Autore Stig Dagerman
Titolo La politica dell'impossibile
EdizioneIperborea, Milano, 2016, n.262 , pag. 138, cop.fle., dim. 10x20x1 cm , Isbn 978-88-7091-462-7
OriginaleEssäer och journalistik
EdizioneNorstedts, Stoccolma, 1958
CuratoreFulvio Ferrari
PrefazioneGoffredo Fofi
TraduttoreFulvio Ferrari
LettoreCristina Lupo, 2016
Classe politica , narrativa svedese , critica letteraria












 

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Indice


Prefazione di Fulvio Ferrari                     7


Cuori ardenti                                   21

La nuova reazione                               27

Lo scrittore e la coscienza                     31

Il mio punto di vista sull'anarchismo           49

Pessimismo: coraggio o moda?                    59

Il significato dei classici                     63

Il compito della letteratura
    è mostrare il significato della libertà     67

Il caso Petkov                                  71

Metterci la firma                               79

Il movimento dei cittadini del mondo            83

Quasi alla metà del secolo                      87

Una promessa solenne                            89

Contributo al dibattito Est/Ovest               91

Benvenuti a Sheffield                           95

La dittatura del lutto                         103

Il radioso avvenire...
    Risposta a una maturanda                   109

Passeggiando per le strade di Klara            115


Postfazione di Goffredo Fofi                   127


 

 

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Pagina 21

Cuori ardenti
(1943)



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Pubblicato nel dicembre 1943 sulla rivista dei giovani anarchici Storm.

I versi citati all'inizio dell'articolo sono tratti dalla poesia Revolusjonens røst (La voce della rivoluzione) del norvegese Rudolf Nilsen (1901-1929).

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Come dice il poeta:

    Datemi cuori ardenti,
    che mai si perdano nel dubbio,
    ma nella vittoria e nella sconfitta
    conservino invulnerabile il sorriso.

Cuori ardenti. A chi interessano più i cuori, ormai? E i poeti? Sì, certo, ha bisogno di un cuore sano e ben allenato l'efficiente pilota di bombardieri che si inerpica lassù nel cielo con il suo carico di morte, ed è evidente che chi si appresta, con il gentile supporto della mitragliatrice, a infilare piccole pallottole di piombo nel petto e nello stomaco altrui, non può essere dotato di uno strumento debole, lì in alto a sinistra, nel suo corpo. Ma ardente? No, amico mio, in tal caso saresti stato scartato alla visita medica come un mezzo cadavere e poi solo per sentito dire avresti conosciuto dall'interno il cratere aperto da una granata, la crudele realtà di bombardieri dentro alle nuvole spumose, o il piccolo – o forse non tanto piccolo – inferno sul ponte di una nave quando l'acciaio di mostri nemici gioca alla falce della morte, sbreccia le silhouette e si avvicina sempre più a tutto ciò che vive a bordo.

E pensi come sarebbe andata, cara signorina Johansson, se lei, sì, proprio lei, avesse avuto un piccolo cuore ardente lì, sotto il fresco rigonfiamento della camicetta. Forse non sarebbe riuscita a starsene seduta com'è adesso, con la fronte graziosamente corrugata, intenta a stenografare così impeccabilmente sul suo block notes a quadretti quanto le dice il Signor Direttore. Forse non sarebbe nemmeno qui, signorina Johansson. Forse le cose sarebbero andate altrimenti. Chissà, chissà. I cuori ardenti sono talmente imprevedibili. Forse è meglio così. Forse è meglio che il suo cuore si sia raffreddato per tempo, signor bombardiere, signor soldato tuttofare, e anche il suo, piccola signorina con la cartella. Del resto ci sono tante altre cose che bruciano, anche se il cuore si è spento.

[...]


