Autore Alessandro Dal Lago
CoautoreSerena Giordano
Titolo L'artista e il potere
SottotitoloEpisodi di una relazione equivoca
Edizioneil Mulino, Bologna, 2014, Intersezioni 418. , pag. 254, ill., cop.fle., dim. 12,4x20,5x1,7 cm , Isbn 978-88-15-25092-6
LettoreMargherita Cena, 2014
Classe arte , critica d'arte , storia dell'arte , architettura , storia sociale , politica












 

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Indice


    Introduzione. Artisti e potenti                   7

I.  Le avanguardie e il potere                       31

    1. Dall'indifferenza all'impegno                 31
    2. Le anime contraddittorie dell'avanguardia     40
    3. Verso l'autodistruzione                       46
    4. Per l'arte e per la patria                    53
    5. Libero senza saperlo                          59

II. L'arte del denaro                                67

    1. «Guernica» e la guerra (dei discorsi)         67
    2. Stilisti, bretelle e scivoli                  73
    3. Ai Weiwei: dalle «Stars» alle stelle          84

III.Il potere dell'inautentico                      101

    1. Vero e falso in arte                         101
    2. La natura sociale della falsità              105
    3. Falsari artisti                              110
    4. Artisti che copiano                          120
    5. Vero e falso come questioni politiche        125

IV. Potenza e impotenza dell'utopia                 141

    1. Astronavi nel Belice                         141
    2. Platone a Gibellina Nuova                    148
    3. Linee curve, rette e spezzate                157
    4. Una polis senza agorà                        162
    5. Una questione di responsabilità              166

V.  Un'arte senza potere                            177

    1. La canzone del curatore                      177
    2. Quanto è bello quel Caravaggio!              188
    3. La sindrome di Warhol                        201


Riferimenti bibliografici                           215
Indice dei nomi                                     241
Indice delle cose notevoli                          249


 

 

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Pagina 7

Introduzione


Artisti e potenti



                                    L'uomo che, in Hitler, andavo apprezzando
                                    sempre di più era «il committente». L'idea
                                    che non cessava di entusiasmarmi era quella
                                    di servirlo con tutte le mie capacità
                                    scientifiche e di trasformare in realtà í
                                    suoi progetti edilizi e urbanistici. A mano
                                    a mano che le sue «commissioni» diventavano
                                    più grosse e importanti, crescevano la stima
                                    e il rispetto da cui ero circondato. Mi
                                    pareva di essere sul punto di realizzare il
                                    mio Lebenswerk, l'opera che avrebbe
                                    giustificato la mia vita, collocandomi tra i
                                    grandi architetti della storia.
                                                               Speer [1997, 154]

                                    Davanti al potere l'Artista non è né servo,
                                    né padrone.
                                                               Arnaldo Pomodoro,
                                                    cit. in Lacagnina [2008, 30]



1. Crediamo che pochi siano disposti ad associare il nome di Silvio Berlusconi all'arte contemporanea. L'uomo più amato e detestato d'Italia è, a seconda dei punti di vista, un imprenditore di successo, un politico avventurista, un eroe liberale dell'anticomunismo e un libertino impenitente, ma non è noto come cultore delle arti (a parte una vantata passione per i libri rari che gli ha procurato, anni fa, qualche fastidio). Tuttavia, contro ogni evidenza, l'ex Cavaliere ha lasciato una traccia materialmente cospicua anche nell'arte contemporanea. Infatti, all'inizio degli anni Novanta, si è fatto costruire dallo scultore Pietro Cascella, nella villa di Arcore, un mausoleo destinato ad accogliere sia le sue spoglie, sia quelle degli amici e collaboratori più cari (fig. 1). Citiamo dalle cronache:

Agli inizi degli anni Novanta, quando la politica era ancora un sogno, sembra che Berlusconi abbia fatto visitare íl mausoleo anche a Indro Montanelli, allora direttore de «Il Giornale». «Qui ci andrà Marcello [Dell'Utri], qui Fedele [Confalonieri], qui mio padre, qui riposerò io», avrebbe detto Berlusconi a Montanelli, indicando prima i loculi, secondo un resoconto apparso sull'«Espresso». E da toscano scaramantico qual era, Montanelli, che nel frattempo si era infilato le mani nella profondità delle tasche dei pantaloni, si sarebbe sentito richiamare subito dal Cavaliere: «Indro, non oso chiedertelo, ma se anche tu volessi farmi l'onore...». D'un fiato la fulminante risposta del principe dei giornalisti: «Domine non sum dignus».


