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| << | < | > | >> |Pagina 11Reidar Folke Jespersen iniziò quel venerdì 13 gennaio come aveva iniziato qualunque altro giorno della sua vita, per lo meno negli ultimi cinquanta dei suoi settantanove anni, vale a dire: con una ciotola di zuppa d'avena in cucina, da solo nella fioca luce di quel mattino d'inverno, con le bretelle penzoloni e con il leggero, ritmato tintinnare del cucchiaio sul fondo della ciotola come unica compagnia alla sua solitudine. Aveva grosse borse sotto i luminosi occhi blu. Le guance erano coperte da una barba bianca tagliata corta e ben curata. Le mani che tenevano il cucchiaio erano grandi e rugose, con vene ben delineate che risalivano serpeggiando gli avambracci fino ai risvolti delle maniche della camicia, le braccia erano possenti come quelle di un taglialegna o di un fabbro. Non aveva appetito. Non aveva mai appetito la mattina, ma da uomo illuminato qual era conosceva e accettava l'esigenza che il suo stomaco avesse un compito da svolgere. Per questo iniziava tutte le giornate con una ciotola di zuppa d'avena che preparava lui stesso. Se qualcuno gli avesse domandato a cosa pensava in quei minuti, non avrebbe saputo rispondere. Perché mentre mangiava si concentrava sempre sul conteggio delle cucchiaiate — ventitré, tintinnio, boccone, ventiquattro, tintinnio, boccone. Una lunga vita da mangiatore di zuppe gli aveva insegnato che in una ciotola c'erano in media dalle trentotto alle quarantaquattro cucchiaiate, e se rimaneva ancora un briciolo di stupore nella sua coscienza in quel momento della giornata così carico di abitudini, non poteva che essere curiosità per il numero delle cucchiaiate che sarebbero state necessarie a svuotare quella ciotola di zuppa d'avena. Mentre il marito faceva colazione, Ingrid Jespersen era ancora a letto. Si alzava sempre dopo di lui. Quel giorno si alzò alle otto e mezza, si avvolse in un accappatoio bianco di spugna e si affrettò verso il bagno dove il riscaldamento a pavimento andava al massimo, producendo un calore tale da rendere quasi insopportabile starci sopra a piedi nudi. Attraversò il pavimento caldo a piccoli passi e si infilò nella cabina per farsi una lunga doccia bollente. Grazie al riscaldamento centralizzato, in tutto l'appartamento c'era sempre un bel calduccio, ma dal momento che il marito non sopportava quella temperatura in camera da letto, lei si premurava sempre di chiudere il termosifone prima di coricarsi la sera. Per questo il freddo dell'inverno penetrava nella stanza. E anche se Ingrid ogni notte si raggomitolava ben bene sotto lo spesso piumino, la doccia bollente era diventata per lei un lusso che si concedeva ogni mattina per sgelarsi le membra e riattivare la circolazione fino a sentir formicolare il sangue anche negli strati più profondi della pelle. Ingrid Jespersen avrebbe compiuto cinquantaquattro anni a febbraio. A volte si crucciava del fatto che stava invecchiando, ma era piuttosto soddisfatta del suo aspetto. Era morbida e flessuosa, qualità che attribuiva al suo passato da ballerina e alla consapevolezza di quanto contasse il mantenersi in forma. Aveva ancora la vita sottile e le gambe muscolose e, nonostante il seno fosse un po' cadente e i fianchi avessero perduto la rotondità soda e giovanile di un tempo, per strada attirava ancora molti sguardi. I capelli scuri naturali avevano dei riflessi rossi. I denti invece la preoccupavano: come tutti quelli della sua generazione non aveva potuto usufruire di una corretta profilassi fin dall'infanzia e quelle otturazioni raffazzonate vecchie di mezzo secolo in due punti erano già state sostituite da capsule. Il motivo principale di questa sua preoccupazione estetica era che aveva un amante, un uomo più giovane di lei, e desiderava che la differenza di età non fosse troppo evidente