«I teologi parlano e cercano di farsi capire nel frastuono del fuoco di sbarramento, tra i cingoli della guerra che avanzano inesorabili. E noi, i giovani, ascoltiamo, e cerchiamo di salvaguardare quei valori che consideravamo i più alti, li difendiamo con le nostre parole, ci mettono in mano armi perché possiamo batterci per essi. E ci ritroviamo con il nostro amore per il prossimo e per tutto ciò che è vivo, il cielo è azzurro e alto, la rugiada brilla sull'erba dei prati. Ma la nostra vista è annebbiata dal bordo di un elmetto, grigio come una tempesta d'autunno, non vediamo i fiori dei prati né gli uccelli, perché cerchiamo di individuare il nostro prossimo attraverso un mirino, per poter aprire un foro in quella meraviglia che è un petto vivo, un cuore pulsante.» Questo scriveva tempo fa un ragazzo, un amico, su una rivista giovanile. Era un liceale svedese cui erano stati risparmiati, se non l'elmetto d'acciaio, almeno gli esercizi con la baionetta e le raffiche di spari contro bersagli umani vivi.

Molte altre cose ci sono state risparmiate. A noi non è capitato che di colpo sulle scale risuonassero passi di stivali, e pugni di ferro bussassero con violenza alla nostra porta e soldati stranieri dalla voce dura ci tirassero giù dal letto per trascinarci alle camionette in attesa. E non ci è capitato che mani brutali ci spingessero in celle anguste dalle porte pesanti e i muri spessi, né ci obbligassero a passare nelle camere di tortura, abbiamo ancora tutte le nostre unghie e nessun segno di frustate ci lacera la schiena. E non uno di noi, neppure uno, è stato portato via nell'ora nebbiosa dell'alba, messo di fronte al plotone d'esecuzione e riempito di piombo. No, noi siamo fortunati, o per lo meno ci è andata bene, forse troppo bene. Forse non siamo neppure in grado di apprezzare il nostro destino tranquillo. Forse abbiamo addirittura appreso con una certa freddezza i resoconti delle sofferenze altrui, abbiamo scorso con sguardo indifferente le notizie e pensato: Sì, certo, è orribile, ma non mi riguarda, non è a me che tocca.

No, non è te che tocca, e tuttavia tocca anche te. Sei tu a essere stato inseguito per le vie di Oslo da poliziotti armati, è alla tua vita che mirano ed è la tua casa che sorvegliano. Te e la tua esistenza, perché... Perché? Be', perché hai un cuore, certo che ce l'hai. E perché sei giovane, certo che lo sei. E perché presto tornerà la luce, sicuro che tornerà. Ecco, per tutte queste ragioni, il cuore, la giovinezza e la luce, viviamo nella nostra sicurezza la vita dei perseguitati e aspettiamo con tutto l'ardore della nostra anima il giorno in cui i cuori si infiammeranno, in cui saranno gli stessi cuori ad ardere al di là di tutte le frontiere. Quel giorno il poeta li avrà i suoi cuori ardenti, su cui il dubbio non avrà alcun potere, e che affronteranno la sconfitta con lo stesso invulnerabile sorriso della vittoria finale. Quel giorno verrà, verrà presto. Lo sappiamo. Lo sentiamo nei nostri cuori. I nostri cuori ardenti.

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Pagina 49

Il mio punto di vista sull'anarchismo
(1946)



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Il saggio è stato pubblicato su 40-tal (numero 2 del 1946). La rivista aveva chiesto un contributo su questo tema, oltre che a Stig Dagerman, allo storico e pubblicista socialista Gunnar Gunnarson (1918-2002) e al poeta Erik Lindegren (1910-1968).

L'espressione «nemico dell'economia di piano» fa riferimento alla campagna condotta negli anni del dopoguerra dagli ambienti industriali svedesi contro la politica economica del governo socialdemocratico e nota con l'acronimo PHM (Planhushållningsmotstand: Opposizione all'economia di piano).

Harry Martinson (1904-1978), scrittore e poeta svedese, premio Nobel per la letteratura nel 1974, partecipò insieme alla moglie scrittrice Moa al Congresso degli scrittori tenutosi a Mosca nel 1934.

Upton Sinclair (1878-1968) è stato un prolifico scrittore americano di ispirazione socialista.