La stessa cronaca ci informa che Cascella ha presentato a Berlusconi Sandro Bondi, già sindaco comunista di un paese della Lunigiana (dal 1990 al 1992), in seguito berlusconiano di rigida osservanza, poeta dilettante, nonché ministro dei Beni e delle Attività culturali (dimissionario nel marzo 2011). La vicenda del mausoleo di Arcore, ammettiamolo, suona come la parodia di celebri episodi della storia dell'arte antica e classica, in cui re e papi commissionavano monumenti funebri imponenti ad artisti con i quali s'intrattenevano spesso a corte. Ma ci ricorda soprattutto la relazione non occasionale tra arte e potere – tra arte e qualsiasi potere. Cascella, che già aveva dedicato sculture alla Resistenza o ai martiri di Auschwitz, ha firmato, qualche anno prima di morire, un'opera che ricorderà alle future generazioni qualcuno che, al tempo del mausoleo, era un imprenditore molto discusso e che, in seguito, avrebbe fatto una burrascosa carriera politica e giudiziaria.

Nella disponibilità dell'arte o, meglio, di alcuni artisti a lavorare per i potenti non vediamo alcunché di nuovo e sorprendente. Sintetizzando lo spirito di questo saggio, affermiamo che l'arte tende ad andare a braccetto con il potere. Semmai, ci ha sempre stupito la tenace sopravvivenza di un certo discorso, al tempo stesso estatico e retorico, sulla capacità dell'arte (in senso lato) di contrapporsi al potere, di «sovvertire», «rivoluzionare» e «cambiare» il mondo o, se non altro, la cultura.

[...]

Si tratta in ogni caso di relazioni di reciprocità. Se gli artisti, in certe epoche e in certe circostanze, mirano a un ruolo d'avanguardia culturale e sociale, se non politica, i potenti sono da sempre attratti dall'arte. È fin troppo facile citare il Nerone di Svetonio, l'autocrate fatuo e irresponsabile che voleva essere ricordato dai posteri soprattutto come cantore. O i papi rinascimentali, a loro agio tra scultori e architetti quanto negli intrighi politici. Per non parlare del re Federico II di Prussia, primo guerriero del suo tempo, ma anche appassionato di musica e flautista, che annuncia emozionato l'arrivo a corte del vecchio Bach. A modo loro anche i supremi dittatori del Novecento, Hitler e Stalin, si sono interessati di arte e artisti: il primo commissionava direttamente opere a scultori e architetti (uno dei quali, Albert Speer, divenne perfino ministro del Reich); e il secondo usava intervenire direttamente nelle controversie artistiche e letterarie. E che dire di Mao Zedong, che affidava alle poesie la confutazione di revisionisti e altri avversari politici? O di tutti quei leader, grandi, piccoli o minuscoli, che sentono l'impulso irrefrenabile di scrivere romanzi o — peggio ancora — poesie?

Da noi, Walter Veltroni ha pubblicato, oltre a diversi saggi, un romanzo [Veltroni 2006], mentre Nichi Vendola e Sandro Bondi sono noti, anche al grande pubblico, come «poeti». Che cosa li spinge? È vero che chiunque voglia affermarsi come autore o artista, cercando di pubblicare un libro o esporre un'opera, è motivato dalla brama di affermarsi o, se vogliamo, da narcisismo. Ma si tratta di sentimenti inevitabili negli artisti. Anzi, necessari e doverosi, quando permettono di creare delle opere. Ma perché un politico di primo o secondo piano, che già gode in abbondanza di visibilità e notorietà, vuole essere considerato un artista? Quali pulsioni, oneste o oscure, lo motivano ad abbandonare, sia pure temporaneamente, la sfera del potere per quella dell'espressione? Si può forse parlare, nel caso dei politici, di una volontà estetica, così come, per gli artisti, di volontà di potenza?

Un esempio estremo, ma nondimeno illuminante, di ambizione estetica appare nella singolare definizione di Hitler come supremo artista del terzo Reich: «Esiste un legame interiore e indissolubile tra i lavori artistici del Führer e la sua grande opera politica», scrive nel 1936 il «Völkischer Beobachter», organo ufficiale del partito nazista [cit. in Todorov 2007, 21]. Lo stesso dittatore, secondo il suo architetto Speer, si considerava un artista che avrebbe voluto realizzare nella pietra degli edifici monumentali di Berlino il suo progetto politico millenario.

Hitler mi diceva spesso: «Lei sta realizzando il mio sogno. Mi sarebbe piaciuto fare l'architetto. Il destino mi ha fatto Bildhauer Deutschlands, lo scultore della Germania, ma io avrei preferito essere l'architetto della Germania. Ma non ho potuto. Lei invece sì. Anche quando sarò morto, lei andrà avanti. Le darò tutta la mia autorità perché possa continuare anche dopo la mia morte».

