Copertina
Autore Marina Cvetaeva
Titolo Le notti fiorentine
EdizioneVoland, Roma, 2011, sírin classica 4 , pag. 88, cop.fle., dim. 10,5x15,5x0,7 cm , Isbn 978-88-6243-099-9
OriginaleNeuf lettres avec une dixième retenue
CuratoreSerena Vitale
LettoreGiangiacomo Pisa, 2011
Classe narrativa russa
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Indice


Introduzione di Serena Vitale                   13
Nota di Serena Vitale                           42

Le notti fiorentine

Lettera prima                                   47
Lettera seconda                                 50
Lettera terza                                   54
Lettera quarta                                  58
Lettera quinta                                  60
Lettera sesta                                   61
Lettera settima                                 65
Lettera ottava                                  69
Lettera nona                                    74
Lettera decima e ultima, non restituita         77
Lettera undicesima, ricevuta                    78
L'ultima delle notti fiorentine                 81

Postfazione, ovvero: faccia postuma delle cose  84


 

 

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Pagina 18

Il 15 maggio 1922, in una mattina assolata, Marina Cvetaeva sbarcò alla stazione di Charlottenburg insieme ad Alja (Ariadna), che aveva allora dieci anni. "Esistono due tipi di partenze: partire da e partire per. Preferisco il primo. Θ un gesto nobile: la donna, come io la amo. Non partenza: volo... Tutto fa crescere l'anima — soprattutto le perdite..."; Marina volava via dalla Russia sovietica, da un regime odiato perché vittorioso, dal fantasma di Irina, la figlioletta morta di stenti; perdeva i pochi e amatissimi amici degli anni post-rivoluzionari — anni di fame, privazioni, eppure di gioiosa bohème e straordinario fervore creativo. Ma andava anche verso qualcosa: qualcuno. Alle otto di sera del 1° luglio 1921, dopo quattro anni di separazione e due di assoluta ignoranza sul suo destino, aveva ricevuto una lettera del marito, Sergej Efron. E, di colpo, nel quaderno: "Serλženka! La felicità non uccide, è vero, ma impietrisce. Ho appena ricevuto la vostra lettera... Non so da cosa cominciare: da ciò con cui finirò — il mio amore per voi..." Messaggero della Buona Novella — Efron era vivo e, come altri reduci dell'Armata Bianca, dopo la disfatta e la fuga attraverso la Turchia, aveva trovato asilo in Boemia — era stato Erenburg; per Marina e Sergej l'appuntamento era fissato a Berlino. E fu Erenburg ad accogliere Marina e Alja sulla soglia di una pensione in Pragerplatz, a mettere a loro disposizione la stanza in cui abitava con la moglie. Lì venne presto sistemato lo sparuto bagaglio delle due nuove arrivate: un bauletto coi manoscritti, una valigia, le Cose Preziose ("portamatite col ritratto di Tučkov IV, calamaio col tamburino, piatto col leone, portabicchiere di Serλža, ritratto di Alja, nécessaire per cucire, collana di ambra, valenki nuovi di Alja..."), il plaid di felpa, ultimo regalo del professor Cvetaev. A Berlino — profumata di arance, cioccolata e buon tabacco, confortevole, sazia, soddisfatta, "non realizzata perché non amata, non amata perché prussiana dopo la Russia, borghese dopo la Mosca rivoluzionaria" — anche la Cvetaeva sedeva ai tavoli della Pragerdiele, il locale pacificamente occupato dall' intelligencija russa, dietro una tazza di caffè o, più di rado, un boccale di birra. Si potevano vedere la sua folta e già celebre frangia agitarsi a ogni movimento del capo, quasi pronta a prendere il volo, il suo primo vestito nuovo dopo molti anni, stile bauernkleid: cotonina, busto stretto, gonna appena arricciata — tributo alla mitica immagine di Bettina von Arnheim. Il fumo di un'eterna sigaretta nascondeva ai più i due sguardi degli occhi di Marina: uno condiscendente, appena ironico, che restava in superficie, l'altro, riservato a pochi, che dell'interlocutore scrutava l'anima, illuminandosi quando indovinava l'essere dietro l'apparire, la profondità dietro la superficie.

