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| << | < | > | >> |Pagina 13Una catena di ferro rivestita di plastica rosa trasparente si riflette, come una lucida serpe, nel finestrino di un vagone dietro il quale alcune luci segnaletiche vanno rimpicciolendosi fino a diventare minuscoli punti color smeraldo e rubino, presto inghiottiti dai vapori di una calda notte di luglio. (Solo pochi minuti prima, nel sudicio ristorante di una stazioncina nei pressi della Montagna Gialla, nel Sud della Cina, quella stessa catena assicurava al piede di un tavolo in finto mogano una valigia Delsey celeste, munita di rotelle e di un manico estraibile in metallo cromato, appartenente a Muo, aspirante psicoanalista di origine cinese da poco rientrato dalla Francia). Per un uomo così sprovvisto di bellezza e di fascino — con il suo metro e sessantatré di statura, la sua scarsa prestanza fisica gli occhi a palla e leggermente sporgenti, fissi in un'immobilità tutta «muoiana» dietro gli spessi vetri degli occhiali, i capelli ispidi e rovinati dalle doppie punte —, Muo ostenta una sorprendente sicurezza: si sfila le scarpe di fabbricazione francese, mostrando un paio di calzini rossi con la punta bucata, da cui fa capolino un alluce ossuto, candido come latte scremato; si arrampica su un sedile di legno (una sorta di panca, senza imbottitura) per collocare la Delsey sul portabagagli, vi attacca la catena, aggancia due anelli con un lucchetto e si solleva sulla punta dei piedi per verificare che la serratura sia ben chiusa. Dopo aver ripreso posto sulla panca, Muo sistema le scarpe sotto il sedile, calza un paio di sandali infradito bianchi, pulisce le lenti, si accende un piccolo sigaro, svita il cappuccio della stilografica e comincia a «lavorare», ossia a trascrivere sogni su un quaderno da scolaretto acquistato in Francia, un compito a cui si sottopone volontariamente per il suo tirocinio da psicoanalista. Attorno a lui, il disordine s'impadronisce di quel vagone dai sedili duri (il solo per il quale siano rimasti biglietti disponibili): appena montate in carrozza, delle contadine, con grossi canestri appesi al braccio o con gerle di bambù sulla schiena, si danno da fare per concludere i loro affarucci prima di scendere alla stazione successiva. Barcollando lungo il corridoio, vendono uova sode o brioche cotte a vapore, certe anche frutta, sigarette, lattine di Coca-Cola, bottiglie di acqua minerale cinese e persino di acqua di Evian. Alcuni inservienti in divisa delle ferrovie si aprono un varco nell'unico corridoio del vagone affollato e, spingendo i carrelli in fila indiana, offrono cosce d'anatra al peperoncino, costolette di maiale grigliate e condite con spezie, giornali e rotocalchi scandalistici. Seduto per terra, un ragazzino dall'aria sveglia, sui dieci anni, lustra accuratamente le scarpe col tacco a spillo di una passeggera di eta matura, che spicca tra i viaggiatori di quel treno notturno per via degli occhiali da sole blu scuro, troppo grandi per il suo viso. Nessuno fa caso a Muo, né alla maniacale attenzione con cui sorveglia la Delsey modello 2000. (Qualche giorno prima, a bordo di un treno diurno – ma sempre in uno scompartimento dai sedili duri –, mentre stava ultimando la quotidiana stesura degli appunti con una acuta citazione di Lacan, gli era capitato di sollevare la testa dal quaderno e aveva visto, come in un film muto girato al rallentatore, alcuni passeggeri che, insospettiti dalle misure di sicurezza prese a protezione di quel bagaglio, si arrampicavano sulla panca per annusare la valigia, palparla e scuoterla con le mani dalle unghie nere e scheggiate). Quando Muo è immerso nel lavoro, sembra che nulla possa turbare la sua concentrazione. Sul sedile a tre posti, il vicino di destra, un tale sulla cinquantina con la schiena curva e il lungo viso abbronzato, lancia sguardi curiosi sul quaderno, dapprima in modo furtivo, poi con insistenza. «Scrive in inglese, signor quattrocchi?» gli domanda con un rispetto quasi