Certo, è un caso limite. Però rivela come il potere costituisca una dimensione in cui l'artista e il potente si confrontano e gareggiano. Sono uno davanti all'altro. L'uno lavora per l'altro. L'uno vuole essere l'altro. Naturalmente, questa dimensione non è una realtà atemporale, né può essere decontestualizzata o destoricizzata. È del tutto evidente che le figure degli artisti di epoche tra loro lontane sono incommensurabili, proprio come le forme di potere sono così mutevoli, attraverso i secoli, da rendere ardua ogni comparazione. Eppure, siamo davanti a relazioni ricorrenti, seppure discontinue. Anche se la storia, come è noto, ritorna sempre in forma di farsa, a noi l'episodio Cascella-Berlusconi ha ricordato il controverso incarico di un mausoleo che Giulio II affidò a Michelangelo e che, per quanto non portato a termine, ha regalato all'umanità i Prigioni e il Mosè.

Prescindendo – come è ovvio e doveroso – da qualsiasi confronto estetico, siamo, in entrambi i casi, davanti a una relazione simile che ritorna in epoche lontane tra loro: il potere che si vuole eternizzare, pietrificandosi in un monumento, e l'artista che corre a scegliere i marmi. Ma si tratta, appunto, solo di un lato della relazione. Tutti gli esempi che stiamo citando – geni prometeici, artisti sovvertitori, monarchi-artisti, papi e magnati bramosi di eternità, costruttori di mausolei e così via – indicano come l'arte del comando e la padronanza artistica, che il senso comune (e degli artisti) vorrebbe lontane e opposte, siano in fondo dimensioni molto vicine, se non proprio solidali. Al loro intreccio, o alla loro osmosi, è dedicato il libro che state leggendo.

[...]

Noi, al contrario, riteniamo che gli artisti siano esseri mondani come ogni altro bipede pensante, e quindi ci interessa tutto ciò che rende possibile la loro opera, ovvero le «relazioni pratiche» degli artisti con il mondo, a partire dalla sfera sociale in cui operano e dai poteri che la innervano. Questo vale da quando gli artisti acquistano un'identità specifica, che permette loro di entrare in relazione con committenti e mecenati. Dalla metà circa del XV secolo, gli artisti escono dall'anonimato a cui li costringeva, nel Medioevo, l'appartenenza alle corporazioni. Emancipati dal ruolo di artigiani (e quindi di lavoratori manuali), gli artisti conquistano il riconoscimento della loro identità autonoma e operano a stretto contatto con il potere politico, soprattutto in Italia e Francia, mentre, altrove, nei paesi dell'Europa nordica, saranno piuttosto quelli economici o sociali a condizionarli in ogni senso. Le forme di questa relazione sono molteplici e sfasate nel tempo. Se nella seconda metà del XVII secolo Bernini era ricevuto da Luigi XIV come una star dell'architettura e della scultura mondiali [Fagiolo dell'Arco 2001; Schama 2007], più di cent'anni dopo Mozart (all'inizio della sua carriera) era poco più di un servitore alla corte dell'arcivescovo Colloredo a Salisburgo [Hildesheimer 2006]. Resta comunque il fatto che, con la cosiddetta modernità, le relazioni tra artisti e potenti si fanno tanto più complesse quanto più il potere cessa di essere appannaggio di una dinastia o di una persona per divenire un'articolata funzione sociale.


3. Proponiamo ora, in base a quanto precede, le definizioni dei due tipi principali della relazione arte-potere. Il primo è senz'altro l' estetica o aura del potere, cioè l'uso dell'arte in funzione di «aurizzazione» di un sovrano o di un tipo di governo. Fino al trionfo del razionalismo moderno, il potere, politico e religioso, si è sempre circondato di un alone di fasto che in larga parte coincideva con la natura sacra del sovrano (re o papa), e quindi con il suo carisma. D'altra parte, questo non deve essere concepito come una qualità immutabile, ma come il risultato di un certo tipo di lavoro sociale e di strategia comunicativa, in cui le arti giocano un ruolo decisivo. La mitizzazione del potere attraverso l'immagine, e cioè il modo di apparire, è essenziale alla costruzione del carisma della sovranità.