quando si incontrava con lui — Eyolf Strømsted — un tempo suo allievo di danza. Chiuse l'acqua, uscì dalla doccia e si avvicinò allo specchio coperto da una patina grigia di condensa. Anche questa volta la colse una sottile inquietudine pensando alla reazione dell'amante quando lei sorrideva. Dapprima studiò i denti facendo delle smorfie davanti allo specchio, poi esaminò la sua silhouette attraverso lo strato di condensa. Si premette la mano aperta sul ventre e ruotò di mezzo giro su se stessa. Contemplò la curva della schiena e studiò il sedere e i muscoli delle cosce mentre eseguiva la rotazione. Quel giorno però a metà del movimento si bloccò e rimase ferma davanti allo specchio. Aveva sentito chiudersi la porta di casa. Il fatto che suo marito se ne fosse andato al lavoro senza una sola parola di commiato le fece perdere il senso del tempo e dello spazio per qualche secondo. Il rumore secco della porta che si chiudeva la sconcertò e rimase lì, davanti alla sua immagine riflessa, con lo sguardo perso nel nulla. Alla fine si scosse, per non dover più guardare la sua stessa nudità. Ma quando, pochi minuti più tardi, iniziò a passarsi il rasoio sul polpaccio destro con movimenti lenti, non si trattava che di gesti automatici e assenti: la sensazione di benessere e tranquillità che il pensiero dell'amante aveva suscitato in lei era svanita. Il marito, che già da un pezzo aveva finito di mangiare la sua zuppa di avena, si era infilato il cappotto e camminando lentamente era uscito dall'appartamento senza alcun cenno di saluto. Davanti alla porta di casa però aveva esitato un attimo, aveva raddrizzato la schiena e teso l'orecchio al rumore dell'acqua che scorreva in bagno, richiamando alla mente l'immagine della moglie che, con gli occhi chiusi e le ciglia imperlate di goccioline, respirava a bocca aperta sotto il getto bollente che le scrosciava sul volto. Da dieci anni Reidar Folke Jespersen praticava l'astinenza sessuale. I due coniugi non si toccavano più. Non avevano più alcuna intimità fisica. Ma agli occhi degli altri il loro appariva come un amore particolarmente tenero e basato su un sentimento di affetto reciproco. E questa facciata non si discostava poi tanto dalla verità perché, nonostante l'amore di coppia dal punto di vista erotico fosse ridotto a zero, il loro rapporto continuava a essere fondato su un accordo sottinteso — un contratto psicologico — che contemplava tutti gli elementi di vicendevole rispetto e volontà di accettare le stranezze e i difetti dell'altro — ad esempio, il russare la notte — e anche gli sforzi che la frequentazione quotidiana di un'altra persona a cui si crede di voler bene implica. Fino a tre anni prima, Ingrid aveva considerato l'autoimposta astinenza del marito come un capriccio del destino, qualcosa da sopportare per apprezzare il tempo in cui aveva vissuto in armonia con le pulsioni del proprio corpo. Ma quando per la prima volta si era lasciata sedurre dal suo ex allievo di danza, un giovane snello e muscoloso, aveva provato una sensazione di quiete risoluta e appagante. Era la stessa armonia che assaporava dopo essere stata dal parrucchiere, la stessa che le dava il godersi il panorama dalle finestre del suo grande appartamento dopo averle pulite in meno tempo del previsto. Grazie all'amante la sua vita quotidiana aveva acquisito una dimensione nuova. Un vuoto fino a quel momento trascurato, anche se sentito, era stato finalmente colmato e soddisfatto. Lei aveva abbracciato amorevolmente Eyolf stringendolo forte a sé. Lo aveva cullato fra le sue braccia. Con le dita ne aveva accarezzato la schiena flessuosa e le cosce muscolose. Lo aveva scrutato a occhi chiusi e aveva percepito la soddisfazione di sentire che un altro tassello della sua esistenza si era incastrato al posto giusto. Aveva sentito il pene del suo ex allievo