito il silenzio, volto le spalle alla sala. Dal microfono veniva un sospiro profondo, come di uno spettro che non potesse parlare. Gianna restò ad aspettare, sicura che ci sarebbe stato un altro segnale.

Questa volta era una voce cortese:

- Devo parlare con il signor Rapaccini.

Gianna ebbe paura, come se qualcuno la stesse di nuovo inseguendo. La prima volta era stata impaurita dagli abbaglianti di un'auto, manovrati forse da un uomo che l'avrebbe venduta, come il padre di Francesco, ogni volta che avesse avuto bisogno di soldi.

- Non credo sia ancora arrivato.

- Non è la sua casa?

Alle sue spalle, Francesco era più pallido e spaventato di lei. Gianna gli porse il microfono, lui fece 'no' con la testa.

Gianna fu pronta a rispondere:

- Qui casa Guicciardi.

- Mio padre è stato a Villa Triste, ospite di Elia Rapaccini. Θ morto due anni fa, in seguito alle torture subite per ordine del boia.

- Che cosa desidera?

- Un risarcimento.

- Mio suocero è morto. Tutti lo sanno.

- Esistono gli eredi.

- Non abbiamo un centesimo. La casa è di mia madre. La fabbrica, sotto sequestro. Per ulteriori dettagli si rivolga a mio padre, l'avvocato Bistolfi, con studio a Prato e Firenze.

Gli ospiti stavano vociando che il whisky era bell'e finito. A causa, strepitavano, della tirchieria fiorentina. Francesco, che fiorentino non era, abbandonò sua moglie al telefono, raggiunse la cassetta di scorta e, afferrata una bottiglia, la lanciò verso Marco, che riuscì a prenderla a mezz'aria, con una perfetta mossa di basket. Versando da bere, Marco chiese come erano andate le cose. Francesco rispose formando un cerchio con indice e pollice, un silenzioso messaggio escogitato da chi non voglia dar voce alle proprie menzogne. Marco ne approfittò: — Quanto pensi ci metta i' tu' Pretoli a produrre una partita di roba bella come la tua?

Di quelle conversazioni, Daisy intuiva lo scopo immediato e il fine ultimo. Rimise il pick-up sull'orlo del disco e, precedendo la musica, sollevò con le due mani la gonna, scoprendo giarrettiere e mutande di trina. Si equilibrò sulla gamba destra per roteare festosamente la gamba sinistra e, come offerta finale, mostrò il fondoschiena a Marco e Francesco, inseparabili amici. Questo facendo, dimenticò la propria malizia per sognare il mondo che, con quella musica irrefrenabile e allegra, aveva incantato le ultime corti europee nelle trionfali tournée dei fratelli Schwartz — di cui con la guerra si era persa ogni traccia — che avevano portato in giro soubrette, ballerine, cantanti scelte tra le più belle signore della Mitteleuropa. A ogni guizzo del precipitoso refrain Daisy, agitando la gonna, rievocava i bei matrimoni delle ultime dame austroungariche, che avevano ritenuto opportuno accasarsi d'urgenza coi futuri padroni del mondo.

Per educazione o rivalità, o semplicemente per mostrare le gambe, che nessuno avrebbe visto prima dell'estate in Versilia, quasi tutte tentarono, una dopo l'altra, di gareggiare con Daisy.

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Dalla finestra del suo ufficio, Francesco riconobbe un poliziotto in borghese. Teneva aperto lo sportello della seconda vettura. Il primo a salire fu il funzionario in impermeabile grigio. Pioveva. Correndo a ginocchia piegate, il poliziotto portò un ombrello ai due funzionari in attesa. Per non vedere la pioggia, Francesco tornò alla sua scrivania. La scrivania di suo padre. Pensava a Praga, a quel leggero sole d'agosto. A piazza San Venceslao piena di velleità e di bandiere. Pensava ai brevi incontri con Gianna. Alla notte passata tra canti e falò nell'immenso campo sportivo detto la Sokolovna. Agosto 1947. Un anno era quasi passato. Masarik era morto, Benes sparito. Seduto alla sua scrivania, Francesco prese un foglio, si mise a disegnare: ghirigori senza senso apparente che raffiguravano, forse, i suoi confusi pensieri. Voleva parlare col Pretoli. Lo fece chiamare per dirgli di avere ottenuto licenza per l'intera partita. Bisognava sbrigarsi: il cliente pagava in anticipo, ma dava due settimane di tempo. Il passaggio per Suez era sempre più problematico. La merce sarebbe partita via cargo Alitalia.

– Posso andare?

– No.

– Che altro?

– Cosa vi è preso stamani? Cosa voleva dire quella pagliacciata?

– Suo padre l'avrebbe capito.

– Che c'entra mio padre?

– Θ lei che ce lo fa entrare. Lei, che ha voluto speculare sulla sua morte spacciandola per un delitto politico. Io l'ho capita, l'ho capita quel giorno, quando ci si offrì di aiutarla. Ho capito quanto sia difficile rinunciare a quello che si ritiene un nostro diritto. Per noi come per voi. Ma ieri, con quella dichiarazione, è uscito da ogni possibilità di comprensione.

– Non era una dichiarazione. Era un esposto.

– Elaborato dai suoi avvocati, basato su segnalazioni anonime, in realtà dettato da particolari sentimenti politici. Lei è stato disonesto, signor Rapaccini, e lo sa. Non se ne vergogna nemmeno. Oggi, anche se lei lo volesse, non ripeteremmo l'offerta. Oggi le condizioni sono cambiate. Ieri era ieri. Domani è un altro giorno.

– Sono le ultime parole di Via col vento.

– Non ho visto quel film e non mi interessa vederlo.

- Preferisce la propaganda sovietica?

– Preferisco le storie reali.

– Se davvero vuole saperlo, lei e gli altri sarete licenziati al momento opportuno. La realtà è anche questa.

– Le costerà un mucchio di soldi. Vedrà, signor Rapaccini: lavorare con noi le peserà quanto a noi lavorare per lei. Anche questo è realtà.

Francesco stava considerando il suo foglio e i misteriosi disegni. Non c'era più niente da fare, si disse, e li gettò nel cestino. Ricordò allora la prima visita alla fabbrica condotta dal Pretoli quando lui era solo un bambino: i minacciosi, enormi macchinari, i mucchi di stracci provenienti da paesi lontani. Ricordò il posto dove aveva lavorato sua madre, operaia comunista, divenuta, per matrimonio, una strana, stravagante signora. Tutto questo era un ricordo. Un ricordo lontano. Anche Praga, le speranze di Praga, un negro che canta con il dolore di una voce profonda. Anche questo un ricordo. Nient'altro da dire. Due parole soltanto. Accompagnato il Pretoli alla porta, gli strinse la mano. Alle sue spalle mormorò sottovoce:

– Addio, compagno.

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