Un esempio antico, ma illuminante, di aurizzazione del potere sovrano è in una testimonianza che risale al X secolo della nostra era. Nel 949 Liutprando da Cremona, prelato di stirpe longobarda, fu inviato dal marchese Berengario II di Ivrea, che di lì a poco sarebbe diventato re d'Italia, in visita di stato alla corte imperiale di Costantinopoli. Partito da Venezia il 25 agosto, Liutprando giunse alla sua meta il 18 settembre. Poco tempo dopo il suo arrivo, fu condotto alla presenza dell'imperatore Costantino VII Porfirogenito nel palazzo della Magnaura. Ecco ciò che vide, nelle sue stesse parole:

Dinanzi al seggio dell'imperatore v'era un albero di bronzo tutto aurato e i suoi rami erano colmi d'uccelli ricoperti anch'essi d'oro: emettevano suoni per specie diverse, se canti diversi giungendo pareva d'udire. Il trono imperiale era fatto ad arte, e congegnato in tal modo che ora si offriva basso dinanzi agli occhi, poi si levava più in alto e a un tratto si svelava altissimo. Ed era inoltre immenso, fatto di bronzo o legno: come a custodirlo stavano ai lati due leoni splendenti di luce aurata che percotevano il pavimento con la coda, che dalle fauci spalancate emettevano un ruggito muovendo persino la lingua. Orbene, sorretto da due eunuchi, fui condotto in questa casa al cospetto dell'imperatore. E fatta ch'ebbi l'entrata, davvero i leoni ruggirono e gli uccelli, con frastornante suono, diedero inizio ai loro canti, secondo la specie diversa. Dico veritieramente ch'io non ne ebbi timore alcuno, né stupore provai, che tutto m'era stato già narrato da quanti ne erano a giorno [Liutprando da Cremona 1993, 179-180].

Né qui, né in altri luoghi, Liutprando dà l'impressione di prendere troppo sul serio l'apparato scenico della corte bizantina. Ma la magnificenza di quest'ultima colmava solitamente di meraviglia i visitatori occidentali meno smaliziati di quanto non fosse il nostro colto prelato. D'altronde, le meraviglie meccaniche della sala delle udienze facevano parte di un rituale complesso ed elaborato fino nei minimi dettagli.

[...]

Questa «secolarizzazione» politica ed economica dell'arte — parallela allo sviluppo di un vero e proprio mercato artistico — non costituisce comunque un'evoluzione lineare. Nel XX secolo, sia il nazismo, sia lo stalinismo ricreano, nella nuova dimensione di una cultura di massa gestita e controllata dal regime, la funzione politica dell'arte [Groys 1992; Raulff 2006; Piretto 2010]. Non si tratta solo di creare stili artistici funzionali ai regimi totalitari, come il realismo socialista nello stalinismo o il gigantismo classicheggiante dell'architettura nazista di stato. Si tratta, ancora una volta, di fare della vita pubblica dei regimi una sorta di opera d'arte. Le parate, militari e civili, illustrano l'estetizzazione con cui lo stato totalitario, mille anni dopo Liutprando da Cremona, mette in scena, a uso sia dei cittadini, sia degli osservatori degli stati stranieri, la propria potenza. La straordinaria carriera di Albert Speer, passato dalla regia dei Parteitage (i raduni di massa del partito nazista) alla progettazione dei grandi edifici pubblici voluti da Hitler e, durante la guerra, alla direzione del ministero degli Armamenti, rappresenta perfettamente l'impiego dell'arte di massa, in senso lato, al servizio dello stato totalitario [Speer 1997].

La seconda tipologia che ci interessa è la potenza estetica dell'arte, che, ovviamente, si sovrappone a quella precedente. Parliamo in particolare del ruolo moderno dell'artista come creatore e, insieme, rappresentante di un certo tipo sociale e culturale. È un ruolo nato con il Rinascimento, ma che trova la sua espressione più matura quando, con il romanticismo, giunge a compimento la trasformazione dell'artista in personalità eccezionale (ciò che si può leggere, in filigrana, nell'esaltazione giovanile di Wagner per Nietzsche). Come si è già detto, l'epoca delle avanguardie storiche trasforma il genio in rivoluzionario. Ma la fine dei movimenti del primo Novecento non segna la fine della potenza, vera o presunta, dell'arte. Questa diviene ora, in tempi più vicini a noi, occasione di scontro ideologico — per esempio tra mondo libero e comunismo o tra capitalismo e socialismo.

Nell'occidente liberale, l'arte non può essere di stato. Tuttavia, può divenire l'espressione diretta, e quindi politica, di una cultura fondata sull'individualismo. Gli usi politici dell'arte sono molteplici e, come vedremo nel primo capitolo, paradossali. Comunque sia, la cultura e la comunicazione di massa, dopo il secondo dopoguerra, proporranno nuove versioni dell'artista come essere d'eccezione, se non leader in senso stretto. Questi non sarà più l'individuo atipico del romanticismo, ma l'idolo, la star culturale, le cui capacità creative si confonderanno con quelle decisive di venditore di se stesso ed esperto di marketing. Andy Warhol rappresenta il tipo ideale di artista capace di influenzare la dimensione dominante del potere nel nostro tempo, cioè il mercato (nonché di darne una rappresentazione oggettiva). Ma anche la letteratura di massa, il cinema e le stesse arti visive offrono un gran numero di esempi di questo nuovo tipo prevalente di artista.