ingrossarsi fra le sue mani mentre il basso sole invernale, oltrepassando la casa dei vicini, filtrava attraverso due spiragli nella persiana. Un raggio intenso andava a colpire la mensola con il pinguino di cristallo, che a sua volta scomponeva il raggio in una morbida coperta di colori, un arcobaleno che si posava sui loro corpi nudi e conferiva al piacere fisico che lei provava una bellezza estetica. E per la prima volta dopo tanto tempo, Ingrid Jespersen sentì che stava vivendo un momento che sarebbe risultato decisivo per la sua vita futura. Era stato con la massima naturalezza che i due avevano ripetuto il loro incontro amoroso già la settimana seguente. E a tre anni di distanza non avevano più bisogno di appuntamenti scritti: molto semplicemente si trovavano nell'appartamento di lui sempre alla solita ora, ogni venerdì mattina alle undici e mezza. Non avevano altri contatti al di là di questi incontri settimanali, provocati e sostenuti dalla stessa nostalgia un po' dolorosa del corpo e delle carezze dell'altro. Lei aspettava quelle visite a Eyolf con la stessa trepidazione con cui avrebbe aspettato una seduta dal pedicure o dallo psicologo. Incontrarsi con lui era una cosa che faceva per il proprio benessere e la propria salute mentale. E non le passò mai per la testa che quell'uomo più giovane di lei potesse vederla in altro modo. Con il succedersi delle settimane, dei mesi, degli incontri – ore e minuti trascorsi a godere – avevano raggiunto un'armonia fisica e psichica che le procurava una gioia grande e assoluta. E si aspettava che per lui tutto ciò fosse ugualmente fonte di gioia anche nei giorni e nelle notti in cui non era a letto con lei. Quella mattina, dopo che si era fatta la doccia, lavata i capelli, depilata le gambe, spalmata di crema tutto il corpo, messa lo smalto sulle unghie dei piedi e truccata le guance, le labbra, le palpebre e in particolar modo le parti un po' rigonfie e leggermente rugose sotto gli occhi, Ingrid si strinse di nuovo la cintura dell'accappatoio intorno alla vita e girellò per l'appartamento. Arrivata in cucina si fermò per qualche secondo a osservare la ciotola in porcellana decorata con motivi agresti lasciata sul tavolo. Un avanzo di zuppa di avena mischiata a latte parzialmente scremato ne copriva il fondo. Automaticamente afferrò la ciotola e la sciacquò nel lavandino. Il cucchiaio lo aveva già messo in lavastoviglie Reidar. Il cartone del latte lo aveva riposto nello sportello del frigorifero. Sopra il frigorifero, piegata con cura, c'era l'edizione mattutina dell' Aftenposten. Reidar non l'aveva toccata. La caffettiera a filtro sul piano della cucina era piena. Ne travasò il contenuto in una caraffa termica. Erano le nove e mezza, mancavano ancora due ore all'incontro con Eyolf. Tra mezz'ora Karsten Jespersen, il figlio che Reidar aveva avuto dalla prima moglie, avrebbe aperto il negozio di antiquariato del padre al piano inferiore. Aveva intenzione di prendere la caraffa termica con il caffè e scendere in negozio per farsi quattro chiacchiere con lui e, tra le altre cose, invitarlo a cena per quella sera insieme al resto della famiglia. Per ammazzare il tempo dell'attesa, accese la radio e si sedette sul divano in soggiorno con il giornale davanti a sé. | << | < | > | >> |Pagina 18Quel giorno Reidar Folke Jespersen non andò direttamente al tranquillo magazzino in Bertrand Narvesens Vei a Ensje, come faceva sempre nei giorni feriali. Anziché svoltare a sinistra ed entrare come al solito nel garage per prendere la sua Opel Omega dell'87, si incamminò nella direzione opposta. Svoltò in Bygdøy Allé e passeggiò nel freddo dell'inverno fino al chiosco Narvesen che si trovava all'incrocio. Alla fermata dei taxi dietro al chiosco c'erano tre macchine in attesa, una dietro l'altra, tutte e tre con la luce sul tetto accesa. Reidar passò