Copertina
Autore Catherine Cusset
Titolo Ai miei non piaci molto, lo sai
EdizioneEinaudi, Torino, 2009, I coralli , pag. 326, cop.fle., dim. 13,6x21,2x2 cm , Isbn 978-88-06-19782-7
OriginaleUn brillant avenir
EdizioneGallimard, Paris, 2008
TraduttoreMonica Capuani
LettoreElisabetta Cavalli, 2010
Classe narrativa francese
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Capitolo primo

2003

Solo il silenzio


Mentre stende il materasso gonfiabile, Helen sente Jacob tirare l'acqua e aprire la porta del bagno. Alza gli occhi e vede suo marito con il pigiama grigio a righe bianche che la fissa, in piedi sulla porta del salone. La cosa la infastidisce. Non perché lui non le offra il suo aiuto - non è difficile gonfiare il materasso, e Jacob è diventato cosí maldestro che è meglio sbrigarsela da sola - ma perché non le fa la domanda che lo tormenta cosí tanto: perché sua moglie dorme in salone? Lei decide di restare in silenzio. Lui può ancora articolarle, tre parole.

Non gli chiede neanche se ha preso le medicine che lei ha lasciato sul ripiano della cucina insieme a un bicchiere d'acqua. Se salta una dose, poco male. Non morirà per questo. Certe volte non ce la fa piú a pensare, parlare, agire per due. E lei che tira fuori ogni giorno dalla confezione le ventiquattro compresse quotidiane, ed è lei a dovergli ricordare di ingoiarle. Oggi si è di nuovo dimenticato di prendere la posta. Lei ha atteso pazientemente tre giorni, moltiplicando le allusioni alle bollette che bisognava pagare. Invano. Visto che la cassetta delle lettere era piena, ha finito per dirglielo. Si è scusato, ma questo non cambia niente. Non è solo la malattia, o l'età. Settantadue anni non sono poi cosí tanti. Ma lui non fa piú alcuno sforzo. E andrà sempre peggio. Lei non vuole neanche pensarci. È troppo triste.

Preme il pulsante e il letto si gonfia lentamente con un rombo di motore. Le spalle cadenti, le braccia abbandonate lungo il corpo, Jacob la sta ancora guardando, immobile come una statua di sale. Forse crede che sia arrabbiata per via della posta o perché la notte scorsa non l'ha fatta dormire andando in bagno dieci volte. Oppure si chiede cos'altro ancora abbia potuto dimenticare. Un po' di inquietudine darà una scossa ai suoi neuroni, e non gli farà male. D'altronde, se vuole sapere, non ha che da chiedere: "Lenoush, perché dormi qui stasera?" Lei gli risponderà subito, gentilmente, cosí saprà che non è a causa sua. Non è arrabbiata con lui. Se sta male non ne ha nessuna colpa, certo. Vorrebbe solo che facesse un piccolo sforzo. Un piccolo, piccolissimo sforzo.

Quando alza gli occhi, Jacob non c'è piú. Si è ritirato in silenzio. A meno che lei non lo abbia sentito mentre le diceva buonanotte. La porta del bagno si richiude. Si sente di nuovo lo scarico, per la seconda volta in meno di dieci minuti. Lei finisce di gonfiare il materasso, mette lenzuola e coperta, poi esce sulla terrazza.

Attraverso la tenda, vede che la luce in camera è spenta. Probabilmente Jacob dorme. Non ha problemi ad addormentarsi. Si appoggia alla balaustra, accende una sigaretta e guarda lo specchio nero dell'Hudson fra le torri Trump. È una bella notte chiara di metà settembre, piena di stelle. Fa un tiro, aspira profonde boccate, soffia via il fumo. La terrazza è il suo regno, lí non la disturba nessuno, non c'è nessuno a giudicarla. È per la terrazza e la sua meravigliosa vista sul fiume, le torri di Midtown e le falesie del New Jersey, che ha scelto quell'appartamento quando si sono trasferiti a Manhattan sette anni fa. Fa qualche passo indietro, si siede sulla sedia di plastica bianca, spegne la sigaretta e ne accende un'altra. Stasera alla televisione ha sentito dire che mercoledí ci sarà vento forte. Bisognerà portare dentro le piante domani mattina. Domani sera ci sarà Camille, e lei non ne avrà il tempo. Beve un po' di Pepsi e si alza, schiacciando la cicca nel posacenere pieno. Prima di lasciare la terrazza va a prendere sulla mensola nell'angolo la sirena di plastica blu e rosa che fa le bolle automaticamente. La poggia vicino al posacenere. A Camille piacciono da matti, le bolle.