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Il giudizio dei suoi avversari riguardo alla pericolosità ideologica dell'anarchismo dipende da quanto sono armati e da quali possibilità legali hanno di fare uso delle loro armi. In Spagna, negli anni 1936-1939, l'anarchico veniva considerato talmente pericoloso per la società da essere esposto a un fuoco incrociato: non solo riceveva in petto le raffiche dei fucili tedeschi e italiani, ma veniva anche colpito alle spalle dai proiettili russi dei suoi «alleati» comunisti. L'anarchíco svedese, invece, viene visto in certi ambienti della sinistra, soprattutto marxisti, come un romantico smarrito, una specie di idealista nemico dell'economia di piano e con profonde radici liberali. Più o meno consapevolmente si cancella il fatto significativo che l'ideologia anarchica, unita alla teoria economica dell'anarco-sindacalismo, ha preso forma, nella Catalogna della guerra civile, in un sistema di produzione perfettamente funzionante, basato sull'uguaglianza economica, ma non sul livellamento intellettuale: cooperazione pratica senza costrizione delle opinioni, efficace coordinamento delle volontà senza decapitazione della libertà individuale, coppie di opposti che, purtroppo, sembrano diventare sempre più popolari in forma di sintesi. Per silurare fin dall'inizio un certo tipo di critica antianarchica, esercitata da persone che scambiano spesso la propria sicura poltroncina in redazione per una polveriera e sulla base di qualche corrispondenza dalla Russia ritengono di detenere il monopolio delle conoscenze sulla classe operaia e le sue condizioni, mi atterrò qui di seguito a quella particolare forma di anarchismo che, soprattutto nei paesi latini, è nota con il nome di anarco-sindacalismo e che proprio in quei paesi si è dimostrata uno strumento particolarmente efficace non solo per conquistare libertà prima soffocate, ma anche per procurarsi il pane.

Quando si sceglie un'ideologia politica – strada maestra per raggiungere un assetto sociale che assomigli almeno un po' agli ideali sognati prima di rendersi conto della sconfortante inaffidabilità di ogni bussola umana – un fattore è sempre la constatazione del fallimento di ogni altra possibilità: la misura del fallimento dei nazisti, dei fascisti, dei liberali, degli aderenti a qualsiasi altra corrente borghese e dei socialisti autoritari di ogni tendenza è data non solo dalla quantità di rovine, di morti e di invalidi nei paesi direttamente coinvolti nella guerra, ma anche dal numero di nevrotici, di malati mentali e di individui disarmonici in paesi apparentemente risparmiati dal conflitto, come la Svezia. La presenza di stridenti disuguaglianze nella distribuzione del cibo, dei vestiti e delle possibilità di istruzione non è l'unico criterio per giudicare la mostruosità di un sistema sociale. Bisogna anche affermare che un'autorità politica che incute terrore ai governati deve essere considerata con sana diffidenza. Sistemi di terrore come il nazismo rivelano immediatamente la propria natura con una sfrenata violenza fisica, ma se si riflette solo un po' più a fondo ci si rende conto che anche i sistemi statali più democratici esercitano sulla gente comune una pressione e incutono un'angoscia a cui non c'è romanzo horror o poliziesco che possa fare concorrenza.

[...]


Il risarcimento per la perduta libertà d'azione che, in una società guidata dallo stato, viene offerto a ogni scadenza elettorale all'individuo è di per sé insufficiente e, naturalmente, lo diviene sempre di più quanto più la capacità di iniziativa imprigionata viene compressa. I fili invisibili che in una comunità grande e complessa connettono tra di loro, al di sopra delle nubi, lo stato e l'alta finanza, i governanti e chi li manovra, la politica e il denaro, generano nella parte non iniziata dell'umanità un fatalismo che né gli uffici statali per l'edilizia né i romanzi fiume di Sinclair riescono a combattere.