Come si può vedere da ciò che precede, le relazioni reciproche di arte e potere sono così complesse da consentire solo singole analisi e illustrazioni. In questo libro ne offriremo alcune, tratte soprattutto dalle arti visive del nostro tempo. Nel primo capitolo, rileggiamo i rapporti curiosi e imprevedibili tra ideologia e avanguardie artistiche. Nel secondo, affrontiamo una questione decisiva per comprendere le relazioni tra artisti e mondo, cioè il ruolo del denaro. Nel terzo, rivediamo il problema della falsità e della verità in arte alla luce della legittimazione di certi ruoli politici. Nel quarto, esaminiamo un esempio di utopia artistica e architettonica in cui si manifestano sia la generosità, sia la megalomania di alcuni artisti. Nel quinto, infine, discutiamo il potere che artisti, critici e altri operatori nel campo dell'arte esercitano sul pubblico.

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Pagina 41

[...] Già Leonardo da Vinci , nel Trattato della pittura, chiarisce, in termini assai moderni, alcuni punti essenziali a tale proposito:

Questa [la pittura] non fa infiniti figliuoli come fa i libri stampati; questa sola si resta nobile, questa sola onora il suo autore e resta preziosa e unica, e non partorisce mai figliuoli eguali a sé. E tal singolarità la fa più eccellente che quelle che per tutto sono pubblicate. Ora non vediamo i grandissimi re dell'Oriente andare velati e coperti, credendo diminuire la fama loro col pubblicare e divulgare le loro presenze? Or, non si vede le pitture rappresentatrici le immagini delle divine deità essere al continuo tenute coperte con copriture di grandissimi prezzi? E quando si scoprono, prima si fanno grandi solennità ecclesiastiche di vari canti con diversi suoni [...] E nello scoprire la grande moltitudine de' popoli che quivi corrono, immediate si gittano a terra, quelle adorano e pregando per cui quella tale pittura è figurata, dell'acquisto della perduta sanità e della eterna salute, non altrimenti che se tale idea fosse lì presente ed in vita [...] Ed in effetto, ciò che è nell'universo per essenza, presenza o immaginazione esso [il pittore] lo ha prima nella mente e poi nelle mani [Leonardo Da Vinci 2002, 21, 22, 24, corsivi nostri].


Fa un'impressione curiosa trovare nelle parole di Leonardo da Vinci considerazioni sull'unicità dell'opera d'arte in contrapposizione alla «riproducibilità tecnica», scoprendo che il maestro del Rinascimento aveva concepito la teoria dell'aura quattro secoli prima di Walter Benjamin [2012]. Inoltre, Leonardo descrive con poche e semplici parole in che cosa consiste il potere millenario dell'arte. Re e sacerdoti, durante un rituale di «vari canti con diversi suoni», mostrano ciò che, solitamente e saggiamente, tengono velato: l'opera. Solo loro possono svelare l'arte alla «grande moltitudine dei popoli», e quindi amministrare l'aura artistica. Per quanto riguarda l'artista, Leonardo afferma, con grande preveggenza e spirito moderno, che «essenza, presenza e immaginazione» sono dimensioni che si equivalgono e che la loro comprensione è possibile solo «nella mente» del pittore «e poi nelle mani». Ciò significa che l'osservazione artistica non è funzionale alla mera mimesi o imitazione del mondo (come recita un luogo comune bimillenario), ma alla sua comprensione – e quindi agli schemi intellettuali dell'artista, ciò che conferma la natura intrinsecamente concettuale dell'arte. E così, grazie al leonardesco Trattato della pittura, siamo in grado di mettere a fuoco le caratteristiche fondamentali delle avanguardie artistiche del Novecento e le ragioni dei loro protagonisti: l'aura, il primato degli artisti e le «masse» (cioè la società).