La sua bimba adorata. Ma non è piú una bimba. Una signorinetta di quattro anni. Durante l'estate il suo pancino è scomparso e da quando è tornata dalla Francia non usa piú il passeggino. Era cosí carina, domenica, quando ha preso la mano del nonno e gli ha detto in francese: - Anche tu, Dada: balla! - Vuole cosí bene a suo nonno! Il silenzio di Jacob non le fa paura. Ha un'infinità di cose da raccontargli. È proprio una bambina speciale - un incantevole e gioioso piccolo elfo.

Helen rientra nell'appartamento, va dritta in cucina e preme l'interruttore. Niente sul piano da lavoro. Niente compresse né blister. Apre lo sportello sotto il lavello e controlla la spazzatura. Le confezioni delle medicine sono lí dentro. Non se ne è dimenticato. Tira un sospiro di sollievo, e un sorriso le rischiara il volto. Dunque c'è ancora speranza. Avrebbe dovuto essere piú gentile stasera. Domani mattina si congratulerà con lui.

Va a lavarsi i denti, spegne la luce e si mette a letto. La porta del bagno si apre, poi si richiude. Sarà un'altra notte movimentata. L'oscurità non è totale grazie allo schermo luminoso del televisore e alle luci delle torri Trump. A occhi aperti, guarda la stanza immaginandola tra sei, massimo otto settimane, con i mobili nuovi, sgomberata da questi pesanti divani marrone che erano perfetti per il New Jersey, ma che non può piú sopportare. È contenta specialmente della poltrona a tre posizioni. Ha setacciato tutti i negozi di mobili di Manhattan prima di trovare quella che cercava a un prezzo ragionevole. Jacob avrà finalmente una sedia comoda per leggere, ascoltare la musica e guardare la televisione. Quanto al divanetto, ha una struttura in alluminio cosí leggera che la si può spostare senza sforzo. Non avrà bisogno di chinarsi per spazzarvi sotto.

Helen apre gli occhi. Deve essersi addormentata. Il televisore è ancora acceso, senza audio. Una donna bionda sorride, sfoggiando due file di denti bianchi splendenti, e la macchina da presa si avvicina al suo collo fino a mostrare un piccolo ciondolo di diamante. Solo 29 dollari e 99, è una perfetta imitazione. Sarebbe un bel regalo di Natale per Marie. Helen sente tirare l'acqua e premere l'interruttore una, due, tre volte. Non riesce a spegnere la luce in bagno. Eppure lei ha messo quei dispositivi di plastica fosforescente rossi e verdi sugli interruttori, perché lui sappia dove premere. Durante il giorno ci riesce senza problemi, nonostante le mani che tremano. La notte, il suo problema si aggrava.

Quando riapre gli occhi, sono le quattro e venti. La stanza è silenziosa. Qualcosa deve averla svegliata. Forse lo scarico. Anche lei deve andare in bagno. Le costa fatica tirarsi fuori dal letto gonfiabile poggiato direttamente sul pavimento e alzarsi. Si mette le pantofole. Uscendo dal bagno, entra in camera da letto con passo felpato. Riesce a distinguere nettamente i mobili bianchi nella penombra. La temperatura si è rinfrescata. Jacob ha spinto via le lenzuola e dorme scoperto. Si prenderà un raffreddore, come se tutti i suoi mali non bastassero. Lei si avvicina, prende la coperta e gliela rimbocca. Non può fare proprio niente senza di lei. Neanche dormire. Mentre si allontana, la sfiora il pensiero che il volto di Jacob è straordinariamente bianco. Si volta bruscamente e avanza verso il letto. Lancia un grido.

Ha un sacchetto sulla testa.

Lei crede di avere le allucinazioni. Ma appena i suoi occhi si abituano all'oscurità, riesce a distinguere chiaramente il sacchetto di plastica bianca con la scritta a grandi lettere verdi AS, il sacchetto del supermercato Associated Supermarket al piano terra del loro edificio. Avvolge il viso di Jacob fino al collo. Fa un passo avanti.

- Jacob! Jacob!