dal chiosco e comprò alcuni giornali. Esitò a lungo davanti alla prima pagina dell' Aftenposten. Il pensiero andò alla moglie che presto l'avrebbe letto. Lasciò lì l' Aftenposten, pagò gli altri quattro quotidiani e si accomodò sul sedile posteriore del primo taxi, una Citroën Xantia station-wagon. Il tassista apparteneva a quella categoria di persone a cui qualche politico ha imparato a dare ascolto. Ma nonostante quel giorno fosse in forma smagliante e dalla sua bocca uscissero perle di saggezza sull'alta politica e pettegolezzi sulla casa reale, e nonostante Reidar avesse una curiosa predilezione per il "parlamento di strada" e le verità che gli ubriachi e i barbieri professano, rispose con il silenzio a tutti i tentativi del tassista di mettere in piedi una conversazione. Si limitò a dirgli di portarlo a un certo numero civico di Jacob Aalls Gate. Una volta arrivato entrò in un piccolo caffè ancora immerso in una sonnacchiosa atmosfera mattutina: c'erano parecchi tavoli vuoti e solo due clienti, due giovani donne che bevevano due grossi bicchieri di latte macchiato sedute all'unico tavolino accanto alla finestra. Un ragazzotto vestito di bianco, dalle guance piene di brufoli infiammati e con i capelli corti acconciati sulla fronte come un trampolino da sci, fece un cenno del capo al cliente appena entrato che ricordava dall'ultima volta che era stato lì. Uscì da dietro il bancone e gli chiese se non volesse accomodarsi. Reidar scosse la testa in segno di diniego. Gli spiegò che voleva sedersi vicino alla finestra, e che quindi avrebbe aspettato finché le due donne non si fossero alzate. Il ragazzo annuì in modo esagerato, rivelando così che considerava quel cliente appena entrato non del tutto a posto, poi tornò dietro al bancone e riprese ad affettare cetrioli e a tagliare insalata. Reidar Folke Jespersen restò in piedi accanto al bancone senza togliere gli occhi di dosso alle due donne, che ben presto si accorsero di queste sue attenzioni trovandole fastidiose. Pochi minuti dopo la loro conversazione subì una battuta d'arresto. Finirono rapidamente il loro latte macchiato e chiesero il conto. Fecero entrare un soffio d'aria gelida d'inverno quando litigarono con la porta per uscire. Reidar si sedette su una sedia che era ancora tiepida, si sfilò lentamente i guanti e posò la sua ventiquattrore di cuoio sull'altra sedia, la aprì, ne tirò fuori i quattro quotidiani e li mise in pila sul tavolo davanti a sé. Fece un cenno al ragazzo, che andò da lui con una enorme tazza di caffè nero fumante. Poi si accese una sigaretta — Tiedemanns Teddy senza filtro — e guardò l'orologio. Erano le nove e dieci. Fece un tiro e restò seduto a fissare fuori dalla finestra. Il suo sguardo era fermo su un portone d'ingresso tra due macchine parcheggiate, lo stesso portone che Ingrid, sua moglie, avrebbe aperto fra poco più di due ore allo scopo di trascorrere il pomeriggio a letto con l'amante. I suoi pensieri tornarono a lei, che in quell'istante supponeva sedesse raffinatamente rannicchiata sul divano, avvolta nell'accappatoio di spugna bianco mentre finiva di leggere il giornale. Seduto a fumare con aria assente, cercava di immaginare come si comportasse con l'amante. Pensò ai diversi stadi che lui e Ingrid avevano attraversato nella loro vita di coppia. Pensò alla fragile, vulnerabile creatura che lei era quando l'aveva conosciuta. Tentò di confrontare il ricordo di quella creatura con la donna un po' robusta e adesso tanto sicura di sé che ogni notte si addormentava tranquilla accanto a lui. Qualcosa di sé lei lo aveva impacchettato e nascosto, avvolto in carta velina, pensò, un pacchettino di carta velina che si immaginava scartasse in compagnia dell'uomo che abitava dall'altro lato della strada. Ciò che si domandava nel profondo era se quella parte della sua anima a cui un tempo aveva