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Pagina 57

Inoltre, anche i russi guardano all'arte delle avanguardie europee (da cui l'arte americana avrebbe dovuto emanciparsi) con dichiarata antipatia. Come abbiamo visto, molti artisti e intellettuali d'avanguardia avevano aderito alla causa rivoluzionaria, dedicandole ogni energia, salvo poi essere sostituiti con esponenti del «realismo socialista» [De Micheli 1970, 281-283]. Perfino i leader comunisti italiani – come vedremo nel quarto capitolo – sbeffeggiavano gli artisti provvisti di tessera del Pci, ma che si discostavano dalla «sana» arte figurativa per rincorrere chimere astratte o concettuali. Insomma, i benpensanti russi e americani, sul piano artistico, più che in guerra fra loro sembrano schierati dalla stessa parte della barricata, contro lo spirito anarcoide di alcune tendenze dell'avanguardia. Nel frattempo, il vecchio Picasso mostra di non capire bene che cosa stia succedendo nel panorama dell'arte e si scaglia contro la nascente arte informale americana:

La rivista «Time» riferisce: «Egli [Picasso] è convinto che un'opera debba venir costruita, è angosciato dai lavori di molti espressionisti astratti. Una volta ha afferrato un tampone di carta assorbente pieno di macchie di inchiostro e l'ha agitato davanti a un visitatore sbottando: "Jackson Pollock!"» [Greenberg 1991, 69].

Per i funzionari americani distinguere i nemici dagli amici diventa un compito più complesso del previsto. Il mondo dell'arte si rivela aggressivo, sfuggente e incomprensibile, più di quanto quei professionisti dell'intrigo fossero in grado di immaginare. Tuttavia, gli uomini del governo si rivelano all'altezza del compito e perseguono senza tentennamenti la promozione dell'avanguardia americana. In questo senso, l'interferenza del progetto della Cía nel mondo dell'arte rappresenta paradossalmente una specie di ventata d'aria fresca, perché nasce da un mero calcolo politico e non da una battaglia fra studiosi di estetica o rappresentanti di qualche movimento. Avendo preso a cuore la missione con estrema professionalità, gli agenti, infiltrati nei musei e costretti a frequentare salotti e inaugurazioni, sopravvivono all'esperienza, dimostrandosi, alla fine, più competenti e flessibili degli stessi addetti ai lavori dell'arte. Per esempio, negli anni Trenta Pollock aveva collaborato con il comunista David Alfaro Siqueiros, il famoso muralista messicano, ma, tutto sommato, ciò non aveva più importanza:

La cosa straordinaria dei politici quando si occupano d'arte è che significa qualcosa per loro, siano fascisti o sovietici o americani della Cia. Si può così arrivare alla tesi veramente perversa secondo cui la Cia fu il miglior critico d'arte d'America negli anni Cinquanta, perché venne in contatto con opere che avrebbero potuto essere considerate opposte alla sua visione, realizzate da artisti della vecchia sinistra, derivate dal surrealismo europeo, ma riconobbe il valore potenziale di quel tipo d'arte e la sostenne. Non si potrebbe dire lo stesso di molti critici d'arte di quel periodo [Saunders 2004, 233].

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Pagina 67

II
L'arte del denaro



                                    Le funzioni spirituali, in base alle quali
                                    la modernità si accorda con il mondo e ne
                                    regola i rapporti interni – individuali e
                                    sociali –, si possono in gran parte definire
                                    in termini di calcolo.
                                                              Simmel [1984, 627]


                                    Forse dovrei produrre dei veri dipinti
                                    comunisti la prossima volta. Andrebbero via
                                    come il pane.
                                                                    Andy Warhol,
                                                      cit. in Danto [2010a, 142]



1. «Guernica» e la guerra (dei discorsi)

Dalla Gioconda di Leonardo da Vinci alle Marilyn Monroe serigrafate di Andy Warhol, la storia dell'arte è ricca di opere notissime, amate incondizionatamente da un pubblico ampio e trasversale. Senza togliere nulla a queste icone, è lecito domandarsi perché proprio loro, e non altre, siano diventate così popolari. Non è necessario essere addetti ai lavori per comprendere che una notorietà così grande non dipende soltanto dalle caratteristiche specifiche delle opere, quanto soprattutto da fattori esterni. I capolavori acclamati dell'arte devono la loro fama principalmente al discorso artistico che li ha definiti in quanto tali, proiettandoli nel cielo della celebrità.

Alcune opere sono razzi spettacolari, che si innalzano a una fama quasi istantanea, capace di illuminare il paesaggio circostante per un attimo e quindi spegnersi per sempre. Più interessante è il caso opposto, quello di opere che, dopo un parziale riconoscimento, a poco a poco salgono allo zenith grazie a una pressione ascensionale interna e sospinte dalle circostanze storiche. Guernica di Picasso è salita così ai vertici, ora che è custodita come una reliquia in una cappella al Prado [Arnheim 1994, 98].