Lui non si muove. Lei allunga la mano, afferra uno dei manici e tira. Ma il sacchetto è bloccato sotto la testa. Si ferma, presa dal panico. Ha paura di vedere cosa c'è sotto. E lascia le sue impronte dappertutto... La mano rimane sospesa. Impossibile proseguire il gesto e il pensiero. Troppo minaccioso, troppo spaventoso.

Corre fuori dalla camera, fino al tavolo del computer in salone sul quale è appoggiato il telefono. Nonostante stia tremando, riesce a comporre il 911. Una donna le risponde dopo due squilli.

- Mio marito! Oh, oh, oh! Ha... ha un sacchetto in testa, un sacchetto di plastica!

- È ancora cosciente, signora?

- Non lo so! Stava dormendo, l'ho sentito andare in bagno, io dormivo in salone, mi sono alzata e dato che faceva freddo sono entrata in camera... e aveva un sacchetto... - Scoppia in singhiozzi.

- Signora, si calmi. Mi dica il suo indirizzo. Scandisca bene le parole.

Lei comunica il suo indirizzo, il numero dell'appartamento, quello del telefono.

- Ha tolto il sacchetto? - domanda l'operatrice.

- No! Non posso...

- Lo tolga subito.

- Bisogna che vada in camera, qui sono in salone, io...

- Ci vada. Tolga il sacchetto, torni al telefono e faccia quello che le dico.

Poggia la cornetta vicino al telefono e ritorna in camera. Fa fatica a respirare. Girando intorno al letto, si avvicina a Jacob. Senza guardarlo, mette le mani sul sacchetto, in alto sul capo, prende la plastica tra le dita e tira. Il sacchetto non si muove, bloccato dal peso della testa. E costretta ad afferrare la plastica con tutte e due le mani e a contrarre i muscoli per riuscire a toglierla. Jacob non apre gli occhi. Lei fa il giro del letto per prendere il telefono sul comodino dall'altra parte.

- Ho tolto il sacchetto.

- Respira?

- Non lo so, non lo so, oooh...

- Signora, tenga duro, ho bisogno di lei. Bisogna che gli pieghi la testa all'indietro. Mi sente? Gli metta le dita sotto il mento e gli pieghi la testa all'indietro.

Helen ritorna dall'altra parte del letto. Ancora non riesce a guardarlo. Cosa deve fare? Torna a prendere il telefono.

- Non so, non capisco quello che mi sta dicendo, non ce la faccio, non so...

- Signora, mi ascolti. Non abbia paura. Ha mai fatto un corso di primo soccorso?

- Di che?

- Di primo soccorso. Deve piegargli la testa all'indietro in modo che non ingoi la lingua. Poi, gli tenga chiuso il naso e gli faccia la respirazione bocca a bocca. Poi spinga molto forte sul petto.

E come se quella donna parlasse arabo.

- Mi dispiace, non so, non ce la faccio, oh, la prego...

- Signora, sento le sirene dal telefono. Arrivano i soccorsi. Saranno alla sua porta tra qualche minuto. Gli apra. Va bene?

Le sirene? Helen non sente niente. Solo il silenzio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 48

Novembre 1989. Tutto il passato che Helen si è lasciata alle spalle trema e minaccia di spostarsi, come un grosso blocco di ghiaccio del continente artico che si stacca al momento dello scioglimento delle nevi. Uno dopo l'altro, i paesi dell'Europa dell'Est si destalinizzano e si trasformano pacificamente in democrazie. Un solo paese resiste: la Romania. Il giubilo delle folle dai volti gioiosi e pieni di speranza che Helen osserva alla televisione non oltrepassa le frontiere. Ceausescu tiene il suo paese sotto chiave. Va tutto bene, in Romania. È uno stato di polizia.

Fino al giorno in cui Jacob fa un'esclamazione a colazione. Sta leggendo il «New York Times» che un fattorino depone tutte le mattine in fondo al portico e che Helen va a recuperare in pantofole. Stamattina, gli scalini erano coperti di brina. Per poco non è caduta. Dopo un autunno dolce, si entra ormai nell'inverno. È il 20 dicembre, è normale.

- Senti questa, Lenoush. C'è stato un incidente a Timisoara. Un pastore ungherese dissidente ha perso il lavoro, e i suoi parrocchiani si sono radunati per difenderlo, altra gente si è unita a loro in nome della libertà di religione, ed è diventata una rivolta! La Securitate e l'esercito non sono riusciti a soffocarla e Ceausescu ha inviato gli operai di un'altra regione con i manganelli per ristabilire l'ordine. Si direbbe che le cose comincino a muoversi da noi.