Tramite Erenburg, Marina fece la conoscenza di "Gelikon" (così tutti gli scrittori russi chiamavano familiarmente Abram Višnjak) all'indomani dell'arrivo a Berlino. Il giovane (ventisette anni) editore aveva in altissima considerazione l'opera cvetaeviana, si preparava a pubblicare le poesie di Mestiere, e la Cvetaeva andava spesso a trovarlo, con la figlia, nel suo ufficio, al 7 di Bambergerstrasse. All'epoca Višnjak era tormentato da una grave crisi nei rapporti con la moglie, infatuata di un altro uomo (lo stesso Erenburg, sembra); quando restavano soli, raccontava alla scrittrice la propria amarezza, le chiedeva consigli, aiuto. Tanto bastò per incendiare mente e cuore della donna che già allora, come nel'36, avrebbe potuto scrivere: "E finalmente ho trovato / chi mi è necessario: / qualcuno ha bisogno di me / come dell'aria..." La sua prima lettera a Gelikon è del 17 giugno: nel frattempo era arrivato e ripartito Sergej Efron, Marina e Alja si erano trasferite in due minuscole stanzette di un albergo al 9 di Trautnerstrasse. Gli spaziosi e deserti viali della Berlino notturna con le sue "panchine vagabonde", la redazione di Elicona e i tavoli della Pragerdiele furono testimoni della relazione fra la poetessa e il suo editore — breve storia destinata a concludersi, per la Cvetaeva, con la prima, drammatica scoperta dei limiti dell'amore (e dell'amato).

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Pagina 35

"Non amo l'amore. Amo l'amicizia: la montagna."

Nell'orografia cvetaeviana il cielo della "passione fraterna" è sempre ripidissimo, declive: rupe scoscesa, roccia a picco. La scalata lungo superfici impervie, scabrose, è sconfitta della liquidità informe — del mare-amore. A Višnjak Marina rimprovera: "Amare ciò che è caldo, liscio, muto — bel merito! Meglio sarebbe stato restare nel ventre materno..."

I rari elogi di Marina, invece, sottintendono sempre la "divinità delle montagne"; la "gioia goethiana delle vette". Ad Anna Teskovà: "Siamo persone della stessa razza, fuori di qualsiasi metafora: montanare. Persone delle montagne. Ruvide..." La moda di Marina: partita da Berlino, implorava gli amici lì restati: "Se riuscirete a strappargli l'onorario... un mio sogno appassionato: Bergschuhe tedesche..."; "Se è possibile, compratemi da Salamander un paio di Bergschuhe, numero trentotto (gialle, grezze, tacco piuttosto basso...)." La cosmogonia di Marina: "...Isaakian raccontò che quando Dio creò il pianeta della poesia, ad alcuni poeti destinò la terraferma, ad altri — l'acqua... E subito aggiunse che la terraferma senza acqua è deserto, e l'acqua senza terra, in fin dei conti, è oceano. Alla Cvetaeva piacque questa formula della creazione del mondo poetico, e in seguito la ricordò e la citò spesso trovandola straordinariamente adatta a sé, ma non come a un deserto — come a una roccia solitaria..." (Ariadna Efron)

La montagna — la vetta — è il luogo di quell'eccesso, di quel limite estremo da cui parte la voce della Cvetaeva, che inizia sempre dalla nota più alta, dall'epifania dell'esclamazione, dall'acme del sospiro e dell'urlo, e non consente pause, discese, incalzando il lettore sempre più su, più su. Agli occhi dello scalatore la triviale mappa della realtà si rivela più netta, concreta, dettagliata, perché la voce di Marina "sa bene sopra cosa si eleva, sa cosa c'è giù (meglio, sa cosa giù non è dato)..." (Iosif Brodskij)

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Pagina 50

LETTERA SECONDA


19 giugno, di notte

Voi liberate in me il mio essere femminile, il mio essere più oscuro e recondito. Non per questo vedo peggio. Tutta la mia chiaroveggenza intatta con, in più, il beato diritto alla cecità.

Mio tenero (che mi fa...), con tutto il mio essere indivisibilmente doppio, doppiamente e indissolubilmente uno, con tutto il mio essere di spada a doppio taglio (dotata di una rassicurante virtù: ferire me soltanto) io voglio in voi, in-voi, come nella notte. "Strofe e sogni" — più semplicemente: leggere e dormire. (Le parole che voi lasciate cadere, io le conservo tutte.) Quanti hanno visto in me soltanto delle strofe!

Tutto con l'anima, amico, e tutto — indietro, nell'anima. (Un getto d'acqua che si autoalimenta. Le fontane del Re Sole.) La pelle come tale non esiste. Voi, voi lo sapete, con il vostro fiuto animale, fiuto geniale. Pelliccia, manto — non solo delle bestie, ma anche delle piante: pino, abete, il mio amatissimo ginepro...

E se debbo dirvi in colori, voi siete bruno. Come i vostri occhi.