cercato di avvicinarsi fosse contenuta nel pacchettino o fosse scomparsa nel nulla insieme alla vulnerabilità e all'incertezza di un tempo. Si domandava se quella donna con cui condivideva l'appartamento e la camera da letto notte dopo notte fosse ancora la stessa donna che lui un tempo aveva sperato di riuscire ad amare. I suoi pensieri giravano intorno al mistero della natura umana, allo svilupparsi e al maturare della personalità. Se uno fa lo scultore, forse può sostenere che il risultato finale in realtà è già presente nella pietra o è da sempre predeterminato. Ma un essere umano si modella oltre che in base ai propri geni anche per effetto dell'ambiente, della sua storia, delle esperienze nel corso della vita e dell'interazione con altre persone. La personalità non è già presente fin dalla nascita. Era anche fermamente convinto che la sua curiosità nei confronti dell'amante di Ingrid fosse rivolta a quella parte di anima avvolta nel pacchetto di carta velina, che si domandava se lei scartasse o meno in presenza di quell'uomo. Una volta constatato questo, Reidar provò una sensazione che gli ricordava la gelosia, ma quel tipo di gelosia che si indirizza all'amante in quanto persona. Era una sorta di invidia, quasi, che però non aveva niente a che fare con la malevolenza che avrebbe provato nei confronti di chiunque Ingrid avesse desiderato. Si trattava più che altro di una forma piuttosto tenera e strana di rammarico, qualcosa di vagamente sfuggente, come immaginava potesse essere la sensazione che prova chi ha subito l'amputazione di un braccio o una gamba e sente ancora dolore in una parte del corpo che non ha più. Era un tipo di gelosia che sentiva di essere diventato troppo vecchio per indagare. Reidar pensava a tutto questo con una certa malinconia, e con la stessa malinconia si considerava in quel momento ridicolo. Cercò di trovare una spiegazione al suo comportamento, perché per lui era diventata una mania osservare in prima persona come Ingrid lo tradisse regolarmente con Eyolf Strømsted tutti i venerdì. Ma non concesse che qualche cecondo allo scatenarsi dell'autocritica, poi scacciò quel pensiero e si dedicò invece al piacere della sigaretta mattutina. Finito di fumarla, la spense nel posacenere e iniziò a leggere il primo quotidiano. Quando Ingrid due ore più tardi, avvolta in un lungo cappotto grigio foderato di pelliccia e battendo i denti per il freddo, percorse a passi rapidi il marciapiede di fronte al caffè e poi entrò nel portone senza degnare di uno sguardo né il caffè né qualunque altra cosa intorno a lei, Reidar Folke Jespersen aveva ormai finito di leggere i giornali. Si era fumato un paio di sigarette di troppo. Aveva bevuto due tazze di caffè e una bottiglia di acqua Farris. Sua moglie scomparve al di là del portone marrone e lui lo guardò richiudersi con una certa commozione, tanto che quasi sobbalzò quando il cameriere gli chiese se desiderasse altro. Lanciò un'occhiata all'orologio, e nello stesso istante si sorprese a chiedersi perché mai guardasse l'orologio ogni volta che qualcuno gli faceva una domanda. Sorrise fra sé e sé, scosse leggermente la testa e chiese al ragazzo di portargli il conto. Pagando gli lasciò ben venti corone di mancia per compensare la sua poca cortesia di due ore prima. Mise i due pezzi da dieci sul tavolo, poi, con la mancanza di agilità di un vecchio, uscì faticosamente nel freddo e s'incamminò rigidamente in direzione di Uranienborg per incontrarsi con i suoi fratelli. | << | < | > | >> |Pagina 97Nella sala autopsie Frank Frølich, come sempre gli accadeva, si sentì quasi svenire per l'aria viziata. Respirava a bocca aperta cercando una sedia. Alla fine ci rinunciò e si unì agli altri che osservavano il cadavere di [...]