La fama eccezionale di cui gode ancora oggi il quadro di Picasso conferma il giudizio di Arnheim. Essa suscita, oggi come in passato, una notevole commozione. La grande composizione in bianco e nero, più che ricordare l'episodio specifico del bombardamento nazista di una città spagnola, è ormai una specie di manifesto dello strazio della guerra – di qualsiasi guerra. Ed è proprio questa sua universalità che l'ha resa così importante facendole guadagnare lo status di capolavoro presso qualsiasi tipo di pubblico:

Ogni comunità sulla faccia della terra che abbia sofferto le atrocità della storia è diventata sinonimo del quadro Guernica e del luogo, Gernika, la patria spirituale offesa dei baschi assediati. Ogni volta che il lungo lamento delle sirene risuona in qualche città minacciata lontano da noi, ogni nuovo conflitto, ogni nuovo bombardamento, ogni atto di devastazione totale pone il quesito: sarà questa la Guernica della nostra epoca? [Van Hensbergen 2006, 13]

L'opera di Picasso è dunque un'icona del Novecento e, pur ricordando un episodio specifico, riassume gli orrori di tutto il secolo. Ma ci domandiamo: perché Guernica e non opere d'arte politicamente esplicite come i taglienti disegni di Georg Grosz o i fotomontaggi di John Heartfield? Una prima risposta è che Guernica è, prima di tutto, «un Picasso»: cioè l'opera di un artista la cui abilità nel produrre aura intorno a sé non è certamente inferiore ai suoi meriti artistici. Il mito di Picasso è tale da superare di gran lunga quello di altri artisti ed è in fondo indipendente dal valore della sua opera. La seconda risposta è che Picasso non inserisce in Guernica alcun riferimento esplicito né ai carnefici, né alle vittime, operando così una totale astrazione dal fatto di cronaca. Guernica è simbolo di ogni guerra, di ogni sofferenza e di ogni violenza:

Picasso non si è mai dimostrato disposto a dire molto su quello che intendeva esprimere attraverso la sua pittura, e la sua opera evita un contatto immediato con gli eventi. Essa formula il suo forte giudizio attraverso come un velo che rende tutto indiretto. L'ambiente in cui la scena si svolge non rappresenta in modo diretto l'una o l'altra città di Guernica, ma rappresenta piuttosto, come è stato dimostrato in modo convincente, una scena teatrale, che a sua volta allude a vedute di Guernica, ed è quindi doppiamente lontano dalla scena effettiva del bombardamento [Arnheim 1994, 104].

Non si tratta più, quindi, di ciò che è accaduto il pomeriggio del 26 aprile 1937: invece degli aerei nazisti della legione Condor, Picasso mette in scena la crudeltà e, al posto dei 1.645 baschi uccisi, la sofferenza universale. Egli rappresenta quella folta schiera di artisti che, rivendicando il diritto (sacrosanto) all'autonomia dell'arte, subordinano ogni fenomeno che li circonda ai valori autonomi della composizione, della forma e del colore (nel caso della pittura):

Se io fossi un chimico, fascista o comunista, ed avessi ottenuto nelle mie provette, mescolando vari elementi, un liquido rosso, ciò non significherebbe che io stessi facendo propaganda comunista, vero? Se io dipingo una falce e un martello la gente può pensare che siano il simbolo del comunismo, ma per me sono soltanto una falce e un martello [Picasso 1998, 47].

In nome della supremazia assoluta dell'arte, Guernica ha potuto diventare ciò che è. Fin dal primo schizzo preparatorio, Picasso ha chiarissimo il suo obiettivo. Probabilmente, mentre inizia a dipingere, sa già che Guernica diventerà un'icona, e non solo per l'imponenza dell'opera e per la sua drammatica forza espressiva. Guernica, grazie alla prevalenza in Picasso dell'artista sull'ipotetico militante, è un capolavoro dell'arte, ma anche della diplomazia, e tale resta anche a guerra di Spagna finita.

[...]

L'ambiguità di Picasso non impedisce affatto che, per molti, Guernica sia un simbolo al di sopra di ogni sospetto e incarni valori indiscutibili. La venerazione sincera del suo pubblico redime l'opera in modo definitivo. Ciò non toglie che essa nasca fin dall'inizio su presupposti ambigui.