servile. «Posso chiederle un suggerimento? Mio figlio, che va al liceo, è negato per l'inglese; mi creda, proprio negato». «Certamente» gli risponde Muo serissimo, senza tradire il minimo disappunto per il soprannome «quattrocchi». «Voglio raccontarle un aneddoto a proposito di Voltaire, un filosofo francese del Settecento. Un giorno Boswell gli chiese: "Parlate l'inglese?" e Voltaire ribatté: "Per parlare l'inglese, bisogna mordersi la punta della lingua con i denti. Io sono troppo vecchio, e i miei li ho perduti". Chiaro, no? Alludeva alla pronuncia del "th". Anch'io, come il vecchio Voltaire, non ho denti abbastanza lunghi per esprimermi nella lingua della globalizzazione, benché adori alcuni scrittori inglesi e uno o due americani. Le mie annotazioni, signore, sono in francese». | << | < | > | >> |Pagina 61Le guance in fiamme, il sangue che gli ribolle nella testa, Muo decide di levarsi le scarpe. I piedi gli bruciano. Cammina sulla sabbia granulosa, poi avanza sguazzando in un acquitrino grigio, là dove il fiume sbocca nel mare. Si bagna la faccia. L'acqua è tiepida. Torna verso la spiaggia e si spoglia, avendo cura di togliersi l'orologio e di riporlo, avvolto in un calzino, dentro una scarpa. Poi, reggendo fra le braccia gracili il fagotto dei vestiti, si dirige verso uno scoglio. Le alghe, che ondeggiano come smeraldi scuri, frusciano sotto i suoi passi. I sassi aguzzi gli feriscono i piedi. Il vento marino che gli spira contro lo fa vacillare, e per poco non gli strappa gli occhiali, ma contribuisce a raffreddare l'ardore del suo sangue. Procede con cautela. Sa bene che i granchi stanno là sotto, mostruosi, armati di mandibole, di chele gigantesche ma invisibili, mimetizzate; granchi noti per la bianchezza delle loro carni dalle virtù afrodisiache. Sono acquattati sul fondo, nella sabbia viscida, nascosti fra i ciottoli, a spiare le sue dita dei piedi, a seguirle tra gli scogli affioranti, nelle fessure delle rocce dove l'acqua ristagna; gli pare quasi di sentirli discutere sottovoce le strategie di un attacco imminente.«Un giorno, quando Vulcano della Vecchia Luna uscirà di prigione, tornerò qui con lei» Si dice Muo. «La adagerò su una grande camera d'aria e la trainerò affinché le sue dita restino al sicuro dagli attacchi dei granchi. Già me li figuro quei piedini nudi, aristocratici e deliziosi, coperti da un sottile velo di sabbia e frammenti di conchiglie. Mi par di sentire le sue acute grida di gioia che echeggiano fra lo sciabordio delle onde. Come sarà bello osservarla mentre riassapora la libertà, aggrappata al cerchio nero dello pneumatico, ora inghiottito ora risospinto a galla dai flutti spumosi della risacca! Avrà con sé la sua macchina fotografica e ritrarrà i pescatori, documenterà il loro duro lavoro, la loro vita quotidiana, la più miserabile della Cina, se non del mondo. Quanto a me, annoterò i loro sogni, quelli degli adulti e quelli dei bambini. Parlerò della teoria di Freud, in particolare della sua quintessenza, il complesso di Edipo, e sarà divertente vedere come grideranno di stupore, scuotendo perplessi le teste abbronzate». Qua e là, sulla superficie del mare, gli sembra di vedere delle lucciole che nuotano languidamente al ritmo delle onde. Ma no, sono solo imbarcazioni di legno, minuscole scialuppe a due posti, più nere della notte, con a bordo il rematore, al di sopra del quale è sospesa una lampada ad acetilene, e il compagno che lancia in acqua le reti. Le sagome dei loro corpi appaiono e scompaiono seguendo la risacca che sale e sbatte, urlando e mugghiando, per poi abbassarsi stanca e acquietarsi. La calma. Il mormorio, il sospiro dell'acqua. Per i pescatori è l'ora di ritirare le reti. Dalla terraferma, alle spalle di Muo, giunge il ronzio di un motore. Compare un pullman di turisti. Uomini e donne scendono sulla spiaggia: probabilmente sono venuti apposta per mangiare crostacei. E infatti, messo piede sulla sabbia, uno di loro grida che vogliono granchi, i più piccoli possibile, quelli dalla