Si può allora decisamente affermare che lo stato democratico della nostra epoca presenta un tipo del tutto nuovo di disumanità, la cui natura non è migliore di quella dei regimi autocratici del passato. Il principio divide et impera non è stato abbandonato, ma l'angoscia creata dalla fame, dalla sete, dall'inquisizione sociale è stata, almeno in linea di principio, sostituita come strumento di dominio nello stato del benessere dall'angoscia dovuta all'incertezza, all'impossibilità dell'individuo di decidere il proprio destino nelle questioni essenziali. Incuneato nel blocco dello stato, l'individuo ha costantemente la dolorosa sensazione di un'impotente incertezza, come una scaglia di corteccia in un gorgo o un pensante vagone ferroviario attaccato a una locomotrice lanciata a tutta velocità, privo di qualsiasi possibilità di comprendere i segnali mentre si avvicina rapidamente agli scambi.

[...]


Un'obiezione più seria è che la popolazione umana non avrebbe le qualità necessarie per organizzarsi in una società anarchica. Questo può essere vero fino a un certo punto: l'educazione alla paralisi e il blocco di ogni iniziativa hanno avuto conseguenze devastanti su un pensiero politico non convenzionale (ed è per questa ragione che ho scelto di esporre qui la mia visione dell'anarchismo soprattutto attraverso negazioni), ma dubito che la fede nell'autorità e nel centralismo sia connaturata all'essere umano. Ritengo piuttosto che un nuovo modo di pensare (che in mancanza di meglio chiamerò primitivismo intellettuale), capace di radiografare con un'acuta analisi le importanti convenzioni che non sono state prese in considerazione dal primitivismo sessuale, sia in grado con il tempo di fare proseliti tra tutti quelli che, a prezzo tra l'altro di nevrosi e di guerre mondiali, vogliono far quadrare i loro piccoli calcoli con i risultati indicati da Marx, da Adam Smíth o dal papa. Forse questo presuppone a sua volta una dimensione letteraria completamente nuova, le cui leggi varrebbe indubbiamente la pena di indagare.

In quanto anarchico (e in quanto pessimista, nella misura in cui è consapevole che il suo contributo potrà forse avere solo un significato simbolico), lo scrittore può intanto attribuirsi in buona coscienza il modesto ruolo del lombrico nel terriccio della cultura che altrimenti si disseccherebbe nell'aridità delle convenzioni. Essere il politico dell'impossibile in un mondo dove sono troppi i politici del possibile è, nonostante tutto, un ruolo che personalmente mi può soddisfare come essere sociale, come individuo e come autore del Serpente.

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Pagina 71

Il caso Petkov
(1947)



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Il caso Petkov è il testo del discorso pronunciato da Stig Dagerman durante una manifestazione organizzata a Stoccolma il 9 ottobre 1947 per protestare contro l'esecuzione dell'uomo politico bulgaro Nikola Petkov (1893-1947). Il testo è stato quindi pubblicato l'11 ottobre dello stesso anno sul quotidiano anarchico Arbetaren. Oppositore del nazismo e del fascismo negli anni tra le due guerre e durante la Seconda guerra mondiale, Petkov divenne leader del partito contadino Unione nazionale agraria bulgara nel 1941. Sotto la sua guida il partito entrò a far parte del Fronte patriottico insieme al Partito comunista e partecipò al primo governo di coalizione dopo la fine della guerra. La visione di Petkov della democrazia parlamentare lo mise però ben presto in conflitto con i comunisti, un conflitto che condusse al suo arresto con l'accusa di spionaggio. Petkov venne giustiziato il 23 settembre del 1947.

Il «famoso scrittore inglese» cui si fa riferimento è – come dice Dagerman stesso qualche riga più sotto – Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), che in Ortodossia (1908) scrisse la celebre frase: «L'uomo che uccide un uomo, uccide un uomo. L'uomo che uccide se stesso, uccide tutti gli uomini. Per quanto lo riguarda, distrugge il mondo.»

Georgi Dimitrov (1882-1949) fu presidente dell'Internazionale comunista dal 1934 al 1943 e primo ministro bulgaro dal 1946 fino alla morte.