Caro, non ho mai scritto a nessuno lettere simili (da quando tengo in mano la penna, — no, da quando la penna mi tiene, — no, dal tempo lontano delle mie piume d'angelo — sempre, a tutti. E tuttavia — credetemi).

Uomo, io so tutto, vi so superficiale, leggero, vuoto, ma la vostra animalità profonda mi tocca più in profondità di altre anime. Sapete così bene aver freddo, aver caldo, aver fame, aver sonno. Senza il vostro vuoto c'è il vuoto che possiamo immaginare soltanto pieno di astri o di atomi, e cioè popolato di mondi viventi. Siate vuoto finché lo vorrete, finché lo potrete — io sono la vita che non patisce il vuoto.

Bambino mio (permettetemi di chiamarvi così...), mio piccolo ragazzo! Se a volte non vi rispondo direttamente, è che ci sono parole che non devono essere pronunciate tra certi muri, che nemmeno l'aria, tra certe pareti, può tollerare. I muri, invece, sopportano tutto e non soffrono di nulla, ed è l'unica cosa che io non posso soffrire, e sono loro che più mi fanno soffrire. Giacché, sappiatelo: quella che voi ritenete creatura di parole per eccellenza, nelle grandi ore della sua vita è una spartana con il suo volpacchiotto. (Lasciatemi scherzare un po': con tutta una cucciolata di volpacchiotti!)

Siete iperamato (iperalimentato d'amore) nella vita? Probabilmente sì. Ma quello che so (doveste anche sentirlo per la millesima volta!) è che mai nessuno (nessuna!) vi ha così... Ogni millesima volta ha la sua milleunesima. Così, per me, non è una misura di peso, né di quantità, né di durata, è un valore di qualità: di identità. Io non vi amo né tanto, né a tal punto, né fino a... — io vi amo così. (Non vi amo tanto, vi amo come.) Oh, molte donne vi hanno amato e vi ameranno con maggior forza. Tutte — di più. Nessuna — così. Se il mio amore resta unico nelle vite, è solo per la sua doppia identità: con l'amato e con me stessa. Per questo non viene mai preso per amore.

"Amatemi grande, amatemi bello, amatemi diverso!" Per quanto mi riguarda, ho sempre voluto e addirittura preteso di essere amata come sono — per ciò che sono — perché sono. Non per ciò che, secondo voi, potrei, dovrei, avrei dovuto essere. Che si ami me e non l'essere ideale e falso partorito dalla fantasia di un poeta di terz'ordine e dell'ultima ora che può essere così folle d'amore solo se non è poeta nato, pensatore nato. Ho sempre preferito essere fotografata, riflessa, ripetuta, maltrattata da quell'indifferente che è l'obiettivo, piuttosto che ritratta — cioè ben trattata, idealizzata, animata, da un pittore di cui non sono neanche sicura che abbia un'anima, e che spesso è solo una mano mossa da una sola — sempre la stessa — mania.

Non trattatemi peggio di quanto la natura abbia fatto — e di quanto lo specchio non faccia — è tutto quello che, in piena umiltà, io chiedo al pittore e all'amante. "Ogni volto non è che un punto di partenza." Giusto, ma avete un'idea della mia (della sua) direzione? Di quello che sarebbe realmente stato di me, di dove sarei realmente arrivata, se... Riuscite a seguirmi — voi che mi volete superare per indicarmi la direzione giusta? Un grande maestro può creare l'ideale: ciò che doveva essere, la realtà in potenza. Alta realtà. Gli altri, i petits-maξtres dell'arte e dell'amore, possono fare (dipingere, amare) soltanto dal vero. E voi — voi fate me, se potete.

Ho sempre preferito essere conosciuta e odiata piuttosto che inventata e amata. Fissatemi con tutta la forza del vostro sguardo, oppure andate a 'creare' una donna qualunque, la vicina di casa, che potrà esservi solo riconoscente e si riconoscerà in ognuno dei vostri 'ritratti' perché lei — lei non si conosce, per il semplice motivo che in lei non c'è nulla da conoscere. Θ il nulla che si presta a tutte le forme. Quanto a me, sono già creata, ed è stato Dio a crearmi. Θ sufficiente un'unica creazione. Θ sufficiente quel Creatore.

Io mi identificherei unicamente nell'amore di chi mi avesse scelta fra tutte le creature passate, presenti, future, maschili, femminili — creature dell'acqua, del fuoco, dell'aria, della terra, del cielo. E fra tutte le altre ancora, giacché esistono altri pianeti!

Così sono io. Se vi do pena — perdonatemi di essere.