carne più candida e afrodisiaca. Che sia l'interprete? Sono turisti giapponesi? Taiwanesi? Hongkonghesi? Un ristorante all'aperto si illumina. Tavoli e sedie di plastica vengono portati in fretta e furia sulla spiaggia e piazzati di fronte al mare, sotto una fila di lampadine colorate. Alcuni ragazzi, di certo aiutanti di cucina, si spingono fino alla battigia e lanciano richiami verso le barche dei pescatori, chiedendo granchi freschi. All'inizio, nella ridda di voci e di esclamazioni, Muo non riesce a identificare la provenienza dei visitatori notturni. Ma quando, una volta preso posto ai tavoli, cominciano tutti a giocare a mah-jong, capisce che devono essere suoi connazionali. La Cina è l'impero del mah-jong. Conta un miliardo di appassionati. Soltanto i cinesi, ansiosi come sono di non annoiarsi nemmeno un minuto, possono fare una partita di mah-jong nell'attesa che i granchi cuociano a vapore. La sua ipotesi trova conferma quando sente uno del gruppo – probabilmente l'autista, dato che è seduto accanto al pullman vuoto –, intonare con l'armonica un canto rivoluzionario cinese degli anni Sessanta. | << | < | > | >> |Pagina 181Tutto ha assunto un aspetto subacqueo. Non soltanto Muo fatica a respirare, ma i gradini di cemento non rimandano alcun suono e cedono sotto i suoi passi, si restringono per poi dilatarsi e riacquistare la loro forma originale, quasi fossero di gomma; ha la sensazione di muoversi su un terreno paludoso, soffice, fecondo e pestilenziale, come in quel sogno in cui camminava su un pavimento di marmo dalle venature grigie e nere, che si ammorbidiva al contatto delle sue lunghe falcate e infine si tramutava in un'immensa porzione di formaggio stagionato.È stata l'Imbalsamatrice a ridurre così il nostro acuto e sensibile psicoanalista: l'ha preso per mano e sta salendo le scale insieme a lui. Poco prima, entrando nell'edificio, Muo ha cercato a tastoni l'interruttore senza riuscire a trovarlo, e perciò è stato costretto a salire di nuovo al buio, con la cautela di un ladro. Ma, arrivato al primo pianerottolo, qualcuno ha acceso la luce in uno dei piani superiori, e lungo le scale è risuonato uno scalpiccio di infradito. Un brivido di apprensione gli ha percorso la schiena. Trattenendo il fiato, ha cercato di decifrare quel rumore, per darsi alla fuga nel caso fosse sua madre. Ma da quando ha lasciato la Cina, non sa più riconoscere dal semplice suono prodotto sui gradini di una scala il materiale di cui è fatto un paio di infradito (plastica? cuoio? gomma? schiuma?), il tipo di persona che le calza (uomo? donna? timido? violento? mite? duro?) e talora lo stato d'animo del proprietario: ogni volta che qualcuno viene ammesso al Partito comunista, le sue infradito cambiano timbro, risonanza, forse anche significato, e per molto tempo sembrano cantare l'inno nazionale. Le infradito che venivano verso di lui evocavano un singolare miscuglio di foga e noncuranza. La luce di servizio si è spenta, ma l'oscurità non ha influito sul ritmo dei passi, che hanno superato il terzo piano senza rallentare. Muo ha ripreso timidamente a inerpicarsi, e il rumore delle sue scarpe, grave e ovattato, ha finito per raggiungere quello più acuto, argentino e picchiettante delle infradito, orchestrando una sommessa melodia. La scala saliva, girava dopo una ventina di gradini e poi saliva ancora. Muo ha sentito la voce dell'Imbalsamatrice che chiedeva: «Sei tu?». «Parla piano,» ha risposto sottovoce «potresti svegliare mia madre». A pochi metri da lui, sul pianerottolo del secondo piano, ha visto un'ombra che sembrava un po' pallida in quel buio insolitamente fitto. Il rumore delle infradito non ha rallentato né accelerato, l'esile sagoma scendeva senza precipitazione un tratto di scala molto ripido. Manteneva sempre lo stesso ritmo, lo stesso passo regolare. Muo, senza capire perché, ha detto in tono soffocato: «Attenta mia madre ha l'orecchio fine...». Ma la frase gli è rimasta a metà. Il concerto delle infradito si è interrotto. Nel