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Ci sono molte persone convinte che non sia il caso di mettersi a fare così tanto scalpore per un essere umano. Un singolo essere umano: che significato può avere, visto che ce ne sono tanti? Ma noi sappiamo che è sbagliato. Anche se abbiamo recentemente vissuto un periodo in cui non erano i singoli uomini a essere assassinati, ma intere razze, correnti di pensiero e nazioni, dobbiamo comunque riconoscere che è crudele e cinico affermare che il destino di un singolo individuo è indifferente, o che la sua morte è irrilevante per tutti coloro che sopravvivono. Dobbiamo anche avere il coraggio di definire crudele e cinico chi predica questa indifferenza al destino del singolo individuo. Un famoso scrittore inglese condanna il suicidio dicendo che chiunque si tolga la vita fa quanto è in suo potere per sterminare il genere umano. Altrettanto necessario è affermare che chiunque tolga la vita a un oppositore fa quanto è in suo potere per uccidere non solo un singolo individuo ma, in questo individuo, tutti gli oppositori, anzi, il principio stesso dell'opposizione, vale a dire il principio del libero arbitrio, della libertà di pensiero e della libertà di parola. Uccidendo Nikola Petkov, Dimitrov e i suoi colleghi hanno tolto la vita non solo all'uomo Petkov, ma anche alla libertà di pensare, credere e agire come impone il rispetto di ognuno per se stesso, quella libertà, cioè, che molti di noi sono ancora tanto «impolitici» e tanto poco «realisti» da considerare un elemento di inestimabile valore della nostra concezione della vita. Questo significa che tutti coloro che considerano irrinunciabile tale libertà hanno il dovere di protestare contro l'assassinio di Nikola Petkov per il semplice fatto che non si tratta di un isolato atto di violenza in un paese tanto lontano da non riguardarci direttamente, ma di un attentato contro di noi e la nostra visione della libertà personale come qualcosa di indispensabile. Se non protestiamo con le nostre azioni, il nostro pensiero e il nostro sentimento, le parole di Chesterton sui suicidi si applicheranno anche a noi proprio perché tacciamo. In questo caso si avrebbe infatti pienamente ragione di dire: chiunque taccia di fronte a un'ingiustizia o alla violazione di un valore irrinunciabile fa quanto è in suo potere per uccidere nel silenzio la giustizia e, in generale, il principio della libera opposizione. Se non tacciamo e alziamo la voce per protestare contro l'uccisione di Nikola Petkov non è solo per rendere omaggio a uno tra i tanti caduti per la libertà, ma anche per difendere noi stessi: siamo noi, infatti, a essere stati attaccati, i colpi di fucile sparati contro Nikola Petkov hanno fatto tremare sotto i nostri piedi uno dei fondamenti della nostra esistenza di uomini liberi. Quando il potere del nazismo era al culmine si è diffusa anche qui da noi la brutta abitudine di dichiarare che gli atti barbarici, le ingiustizie, gli spargimenti di sangue che avvenivano fuori dai nostri confini, in paesi stranieri, erano affari interni di quei paesi. Quando i ribelli norvegesi venivano fucilati o torturati nel campo di Grini non dovevamo protestare, perché l'assassinio di norvegesi, danesi o polacchi a opera dei tedeschi doveva essere considerato una questione interna della Norvegia, della Danimarca o della Polonia. Allo stesso modo ricordiamo come, negli anni Trenta, ci veniva consigliato di rimanere in silenzio mentre gli antifascisti tedeschi venivano torturati a morte nei campi di concentramento e gli ebrei costretti a spazzare le strade nelle città tedesche. Erano tutte questioni interne della Germania in cui non dovevamo immischiarci. Solo le questioni interne della Svezia ci riguardavano. Sfortunatamente furono in troppi, all'epoca, a seguire quel cattivo consiglio e a lasciare che gli oppositori tedeschi se ne morissero in pace. Alla fine, come ben sappiamo, i cattivi consiglieri vennero smascherati, smascherati come gente che, per vigliaccheria o per denaro, ci invitava a stare zitti su quel che il nazismo faceva. Ora che il nazismo è stato schiacciato dobbiamo renderci conto con imbarazzo, diciamo pure con spavento, che ci sono persone che ci consigliano di tacere quando accadono nel mondo cose contro cui il nostro senso di giustizia si ribella. Possiamo anche constatare che questi consiglieri, spesso, non sono gli stessi di un tempo, anzi, possiamo addirittura appurare che molti di coloro che disprezzavano e combattevano chi taceva durante il periodo nazista, ora ci consigliano di tacere su quello che succede, per esempio, nella parte di mondo controllata dall'Unione Sovietica. Ora tutti i gravi fatti che accadono laggiù sono questioni interne che non ci riguardano. Proprio perché questi consiglieri sono così numerosi, rumorosi e, spesso, influenti, non potremo mai ripetere a sufficienza, e con sufficiente forza, che i delitti contro la dignità umana, contro il principio di libertà e il diritto di espressione non sono mai una questione interna, ma – e questo è un presupposto della nostra esistenza di liberi esseri umani – sono e devono essere al massimo grado una questione internazionale. Così come un giardiniere austriaco, riconsegnato sul confine finlandese a un plotone di esecuzione tedesco in una giornata d'inverno, durante il grande terrore, divenne simbolo della viltà della Svezia ufficiale e, più in generale, di ogni acquiescenza, Petkov deve diventare per noi un simbolo della liquidazione della libertà di opinione che si sta realizzando in grandi parti dell'Europa a est dell'Elba, del Danubio e del Mare Adriatico.