- Oh, aspetta domani. Vedrai cosa escogiterà Ceausescu. Hai preso le medicine?

L'indomani sera sta preparando la cena quando Jacob la chiama dalla camera da letto: - Lenoush!

C'è una tale urgenza nella voce di lui che lei accorre, presa dal panico, con il cuore che batte all'impazzata, un cucchiaio di legno in mano, pronta a chiamare l'ambulanza. Ma lui è tranquillamente seduto sul loro letto, e non ha l'aria sofferente. Indica con il dito il televisore. Lei si volta e si irrigidisce, sbigottita, vedendo i volti in primo piano di Ceausescu e di sua moglie, colei che le ha fatto detestare per sempre il nome Elena. Codoi. Le torna in mente all'improvviso il soprannome che aveva trovato il preside Nenitescu per la signora Ceausescu, la chimica usurpatrice che rubava le ricerche degli altri e non sapeva neanche leggere CO2. Come sono invecchiati! Una cartina della Romania si sostituisce ai volti dei tiranni: le città di Bucarest e Timisoara sono segnate con due punti rossi. La cartina della Romania viene rimpiazzata da una dell'Europa, in modo che lo spettatore americano possa raffigurarsi l'ubicazione del piccolo paese all'estremità orientale del continente europeo, sull'orlo del Mar Nero. Ceausescu con il suo mantello nero riappare sullo schermo, la testa coperta da un cappello grigio, in piedi a un balcone. Helen riconosce l'edificio del Comitato centrale, nel centro di Bucarest. Sta facendo un discorso. È la prima volta che Helen sente parlare rumeno alla televisione nel Nuovo Continente. Ceausescu parla della grandezza della Romania e dei benefici dell'austerità che ha permesso di rimborsare interamente il debito estero: i rumeni dovrebbero sentirsi orgogliosi e ringraziarlo. Propone di aumentare i salari dei lavoratori di cento lei al mese (cinque dollari, calcola Helen). La voce della speaker della Cnn, Christine Amanpur, copre quella del dittatore, per spiegare che si tratta di un'adunata di centomila persone organizzata da Ceausescu per provare alla Romania e al mondo che il popolo rumeno sostiene il suo governo. Ma la manifestazione degenera. A metà del suo discorso, vengono fatti esplodere petardi o colpi d'arma da fuoco in fondo alla piazza. La gente, come uscendo da un sonno profondo, si mette a cantare slogan antigovernativi.

Dietro Ceausescu, sul balcone, qualcuno sta correndo. Si alza una tenda. Ceausescu alza le braccia, tace mezzo minuto, poi grida nel microfono: "Pronto! Pronto!" come fosse al telefono. Helen coglie in sottofondo le parole della moglie, che non vengono tradotte: "Vorbeste-le, vorbeste-le!", "Parla con loro, parla con loro!", grida Elena Ceausescu come se il popolo rumeno fosse una classe di allievi della scuola materna. "Stasi linistiti la locurile voastre!", "Rimanete tranquilli al vostro posto", urla il dittatore come un maestro incapace di controllare un gruppo di ragazzi indisciplinati. A Bucarest è cominciata la rivoluzione.

A New York ci sono le vacanze di Natale. Sei volte al giorno, all'ora del telegiornale, Helen e Jacob si precipitano davanti alla televisione, quella della loro camera da letto o quella del seminterrato. Uno dei due monta la guardia per chiamare l'altro quando si parla della Romania. Sei volte al giorno rivedono le stesse immagini e ascoltano gli stessi commenti, che cambiano di giorno in giorno. La rivoluzione si propaga come il fuoco. Ascoltano gli slogan anticomunisti, anti-Ceausescu. Nella cucina dove Helen passa ore a preparare il banchetto che servirà ai suoi ospiti, le parole le risuonano in testa. "Jos dictatorul!", "Moartea criminalului!", "Noi suntem poporul!", "Abbasso il dittatore!", "Morte al criminale!", "Noi siamo il popolo!" Per la prima volta da quindici anni si sente rumena.

Fin da quando aprono gli occhi, alle sette, vedono lo schermo della televisione che hanno lasciato accesa tutta la notte. Il 22 dicembre il centro di Bucarest viene invaso da centinaia di migliaia di persone. L'esercito entra in città. I poliziotti massacrano a colpi di manganello e sparano. Le forze di sicurezza passano dalla parte dei manifestanti. Il ministro della Difesa si suicida. Assassinato?