. Quel corpo bianco giaceva disteso su un tavolo di metallo sotto una illuminazione da sala operatoria. Frølich indirizzò lo sguardo verso gli altri due, il dottor Schwenke e l'ispettore capo Gunnarstranda. «E il filo intorno al collo?» chiese Gunnarstranda. «Filo da cucito» rispose Schwenke. «In cotone. O almeno così pare.» Con le forbici teneva il filo tagliato sotto la luce. «Rosso, chiuso con un doppio nodo.» Gunnarstranda teneva le mani dietro la schiena, quasi ipnotizzato. L'assistente tirò fuori un bisturi e, restando in attesa, scostò lo sguardo dal cadavere al dottor Schwenke che si stava infilando dei guanti di gomma e strizzò l'occhio a Frølich. «Rembrandt, no? Uomini vestiti di nero intorno al cadavere, ancora un attimo e gli tirerò fuori dal braccio i cavi rossi.» Tese verso l'esterno la pelle raggrinzita dell'addome del cadavere, poi palpò la ferita relativamente pulita al di sotto del capezzolo destro. «Una sola ferita di punta» disse a voce bassa e accarezzò con le dita le altre ferite. «Per il resto si tratta solo di graffi superficiali.» La ferita da punta era lì, aperta. In mezzo al petto del cadavere erano stati tracciati numeri e lettere con un pennarello blu. Il sangue coagulato e i graffi rendevano poco chiara la scritta. Schwenke si mise a grattare via con estrema cautela il sangue che copriva quei segni. «Sembrerebbe un numero» disse. «Sembra proprio un numero, non è vero?» proseguì facendo scorrere il dito lungo una delle scritte. «Questo gancio qui è un numero 1. Ma la prima è una lettera, una J di jeans.» «J 195» lesse Frølich. «Esatto» disse Schwenke, d'accordo con lui. «Un codice?» si domandò Gunnarstranda rassegnato e ripeté: «J 195.» Poi, rivolto a Schwenke, aggiunse: «E per quanto riguarda le croci sulla fronte?» «Tre croci. Dello stesso colore. Dovrebbe trattarsi dello stesso tipo di inchiostro che ha sul petto.» Frølich si chinò sulla fronte del cadavere. Schwenke si raddrizzò. «I tagli sono presenti anche sui vestiti, che sono completamente insanguinati. Quindi, è stato ucciso con addosso i vestiti» concluse sorridendo, dopodiché comunicò una serie di informazioni parlando al dittafono. Ai poliziotti disse poi a voce più bassa: «I graffiti sono stati eseguiti dopo.» Frølich si spostò accanto alla donna che fotografava il corpo. Schwenke continuava a parlare al dittafono. Gunnarstranda rimase a osservare. «Un codice» borbottò pensieroso. «L'omicida si prende la briga di svestire la vittima, scrivere qualcosa in codice sul suo corpo e metterla in vetrina.» Si spostarono accanto all'assistente che iniziò a lavare il cadavere. «Satanisti» buttò lì Schwenke alla loro destra. Fece l'occhiolino bonariamente. «Ma cosa stai dicendo?» replicò Gunnarstranda irritato. «Era solo uno scherzo.» Schwenke fece di nuovo l'occhiolino a Frølich. «Ma fa venire in mente qualche tipo di rituale, non è vero? E ormai sono solo i massoni e i satanisti a praticare dei rituali.» Ridacchiò. «Appeso a un filo da cucito con tre croci in fronte, strano che non gli spunti un merluzzo dalla bocca.» Rise ancora più forte. «Magari adesso lo troviamo» concluse avvicinandosi al tavolo dove nel frattempo l'assistente aveva finito il suo lavoro. Brandì il bisturi e poi effettuò il taglio classico dallo sterno a scendere lungo l'addome, una curva a sinistra dell'ombelico e poi giù fino all'osso pubico. Si spostò di lato mentre l'assistente iniziava a tagliare le costole. Facevano lo stesso rumore di grossi rizomi spezzati in un terreno fangoso. Frølich dovette come sempre appoggiarsi alla parete. «Ti senti male?» gli chiese Schwenke allegramente. A un cenno dell'assistente si girò, ripiegò ai lati le parti molli e con una salda presa sollevò la cassa toracica. Tolse gli organi interni e mise tutto su un tavolo autoptico. L'assistente li lavò accuratamente. Frølich si allontanò dal getto d'acqua e respirò ancora una volta attraverso la bocca a causa dell'aria nauseabonda che