silenzio, ha percepito un rombo sordo nella sua testa. L'Imbalsamatrice gli ha preso la mano. Il palmo teso e accaldato ha avuto un fremito, le dita di lei si sono strette nervosamente intorno alle sue. Avvertendo al tatto qualcosa di duro, ha intuito che doveva essere la fede. Il viso dell'Imbalsamatrice, vicinissimo al suo, emanava un odore di prodotto farmaceutico. Muo l'ha sfiorato. «Ma che profumo ti sei messa?» le ha chiesto bisbigliando. «Nessuno. Sarà l'odore della formalina». «No». «Sicuro?». «Sì». «Meno male. Detesto puzzare di formalina dopo il lavoro». «Sembrerebbe tintura di iodio. Non ti sarai ferita?». «No. Ho solo fatto una maschera idratante. Il tuo giudice Di mi ha talmente terrorizzato che, quando sono rientrata a casa, tremavo ancora. Così mi sono applicata la crema sul viso. Brucia un po', ma non puoi immaginare quanto mi rilassi. E la prova è che adesso non tremo più. La terribile vicenda di questa sera si è allontanata dalla mia mente». «Io per poco non morivo di paura». La loro è una ascesa titubante, mano nella mano, in un'oscurità insolita; continuando a parlottare, avanzano a tentoni e incespicano come ballerini di un intermezzo buffo. Quando passano dinanzi all'appartamento di Muo, la porta è chiusa, le luci spente, ma a lui pare di sentir tossire sua madre. | << | < | > | >> |Pagina 202Lui non ha mai pregato. Come si fa? Esita. Meglio il buddhismo? Il taoismo? In entrambi i casi, i fedeli congiungono le mani all'altezza del petto. Quanto al cristianesimo, ne sa molto poco. Quando era piccolo, le pratiche religiose erano severamente vietate, perciò i suoi genitori non l'avevano mai condotto in un tempio o in una chiesa. La prima volta che gli era capitato di veder pregare qualcuno aveva sette anni. Si era in piena Rivoluzione Culturale. Un giorno le guardie rosse avevano portato via sua madre per sottoporla a un interrogatorio. Verso mezzanotte non era ancora tornata a casa. All'epoca i nonni vivevano con loro, nello stesso appartamento. Muo non riusciva ad addormentarsi. Così si alzò e, passando davanti alla camera dei due vecchi, scorse con stupore una strana luce. Inginocchiati sul letto, di fronte a una candela (forse non si erano arrischiati ad accendere una lampada?), stavano pregando. Nessuno aveva mai spiegato al bambino cosa fosse una preghiera, eppure capì subito il significato della scena, anche se non avrebbe saputo dire a quale divinità si rivolgessero. Sebbene abbia dimenticato i loro gesti, Muo ricorda la fiammella pallida e vacillante, da cui proveniva una luce venerabile che avvolgeva i nonni come in una aureola; le loro facce rugose, tese, addolorate e piene di sconforto esprimevano un'appassionata concentrazione, fede e dignità. Erano belli, tutti e due.«Cosa posso chiedere al Cielo?» pensa Muo. «Di prendersi cura di me? Di aiutami a scappare? A disfarmi di quella donna? Non è un po' troppo pretenzioso supporre che Dio o il Cielo si occupino di noi? Se adesso mi suicido, Dio ne sarà addolorato? Avvertirà anche lui il fetore che il mio cadavere spanderà nel cortile, arrivando al naso di tutti gli abitanti del caseggiato? Oppure sarà contento della mia liberazione, della fine dei miei tormenti, di questa purga radicale e definitiva?». «Probabilmente la finestra ha su di me uno strano effetto» continua a pensare Muo. «L'impulso di buttarsi nel vuoto è un fenomeno raro? Oppure questa che ho davanti è una finestra maledetta? Dieci anni fa ha indotto in tentazione il marito omosessuale dell'Imbalsamatrice e l'ha avuta vinta. Forse Jian non si è suicidato, ma è stato ucciso dal richiamo di una finestra, dall'abisso della vergogna. Forse anch'io appartengo alla razza di coloro (quanti, in proporzione al resto dell'umanità? Il cinque, il dieci per cento?) che alla vista di uno strapiombo vertiginoso sentono qualcosa scattargli dentro. Tutti i miei anni di psicoanalisi, tutti i libri di Freud, così colmi di saggezza e perspicacia, non possono farci nulla. È un riflesso naturale, uno scatto, come