Adesso tutti i canali americani, non solo la Cnn e la Nbc, coprono l'avvenimento. La sanguinosa rivoluzione rumena e la fuga del dittatore in elicottero con sua moglie e due collaboratori sono diventate le notizie del giorno. Il pilota dell'elicottero atterra, si rifiuta di procedere oltre. Ceausescu, sua moglie e i suoi fedeli scappano a bordo di un'auto che abbandonano sull'autostrada, come farebbero dei volgari criminali in un telefilm. Si rifugiano in un edificio nei pressi di un'industria siderurgica. Un ingegnere chiama la polizia, che viene a prelevarli rispettosamente e li conduce ai baraccamenti dell'esercito. Là, Ceausescu e i suoi fedelissimi apprendono che sono in stato di arresto.

Il suo volto, che è quello di un vecchio perduto e pazzo con la pelle di un grigio malato, riempie lo schermo del televisore. E sua moglie, la falsa scienziata, quant'è brutta! Una vecchia maestra cattiva.

Il 24 dicembre Helen e Jacob hanno invitato i Popescu, gli amici rumeni che hanno fatto loro scoprire la programmazione informatica, e la sorella della signora Popescu, Amanda Schor. Sono presenti anche Alexandru e la sua amica francese, Marie. Helen ha messo i piatti piccoli sopra quelli grandi. Il suo piú bel servizio di porcellana e i suoi calici in cristallo di Boemia adornano la tavola coperta da una pesante tovaglia ricamata. Ha preparato un cocktail di gamberi, poi serve il piftie di pollo freddo in gelatina, i vol-au-vent dal nome francese - barchette di pasta sfoglia con funghi e capesante -, il caviale di melanzane e i peperoni grigliati; come piatto principale, il ragú di maiale, il semolino al formaggio - la mamaliga - e i sarmalele, i cavoli farciti lunghi da preparare e pesanti da digerire, che Alexandru e Jacob adorano. Vuole far assaggiare all'amica di suo figlio i piatti rumeni. Durante la cena si parla solo di quello che è successo. La conversazione non è mai stata cosí animata. Marie conferma che, quando ha lasciato la Francia quattro giorni prima, la Romania era già l'argomento di scottante attualità. I Popescu, Amanda Schor, Alexandru e Jacob fanno pronostici per il futuro. Il generale Stanculescu ha appena scelto Ion Iliescu come capo del governo. Ci sarà o no un'epurazione? La rivoluzione rimarrà nelle mani del popolo? I vecchi comunisti verranno eliminati? Cosa accadrà ai Ceausescu? Helen ascolta e tace. È pessimista. Teme di vedere la repressione della rivoluzione a partire dall'indomani, e i Ceausescu che riprendono il potere. Nicolae Ceausescu: il volto del male.

Ma il pomeriggio successivo quando, dopo aver rassettato la cucina, lavato e asciugato tutti i bicchieri di cristallo e ripulito le tracce del banchetto, ritorna nella stanza dove la televisione è sempre accesa, si mette una mano sulla bocca e poi chiama Jacob, che sta portando fuori la spazzatura. Mentre dormivano, i Ceausescu sono stati condannati a morte e giustiziati da un tribunale militare. L'esecuzione è appena avvenuta, a Targoviste. La televisione mostra le immagini. Un drappello spara loro addosso. Si sente il rumore secco di un colpo. Ceausescu si accascia. I tiranni sono morti. Seduti sul bordo del letto, Jacob e Helen si tengono per mano e guardano senza pronunciare una parola.

- Chiama Alexandru! - esclama Jacob.

Lei si precipita subito verso la cameretta di fronte alla loro.

- Alexandru! Alexandru!

Non pensa a nient'altro che alla notizia straordinaria che gli porta. Mette la mano sulla maniglia, la gira.

- Non adesso, mamma, - dice la voce calma ma imperativa di suo figlio dall'altra parte della porta.

Lei si ferma di colpo. Si era completamente dimenticata dell'esistenza di Marie.

- Alexandru, hanno ucciso i Ceausescu! - esclama in rumeno. - Li hanno processati stamattina e li hanno appena ammazzati con un colpo in testa! Nicolae ed Elena Ceausescu sono morti!