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Pagina 74

LETTERA NONA


9 luglio, mezzanotte

Per la troppa attenzione (tensione) mi è venuto di colpo un sonno tremendo. Spiavo i vostri passi, non volevo potermi dire, un giorno, che vi avevo mancato — nel triplamente triste senso di: mancare un'occasione, mancare di rispetto, e ancora come una madre manca al proprio figlio — anche una sola volta, per mia colpa. Mi sono stesa in terra, la testa poggiata sul gradino del balcone, ben al liscio, ben al duro, per non addormentarmi. Alzo gli occhi, i due battenti della porta e tutto il cielo. Rumore di passi, molti passi, presto ho smesso di ascoltarli, da qualche parte il suono di uno strumento — presto ho sentito la mia bassezza (quella di tutti questi ultimi giorni con voi — oh, senza offesa!: io ero vigliacca, voi eravate voi). So di non essere così, è soltanto perché cerco di vivere. Vivere vuol dire tagliare e infallibilmente sbagliare e poi rattoppare — e nulla tiene (e nulla ti appartiene, e non si tiene più a nulla — perdonatemi questo triste, grave gioco di parole).

Ogni volta che cerco di vivere mi sento una misera sartina che non confezionerà mai niente di bello, che riesce soltanto a far guasti e ferirsi, e che lasciando all'improvviso tutto — forbici, pezze, rocchetto — si mette a cantare. Davanti a una finestra dietro la quale piove in eterno.

Sono ancora tutta piena di quel cielo vuoto. Lui passava, io restavo lì, e sapevo che, così incollata alla terra, sarei passata, mentre lui, passando, sarebbe restato, durato nel tempo. Il cielo passa eternamente, incessantemente — su me che passo continuamente, incessantemente. Io: tutte quelle che sono rimaste immobili e hanno guardato così, che resteranno immobili e guarderanno così. Lo vedete, anche io sono 'eterna'.

La me di questa mattina? Non la conosco neanche. Potrei forse usare sotterfugi, giocare d'astuzia? Quello che posso, io, è gridare — sì!, come un bambino grida: voglio venire da te!, è lanciare le mie braccia una a Oriente l'altra a Occidente, ma più... ma meno... Θ la vita, questa violentatrice d'anime, che mi forza a recitare questa farsa.

Raccogliere, in ginocchio, i pezzi della coppa rotta? No, no e no. Le mani dietro la schiena. E la schiena ben dritta.

Come potrei chiedere — foss'anche il Regno dei Cieli! — in una simile realizzazione, a un tale prezzo? Amico mio, deve esserci un cielo anche per l'amore. Diverso dal baldacchino di un letto. L' arc-en-ciel. Amico, stasera non siete venuto perché dovevate scrivere (ai vostri cari). Cose del genere, ormai, non mi fanno più male, mi ci avete abituata, voi e tutti, giacché anche voi siete eterno: innumerevole (come l'altra io, sulla terra e in cielo). Θ sempre lo stesso voi che non va verso la stessa me che sempre lo aspetta. Quando un giorno avrete tempo e rileggerete i miei taccuini — non solo per le loro formule e storielle — quando li rileggerete per ritrovarmi, viva, in quelle pagine, vedrete il nostro incontro sotto una nuova luce.

Gli esseri umani mi hanno sempre trattato al loro solito, mentre io mi sentivo al mio insolito. E per questo che non giudico mai nessuno.

Considerato come persona intima, mi avete fatto soffrire molto, considerato come estraneo — mi avete testimoniato soltanto bontà. Non vi ho sentito né intimo né estraneo, ho combattuto dentro di me per entrambi, dunque contro entrambi.

Tutto questo finirà presto, lo sento già che se ne torna sotto le palpebre, dentro le labbra. Non perderete nulla, le poesie resteranno. La vita si occuperà di mettere a posto le cose, non sarete condannato a restare crocefisso tra i vostri e 'l'altra' (che Dio e il vostro senso della misura — quello che mi ha fatto soffrire così smisuratamente! — mi perdonino l'enormità dell'immagine).

Caro! Al di là di tutte le gentilezze, carezze, tenerezze, piccolezze, bassezze — mi siete caro. Ma — semplicemente — con voi non avevo più di che respirare.

So che a una data ora della vostra vita (quando voi non avrete di che respirare, come una bestia soffocata dal proprio pelo) — abbandonando le amicizie maschili, gli amori femminili e le reliquie famigliari, verrete da me — per trovare la vostra anima immortale.

E ora buonanotte. Bacio la vostra testa bruna.

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