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Pagina 83

Il movimento dei cittadini del mondo
(1949)



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L'intervento di Dagerman venne pubblicato sulla rivista culturale Prisma (numero 2 del 1949), diretta dal poeta Erik Lindegren, come risposta a un'inchiesta sul tema «Il mondialismo in tutta brevità». Per «mondialismo» si intendeva il «movimento dei cittadini del mondo», un ampio movimento pacifista internazionale il cui esponente più celebre era Garry Davis (1921-2013), un ex pilota di bombardieri che si fece promotore di un governo e di un passaporto mondiali.
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La politica è stata definita l'arte del possibile. Mi sembra una definizione adeguata. Il possibile è in effetti il minimo pensabile. Credere nel possibile significa avere operato una censura preventiva delle possibilità del rischio, della speranza e del sogno. Nel mondo del possibile l'essere umano non è che un prigioniero, incatenato alla galera della paura e dell'indifferenza. Di fronte al possibile l'essere umano è impotente come di fronte alla morte. Il merito imperituro di Garry Davis consiste nell'averci ricordato che c'è anche un'arte dell'impossibile, un'arte che proprio in questo momento è più importante di qualsiasi altra. Importante, soprattutto, come medicina contro la paura e la passività che sono l'effetto di una permanenza troppo prolungata nel mondo del possibile.

[...]


E non dobbiamo nemmeno pensare che, per questo motivo, sia tutto senza senso, perché non è mai senza senso scegliere l'impossibile invece del possibile. L'unica cosa insensata è accettare il possibile.

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Pagina 109

Il radioso avvenire...
Risposta a una maturanda
(1952)



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Il settimanale Idun chiese nel 1952 a cinque maturande di scrivere ad altrettante personalità della cultura. Britt-Marie Tidbeck si rivolse a Stig Dagerman ponendogli anche la domanda: «È giusto intraprendere degli studi, se ancora non ho idea né di quel che voglio diventare né di che cosa io sia capace, e se sarei disposta ad abbandonare il lavoro nel caso fosse la migliore soluzione per un eventuale matrimonio?» La risposta di Dagerman venne pubblicata nel numero 18 della rivista.
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Cara signorina Tidbeck,

Grazie di avermi scritto, mi ha fatto piacere e mi ha un po' spaventato. Per avere il coraggio di rispondere a domande che altri pongono sulla vita bisogna infatti essere molto presuntuosi o molto ubriachi. Il mio primo consiglio dunque è questo: non si fidi di nessuno che sostenga di poter risolvere i Suoi problemi e vedere nel futuro più di quanto possa fare Lei. Con il tempo ho imparato che i cosiddetti buoni consigli non solo costano caro, ma nella maggior parte dei casi sono anche privi di senso. Lei stessa è la prima e ultima autorità riguardo alla Sua vita. Non si fidi perciò nemmeno di questa lettera, finché non avrà raggiunto un punto della Sua vita in cui l'esperienza Le parlerà con la Sua stessa voce.