Sente un mormorio. Sicuramente Alexandru sta traducendo per Marie.

- Arrivo, - dice.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 108

Jacob raccontò brevemente la storia della sua famiglia. I suoi genitori erano emigrati in Palestina nel 1948. Dato che stava per entrare all'università, lui aveva deciso di rimanere a Bucarest per studiare ingegneria. Ma poi avevano chiuso le frontiere. Non vedeva i genitori e i fratelli da dieci anni.

- È terribile! - esclamò Bunica. - E non ha nessuno qui che si occupi di lei?

Il padre di Elena guardò Bunica, intimandole di smetterla col suo cicaleccio, poi riprese con calma:

- Lei è ebreo, Jacob. Noi siamo cristiani. Lei è nato ebreo, noi siamo nati cristiani, nessuno di noi lo ha scelto, ma è cosí. I cristiani e gli ebrei hanno una lunga storia difficile. Io non sono antisemita. Elena le potrà dire che ho molti colleghi e amici ebrei. Il liceo tecnico al quale ho iscritto Elena è frequentato soprattutto da ebrei. Noi viviamo con una famiglia di ebrei. Li rispettiamo. Perciò, non creda che quello che sto per dirle sia contro di lei. Io penso solo a mia figlia.

- Certo. La capisco.

- Vuole renderla infelice?

- Perché dovrei renderla infelice?

- Perché è chiaro che un giorno lei partirà per Israele. Avrà piú possibilità in un paese che appartiene agli ebrei. Vorrà certo rivedere la sua famiglia. Vorrà che i suoi figli conoscano i nonni e crescano con i cuginetti. Non vorrà certo che chiunque possa mostrarli a dito e dire: "Sono ebrei". Lei ancora non lo sa, Jacob, ma io ne sono certo: lei andrà in Israele. Io penso a mia figlia, alla mia Lenoush. Non penso né a me né a sua madre e sua nonna, alle quali si spezzerà il cuore se perderanno la loro unica figlia e nipote. Se fosse per la sua felicità, saremmo pronti a qualsiasi sacrificio. No. Io penso alla mia figliola rumena che è cresciuta in un paese civile e ha frequentato le scuole migliori. È una ragazza di città. È abituata ad andare a teatro e ai concerti. Tutti i suoi amici sono qui. Cosa farà in mezzo al deserto? Quale sarà il suo posto in un paese in cui non si parla la sua lingua e non si pratica la sua religione, quando è proprio la religione il cemento di quel paese?

Appoggiato allo schienale della sedia, Jacob lasciava parlare il padre di Elena senza interromperlo, limitandosi ad aspirare lunghe boccate dalla sigaretta. Lei sentiva nel corpo la tensione che sprigionava da lui. Quello che Elena provava era indescrivibile. In vita sua, non era mai stata cosí infelice. Non riusciva a credere che stava sottoponendo l'uomo che amava a un attacco cosí feroce. Era lei ad aver attirato Jacob in quel trabocchetto, per vederlo mentre si faceva sbranare vivo da suo padre. Ascoltava quest'ultimo e sentiva per la prima volta idee che non le erano mai venute in mente. C'era un paese laggiú, lontano, a est. Israele. Lei non sapeva niente di quel paese, a parte il fatto che era un deserto, come diceva suo padre. Anche se Jacob era nato in Romania, anche se era cresciuto qui, il suo vero paese era Israele. Un giorno, avrebbe voluto riunirsi al suo popolo. Oh, lei non avrebbe esitato a seguirlo in capo al mondo. Non aveva paura del deserto, del caldo, del freddo, degli scorpioni, della mancanza di comodità e della lingua sconosciuta. Ma sua nonna adesso la stava guardando con una tale tristezza, sembrava accusarla di un tale tradimento, che lei non osava piú alzare gli occhi. Che razza di figlia era, dunque? Da quando l'avevano raccolta dopo la morte di sua madre, i genitori adottivi avevano pensato soltanto a una cosa: il suo avvenire. Per tutti quegli anni in cui avevano dovuto spostarsi di città in città, avevano sempre trovato per lei la scuola migliore, il cibo migliore e gli indumenti piú caldi. Era lei la loro priorità. E lo era ancora oggi. Appena sua madre riusciva a risparmiare qualche soldo, comprava uno scampolo di stoffa per un abito nuovo destinato a sua figlia. E lei non avrebbe esitato a spezzare il cuore di genitori simili per un uomo dal quale voleva essere ancora toccata e baciata?