riempiva la stanza. «Guarda qui» mormorò Schwenke, «guarda un po' qui.» Gunnarstranda si risvegliò. «Cosa?» «La domanda è quanto ancora avrebbe resistito.» «Perché?» Schwenke indicò le budella dell'uomo. «Là.» «Là cosa?» «Un rene invaso dal cancro.» «Non vedo nessun cancro.» «E questo?» Schwenke sollevò qualcosa che somigliava a un'arancia rossa masticata e rigurgitata. «Questo non ti sembra un cancro?» «Va bene. Ma lui se ne sarà pur accorto, no?» «Questo non lo so. È un tipo di cancro difficile da scoprire, non vorrei sbagliare, ma secondo me si è già diffuso ai polmoni.» «Era condannato?» «A quanto pare.» «Ma probabilmente non ne era al corrente...» «Be'... questo non ci è dato saperlo. Non conosco la cartella clinica dell'uomo. Senti il suo medico e magari cerca negli ospedali. Quello che ti posso dire è che capita non raramente di trovare questo tipo di cancro nel corso di un'autopsia.» Gunnarstranda annuì pensieroso. «E la ferita?» gli chiese dopo un po'. «L'angolatura?» Schwenke studiò il canale della ferita che aveva penetrato gli organi interni. «Sembra che il colpo sia stato inferto verso l'alto con un piccolo angolo di inclinazione. Un polmone perforato. Molto danneggiati importanti vasi sanguigni.» «Ma un solo colpo?» «Un solo colpo» confermò Schwenke continuando a lavorare sugli organi addominali. Frølich distolse lo sguardo e lo posò sul viso di Gunnarstranda che, rigido, studiava le mani di Schwenke al lavoro. «C'è qualche altra informazione che mi puoi dare subito?» disse alla fine l'ispettore capo. Schwenke alzò gli occhi. «Per esempio?» «Lascia perdere!» Gunnarstranda si frugò inquieto nelle tasche. «Non si può fumare, qui» disse Schwenke. «Sto fumando?» gli chiese Gunnarstranda infastidito, tendendo verso di lui due mani vuote. Schwenke si alzò e gli sorrise con aria colpevole. «Mi dispiace. Be', le emorragie devono essere state abbondanti dal momento che la lama ha tagliato vasi con una pressione piuttosto forte» borbottò, poi aggiunse: «Però tu hai detto che il luogo del delitto era sorprendentemente pulito. Probabilmente si è accasciato subito al suolo. Ma...» proseguì «... dal momento che i vestiti della vittima sono appena sporchi di sangue, devono essere stati quelli dell'omicida a imbrattarsi ben bene di rosso.» «Causa della morte?» «Al novanta per cento la ferita da taglio. Ma ti saprò dire di più fra un paio d'ore.» «Ora del decesso?» Schwenke si voltò. «La morte è un processo, Gunnarstranda. La vita non è un meccanismo digitale che smette di funzionare.» «Però qualche indicazione me la potrai dare su quando...» «Anche se il cervello è morto, può esserci ancora vita sia nelle pareti intestinali sia nei globuli bianchi» lo interruppe Schwenke. «... su quando la lama gli na trapassato il petto, su quando è stramazzato a terra?» concluse imperturbabile Gunnarstranda. «Vedremo che temperatura aveva il corpo quando siamo arrivati e la confronteremo con la temperatura rilevata sul davanzale della finestra, poi esamineremo il contenuto dello stomaco. Sapremo esattamente cosa ha mangiato l'ultima volta e quando lo ha fatto. Il problema è che nella stanza in cui si trovava la temperatura era sotto zero. Se la temperatura del cervello risulterà essere pari a quella della stanza, il termometro non ci potrà fornire alcuna informazione. Inoltre stava già iniziando il rigor mortis. Mi pare di avere capito che i tuoi tecnici hanno dovuto lottare con i suoi arti per riuscire a trasportarlo fin qui. Sai qual è stato il suo ultimo pasto?» «Bistecca di renna» disse Gunnarstranda, «mangiata tra le ore diciannove e trenta e le ore ventidue e zero zero.» Schwenke alzò gli occhi dallo stomaco del morto. «Più salsa ai gallinacci» aggiunse. «Il tutto innaffiato di vino rosso, scommetterei spagnolo, tempranillo, perciò della regione della Rioja!» Schwenke ridacchiò quando