quando un uomo reagisce all'odore di una donna». Con la sensazione di essere immerso nella nebbia, imita i gesti che aveva visto fare al nonno in quella remota notte della sua infanzia. Abbandona la posizione a cavalcioni per accovacciarsi sul davanzale, come un uccello appollaiato. Un uccello con gli occhiali e le zampe ossute, in cima a una scogliera di sei piani. Prova a raddrizzare la schiena, mantenendo l'equilibrio. Sembra sul punto di volare giù, ma ecco che riesce con uno sforzo a inginocchiarsi sul davanzale di mattoni rosa pallido, il cui intonaco intriso di pioggia gli inumidisce i pantaloni presi in prestito. Contempla il vuoto come se fosse uno stagno nel quale non sa decidersi a tuffarsi. Una voce gli bisbiglia qualcosa all'orecchio. Un'allucinazione? No, una zanzara. «Maledetta, eccola di nuovo. Riconosco il ronzio». L'insetto gli si posa sul naso, pronto ad affondare nuovamente il pungiglione. Muo lo scaccia agitando la testa con movimenti netti e precisi, degni di un acrobata. Un minimo di slancio in più, e cadrebbe dalla finestra. Soffia un vento freddo ma sopportabile. Il cielo nuvoloso si riflette nel vetro in penombra. Muo cerca le parole per esprimere un desiderio. Con strazio, deve ammettere che il desiderio più bello del mondo sarebbe stato quello di poter conservare la propria verginità fino al giorno della scarcerazione di Vulcano della Vecchia Luna, per consacrarla a lei. Ma ormai è troppo tardi. Ripensa al giudice Di, all'Imbalsamatrice, e l'amarezza lo travolge con la forza di un uragano.
Si sente come una zanzara ferita, tutta pesta, con le ali ripiegate e le
zampe – ben più lunghe di quanto non sembri – ritratte contro il corpo
minuscolo, che agonizza e trema nella mano di uno sconosciuto: il Destino.
All'improvviso comincia a pregare, come suo nonno, con le mani giunte sul petto.
Ma le parole che gli escono dalla bocca sono quelle di una vecchia canzoncina
infantile, che non intonava da anni:
Mio padre è il capo della mensa, lo accusano di essere un ladro di tessere. Tessere di che? Delle razioni d'olio e di riso. Mio padre è in ginocchio su un tavolo, legato con grosse corde. La folla gli chiede il conto. Il conto! Il conto! La sua voce, un po' impastata a causa del Fantasma dell'Ebbrezza, all'inizio è quasi impercettibile, un sussurro a fior di labbra, proprio come una preghiera. Ma a poco a poco si lascia andare e diventa stridula come il verso dell'uccello sul tetto di fronte. Una voce con una sfumatura di gaia ironia, che echeggia fiduciosa. Alla fine della prima strofa, Muo attacca il ritornello imitando con la bocca il suono della tromba e ridacchia compiaciuto perché si accorge di avere un timbro simile a quello che invidiava all'idolo della sua infanzia: un vicino soprannominato la Spia, figlio di un professore di Patologia, divenuto capo di una banda di ladri durante il periodo di rieducazione e condannato a vent'anni per rapina a mano armata in una banca, negli anni Settanta. Era la canzone preferita dalla Spia; il berretto gli ballava con gioia selvaggia sui capelli spettinati ogni volta che la accennava andando a zonzo, la fischiettava salendo le scale o la cantava a squarciagola per far colpo sulle ragazze. Povera Spia! Aveva una maniera tutta sua di cantare, con piccole variazioni improvvisate. Al termine della seconda strofa, martellando più volte sulla stessa nota, Muo modula quel ritornello triste e allegro a un tempo, che gli alleggerisce il cuore dal peso degli insuccessi, dei tradimenti e dal ricordo del giudice Di, voglioso di vergini. Con voce velata, culla la propria coscienza al ritmo di quella canzone da malandrino. Ma quando meno se l'aspetta, due braccia possenti gli serrano i fianchi, interrompendolo bruscamente. Lancia un grido di terrore, mentre il cielo stellato si inclina, gira, si capovolge, e le pantofole ricamate precipitano nel vuoto, come due meteore. | << | < | > | >> |Pagina 290Il cetriolo di mare consigliatogli dal sessuologo di Pechino è agli antipodi del suo