Una frase della Sua lettera mi ha fatto molto pensare. Lei parla infatti della liberazione che La attende quando le porte della scuola si richiuderanno per l'ultima volta alle Sue spalle. Proprio in questo periodo dell'anno, ma dieci anni fa, anch'io ero in attesa di questo miracolo della liberazione. Ora è passato abbastanza tempo da osare chiedere a me stesso: quando sei stato più libero, a scuola o nella «vita»? Non si spaventi se devo rispondere: per molti aspetti ero un uomo più libero dieci anni fa di quanto lo sia adesso.

È chiaro che in quegli anni avevo spesso, per non dire sempre, la sensazione che la scuola fosse una prigione, gli insegnanti fossero i carcerieri e le lezioni e i compiti scritti lavori forzati. Dopo di allora, però, ho imparato che l'espressione «si impara per la vita, non per la scuola» ha un terribile rovescio. La vita, infatti, non chiede conto in primo luogo delle conoscenze libresche, ma dell'esperienza delle forme di costrizione che la scuola imprime in noi: l'ansia dell'esame, il timore di arrivare in ritardo, la paura delle insufficienze, il terrore del fallimento.

Sembra purtroppo che le forme di schiavitù della vita imitino quelle della scuola, con la differenza che quelle della vita sono molto più dure e spietate nei confronti degli allievi. Cos'è infatti un'insufficienza se paragonata a un licenziamento? O il suono di una campanella in confronto a un orologio marcatempo? Cos'è un capoclasse se paragonato a un controllore dei tempi di produzione? O l'insufficienza in un compito scritto se paragonata alla bocciatura di una tesi di dottorato? E infine: dipendevamo dalla volontà dei genitori e dal potere degli insegnanti, ma eravamo al sicuro. Ora siamo schiavi della necessità di guadagnare, di farci strada, di diventare qualcuno. E questa dipendenza è dieci volte peggiore. C'è chi è costretto a contare i suoi spiccioli anche mentre dorme. Ci sono famiglie che la carenza di alloggi costringe a vivere in un'unica stanza con cucina. Ci sono addirittura persone che trovano il carcere più libero della società in cui vivono e l'ospedale più salutare dello spietato campo di battaglia della lotta per la vita.

Le apparirò forse prolisso e pessimista, ma devo dirle queste cose perché riguardano Lei più della maggior parte delle persone. E La riguardano così tanto perché proprio ora vive un momento in cui intuisce cosa sia la libertà. Per questa ragione torno a ripeterle con insistenza: diffidi della libertà che la vita Le offre, perché è ben poca cosa. Ma conservi finché può quel senso di libertà di cui sta facendo ora esperienza e che sarà il Suo ricordo più importante della scuola, perché quel senso di libertà è la cosa più preziosa che possiede. Se sarà abbastanza intenso La aiuterà più di qualsiasi consigliere nelle questioni della vita e del cuore, come ha aiutato me nei momenti in cui la vita mi si stendeva davanti come un deserto.

Ciò che intendo dire è questo: viaggi, legga o trovi un lavoro. Nel Suo intimo Lei sa quale sia la cosa giusta. Ma qualsiasi cosa decida di fare, non dimentichi mai che non è prigioniera della strada scelta. Ha tutto il diritto di cambiarla, se sente di essere sul punto di perdersi. La vita Le chiederà prestazioni che troverà ripugnanti. Allora dovrà essere consapevole che la cosa più importante non è la prestazione, ma il Suo svilupparsi in una retta e bella persona. Molti le diranno che questo consiglio è asociale, ma Lei potrà rispondere: quando le forme della società si fanno dure e negano la vita, è meglio essere asociali che disumani.

Per finire Le auguro un buon viaggio sulla strada che sceglierà. Le auguro anche ogni successo, ma più ancora Le auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l'amore e la libertà.

E dunque: buona fortuna per il grande giorno! Mi faccia sapere tra dieci anni com'è stato il suo viaggio.


Il Suo

Stig Dagerman

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