vide l'espressione di Frølich. «Stavo scherzando.» Annuì con aria seria e rifletté. «Mi pare di capire che non si sappia con certezza quale temperatura ci fosse nella stanza. Questo potrebbe creare dei problemi.» | << | < | > | >> |Pagina 170Il braccio del giradischi non voleva alzarsi. Il suono proveniente dagli altoparlanti ricordava quello di vecchi tergicristalli su un parabrezza semiasciutto. Finalmente Gunnarstranda si alzò dalla sedia, andò al giradischi, sollevò manualmente il braccio e soffiò via il batuffolo di polvere che si era raccolto intorno alla puntina. Poi abbassò di nuovo la puntina. I vecchi altoparlanti Tandberg crepitarono, ed ecco le prime note di chitarra di Love is just around the corner di Peggy Lee diffondersi nella stanza. Per qualche secondo l'ispettore capo Gunnarstranda rimase fermo lì, in piedi davanti alla finestra, con aria assorta. Sollevò la mano e sentì il freddo penetrare attraverso il vetro. Poi appoggiò quasi la faccia alla finestra per riuscire a leggere la temperatura sul termometro esterno con quei numeri blu tutti sbiaditi. Meno ventitré gradi. Sul marciapiede di Bergensgata, una donna avvolta in un cappotto entrò nel fascio di luce gialla del lampione. Stava facendo una passeggiata serale con un magro cane da ferma. Al cane non piaceva tutto quel freddo. I passi, che di solito sarebbero stati elastici e molleggiati, erano recalcitranti e rigidi, teneva il collo e la coda chini verso terra. Pareva che se lo dovesse trascinare dietro. Gunnarstranda li osservò per qualche secondo, poi si sedette di nuovo alla scrivania. Fissò il foglio su cui si era appuntato la scritta vergata con il pennarello sul torace della vittima. Si teneva la testa fra le mani e non staccava gli occhi da quei segni. Alla fine afferrò la bottiglia di Ballantine's quasi piena che stava sul vassoio accanto alla macchina da scrivere e ne svitò il tappo. Versò due dita di whisky in un bicchiere da acqua. Nel momento in cui si avvicinò il bicchiere alle labbra, il telefono squillò. Sollevò il ricevitore. «Sei tu?» Era la voce di Yttergjerde. Gunnarstranda deglutì e sentì il whisky che bruciando si apriva la strada verso lo stomaco. «Cosa c'è?» bisbigliò con voce roca. «Rispondi sempre in modo così brusco al telefono» disse Yttergjerde. «Mi domandavo se andava tutto bene.» «Hai qualcosa da dirmi?» «Lei ha un uomo» disse Yttergjerde. «E si chiama?» «Eyolf Strømsted. Insegna danza, almeno così pare. Questa sera c'erano il corso di salsa e quello di danza africana. Avresti dovuto vedere, una cinquantina di donne norvegesi che sculettavano davanti a un negro con il tamburo.» «E la nostra signora?» «All'inizio pensavo che fosse lì per il corso. Ma è andata dritta da questo tizio in calzoncini gialli e maglietta d'argento. Da dietro l'orecchio gli spuntava un microfono, uno di quelli fatto ad arco che ti arrivano alla bocca, come quelli dei conduttori televisivi. Se ne stava lì a ballare e quello che gridava al microfono si sentiva dagli altoparlanti insieme alla musica – a proposito, cos'è che stai ascoltando?» Gunnarstranda guardò il suo giradischi. «È una cantante. Ballate e jazz.» «Non proprio lo stesso ritmo, no, quella era salsa. Quando è arrivata lei si è creata un po' di confusione, perché il tizio ha dovuto cercare qualcuno che lo sostituisse.» «Lei ti ha visto? Eri lì dentro?» «C'erano un sacco di persone, non mi ha visto.» «Va' avanti...» «Sono usciti, hanno preso la macchina e se ne sono andati. Li ho seguiti. Si sono fermati in un parcheggio davanti al Museo Munch. Un posticino discreto, sotto gli alberi lungo la staccionata di Toyenparken. E sai cosa hanno fatto? Sono stati lì a pomiciare per quasi quaranta minuti, perciò suppongo che abbiano fatto qualcosa di più che pomiciare. Poi lei ha riportato il tipo alla scuola di ballo ed è tornata a casa.» «E tu?» |