piatto preferito: appartiene alla stessa famiglia dei ricci e delle stelle marine, ed è un mollusco che vive negli abissi oceanici, attaccato ai coralli. Una specialità esotica, costosa e rara, dato che si trova quasi esclusivamente nell'Oceano Indiano o nel Pacifico orientale, dove i pescatori scendono in profondità e frugano alla cieca tra le colonie della barriera corallina per strappare dalle ramificazioni spinose questo falso ortaggio dei mari. Una volta portato in superficie, il mollusco viene messo a seccare sulla spiaggia. A contatto dell'aria il cetriolo di mare, la cui conformazione ricorda un millepiedi, freme e si scioglie al sole, assumendo una consistenza viscida. Per farlo solidificare, il pescatore deve metterlo subito sotto sale; a questo punto assume la forma di un membro maschile, lungo fra i dieci e i quindici centimetri, di un colore simile alla pelle umana, percorso da una trama di vene, solchi, rughe e piccole protuberanze. Si cucina gettandolo in una pentola d'acqua bollente, dove gonfia e prende all'estremità la sagoma di un glande.In virtù del suo aspetto fallico, il cetriolo di mare occupava nella farmacopea tradizionale cinese un posto di altissimo rilievo, da sovrano incontrastato. A corte, gli imperatori, spossati dalle innumerevoli concubine, lo usavano some ricostituente. Sotto la dinastia Tang era noto come «virilità marina», ma qualche secolo dopo fu ribattezzato col nome che porta ancora oggi: «ginseng di mare». La sua democratizzazione è stata molto lenta. In epoca imperiale, a volte i sovrani ne donavano piccoli quantitativi ai ministri o ai generali di cui volevano assicurarsi la fedeltà durante una crisi politica o in tempo di guerra. All'inizio del Novecento, dopo il crollo dell'ultima dinastia, He Gonggong, un cuoco eunuco (ma le malelingue sostengono fosse solo un parrucchiere eunuco), aprì il ristorante La Gioiosa Virtù, vicino alla porta settentrionale della città Proibita; fu così che, per la prima volta nella storia degli afrodisiaci cinesi, l'odore del ginseng di mare oltrepassò le mura del palazzo imperiale per aleggiare su Pechino. Ma bisognò aspettare altri cento anni, nonché l'avvento del capitalismo alla cinese, per assistere a un'ulteriore democratizzazione del ginseng di mare e poterne trovare di discreta qualità anche alla mensa dei nuovi ricchi. L'unico inconveniente di questa pregiata pietanza, di questa favolosa panacea, è l'assenza totale di sapore. A niente sono valsi gli sforzi di generazioni e generazioni di cuochi imperiali, che hanno fatto ricorso a ogni sorta di spezie: il cetriolo di mare è insipido, orribilmente insipido, insipido fino alla nausea. Non è difficile immaginare quale sofferenza comporti per il giudice Di una simile dieta. Al mattino un cameriere del ristorante di fronte gli porta in camera un portavivande di metallo cromato, ermeticamente chiuso, con dentro una tazza di brodo di riso al ginseng di mare. Secondo la ricetta dei migliori ristoranti di Hong Kong, il brodo va allungato a intervalli regolari con acqua e deve rimanere a cuocere per ore, finché non risulti impossibile distinguere anche un solo chicco di riso. Ma il cetriolo di mare è comunque insapore. A mezzogiorno torna lo stesso cameriere con lo stesso portavivande, che però questa volta contiene «ginseng all'olio rosso», ossia cetriolo di mare affettato e condito con succo di carota, uno dei piatti imperiali presenti a suo tempo nel menu del ristorante La Gioiosa Virtù di He Gonggong. Ma il sapore resta immutato: tristemente insipido. La sera, nel solito portavivande c'è invece una minestra di ginseng di mare ai funghi profumati e germogli di bambù. Insipida da far piangere. Tuttavia, al quarto giorno di dieta si manifestano i primi effetti positivi. Il giudice Di nota che un certo tepore comincia a rianimare il suo sesso, raggelatosi dopo l'incidente dell'obitorio.
«Bisogna che anticipi il mio rientro a Chengdu» dice fra sé tutto contento.
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