Lei non sapeva da quanto tempo si trovassero nel salone. Adesso parlavano tutti insieme, suo padre, Jacob, sua madre. Sua nonna e sua madre piangevano. Elena era l'unica a non versare una lacrima e a non aprire bocca. Evitava lo sguardo di Jacob. Continuava a tenere gli occhi bassi. Le voci si stavano riscaldando. A Elena non piaceva la piega esplosiva che stava prendendo la conversazione. Jacob aveva innanzitutto tentato di placare le preoccupazioni di suo padre. Gli aveva detto che non aveva alcuna intenzione di emigrare in Israele e che non era un ebreo praticante. Era ebreo di nascita, in realtà, ma quello non gli avrebbe impedito di vivere in Romania, di guadagnarsi lí la vita come chiunque altro, di innamorarsi di una ragazza rumena, di avere una famiglia rumena, di essere rumeno. Le sue parole diventavano sempre piú provocatorie di fronte all'ostilità del padre di Elena, furioso per il fatto che Jacob opponesse resistenza alle sue argomentazioni cosí razionali e umane.

- Le ordino di lasciar stare mia figlia! - urlò alla fine il signor Tiberescu. - Io sono suo padre! Ho un diritto su di lei! Sono ancora io che decido quale sia la cosa migliore per lei! Ha capito?

Jacob impallidí. Si alzò.

- Mi perdoni, signor Tiberescu. Sono sicuro che lei agisce per quello che ritiene sia l'interesse di Elena. Ma non siamo piú nell'Ottocento. In questo genere di questioni, ci sono solo due persone in grado di decidere cosa sia meglio per loro: sua figlia e io. Se Elena mi chiede di lasciarla stare, non mi rivedrà piú.

Tutti voltarono la testa verso di lei. Elena era sicura che sarebbe svenuta. Quelle parole erano quelle dell'eroe che si trafigge da solo con la propria spada per non essere ucciso dall'avversario.

- Elena! Diglielo tu di lasciarti in pace! - urlò suo padre fissandola.

Sua madre piangeva rumorosamente e con una mano si teneva contro il naso un fazzoletto ricamato già intriso di lacrime, e si portava l'altra al petto come se non riuscisse piú a respirare. Sua nonna la fissava con i suoi occhi tristi. Tutta rattrappita, prostrata, Bunica aveva un'aria cosí anziana e vulnerabile che sembrava fosse invecchiata di dieci anni in un'ora.

- Elena, abbiamo mai fatto qualcosa che non fosse per il tuo bene? Come puoi torturare cosí tuo padre che ha fatto tutti questi sacrifici per te? - domandò sua madre con un tono teatrale.

- Oh, Elena, Elena! - singhiozzava sua nonna.

Lei era paralizzata. Aveva l'impressione di essere sull'orlo di un abisso dove la terra sprofondava ai suoi piedi. Voleva resistere, aggrapparsi a qualcosa, ma non c'erano rami intorno a lei e la terra scivolava ineluttabilmente, trascinandola verso il vuoto. Si mise le mani sulle tempie. La testa le faceva cosí male che era certa le sarebbe esploso il cervello. Era esausta e voleva solo una cosa: cancellare quel pranzo, gli ultimi tre mesi, la festa dove aveva conosciuto Jacob. Ritornare ai tempi in cui tutto andava bene. Elena si alzò.

- Vattene, per favore, - disse con voce flebile.

Corse in camera sua. Jacob si stava già dirigendo verso la porta d'ingresso, da solo. Lei lo raggiunse sul pianerottolo mentre stava per scendere le scale.

- Jacob!

Lui alzò la testa e nei suoi occhi apparve un tale lume di speranza e di gioia che la raggelò. Vide i quattro volumi di Guerra e pace che lei teneva in mano. Il lume si spense.

- Non lo hai ancora finito, Elena. Tienilo.

Lei scosse la testa porgendogli i libri, incapace di articolare un suono, supplicandolo ín silenzio di prenderli. Lui obbedí. Lei non riuscí a sopportare l'espressione dei suoi occhi. Fece dietrofront e rientrò, chiudendo la porta dietro di sé. Sentiva un dolore acuto, come se le stessero schiacciando la testa tra due pinze d'acciaio fino a farle perdere conoscenza.

| << |  <  |