Parigi, 1937. Esposizione internazionale Arts et techniques dans la vie moderne: nel padiglione spagnolo campeggia Guernica, mentre poco distante, in quello tedesco (progettato da Albert Speer), troneggia una colonna alla cui sommità svetta una svastica. In quello stesso anno si apre a Monaco la mostra dell'«arte degenerata» (entartete Kunst), che raccoglie tutte le avanguardie artistiche, partendo da Van Gogh per arrivare al Bauhaus e all'espressionismo di Grosz e Dix. La natura «teatrale» di Guernica è esattamente ciò che occorre per conciliare diplomaticamente i paesi partecipanti o, almeno, per non fare emergere i loro conflitti. Certamente, l'esposizione parigina non avrebbe potuto tollerare un'opera del già citato Heartfield in cui compaiono le stesse svastiche che a poca distanza decoravano il padiglione tedesco (fig. 10). La differenza fra i due artisti è semplice: Picasso allude a una colpa che, partendo da Guernica, si estende all'intera umanità. È una colpa eterna e irredimibile, un peccato originale. Heartfield, nei suoi collage, indica non una colpa, ma una responsabilità che, come tale, non è moralisticamente estendibile all'umanità intera, ma riguarda precisamente chi ha commesso crimini così atroci e reali.

[...]

Riassumiamo: Miuccia Prada, il cui gruppo, quotato alla borsa di Hong Kong, ha chiuso il bilancio dell'anno 2012 con un fatturato di 3,29 miliardi di euro, e l'artista Höller, che realizza le sue opere grazie al miliardario russo Leonid Mikhelson (il quale, secondo la rivista americana «Forbes», guadagna quattro miliardi di dollari all'anno), hanno in comune un punto di vista: il disprezzo per il mercato, «preda di troppi interessi», e per il «pensare utilitaristico dominante». Crea qualche perplessità constatare come le critiche al «pensare utilitaristico dominante» del mercato provengano da chi ha una posizione dominante nel mercato della moda e in quello dell'arte.

Un ricco mecenate può promuovere un artista per diversi motivi: perché scommette sul suo successo, perché apprezza sinceramente il suo lavoro, perché lo considera un investimento o magari un giocattolo e, soprattutto, un produttore d'aura. Come ricorda acutamente Andy Warhol a proposito dei suoi collezionisti e galleristi: «Non volevano i miei prodotti. Continuavano a dirmi: vogliamo la tua aura» [Warhol 2001, 67]. L'aura dell'arte, ovvero la legittimazione estetica di un punto di vista morale, è stata capace di trasformare dittatori sanguinari e papi senza scrupoli in modelli di virtù e spaventose carneficine in gesta eroiche. Anche oggi, la sua funzione non è cambiata: un miliardario può trasformarsi in un nemico dichiarato del capitalismo, un trafficante d'armi può diventare un raffinato intellettuale, un politico che tenta di rifarsi l'immagine può travestirsi da paterno e lungimirante sponsor di giovani talenti. Naturalmente, c'è aura e aura e ciascun artista vende la sua, specificando nel contratto i termini della cessione.

[...]

In Italia, la più nota e fedele collezionista di Beuys è certamente Lucrezia De Domizio Durini. Ecco come costei ricorda l'artista, elencando alcuni principi della sua poetica:

6. Critica contro il materialismo, figlio dello sviluppo unilaterale dei poteri del pensiero. Esso disconosce gli altri vitali aspetti della creatività umana e naturale.

7. La necessità di porre rimedio a tutto questo, creando una strada alternativa sia al capitalismo, sia al consumismo. La necessità, quindi, di elaborare dei modelli reali, che propongano un ordinamento sociale in cui le facoltà umane vengano realizzate nella loro completezza [...] La rivoluzione è dentro di noi. Nelle nostre idee risiede l'unica rivoluzione possibile: «LA RIVOLUZIONE SIAMO NOI» è il secondo slogan del maestro tedesco [...] Solamente attraverso la Living Sculpture è possibile scardinare il miserabile sistema in cui l'uomo contemporaneo s'è trovato ingabbiato. Ciò di cui c'è bisogno è una collaborazione fatta da uomini liberi di differenti razze, origini, religioni, ceti sociali, culturali ed economici [De Domizio Durini 2004, 15].

Non nascondiamo che al cattolico e steineriano Beuys e alle sue frequentazioni sospette preferiamo la cinica e malinconica Drella (come Warhol era chiamato nel suo ambiente) e la sua banda di freaks e celebrità varie. E non possiamo nemmeno nascondere che le dichiarazioni di guerra al capitalismo dell'artista tedesco sono spesso raccolte e apprezzate da un pubblico a dir poco incongruo. Non vorremmo sembrare disfattisti, ma abbiamo l'impressione che l'impegno di Lucrezia De Domizio Durini per trovare una strada alternativa al capitalismo e al consumismo non porterà a grandi cambiamenti. D'altronde, finché la rivoluzione è dentro di loro (e non fuori) il «miserabile sistema» non è certamente a rischio.

[...]

La relazione fra arte e denaro è tanto ambigua quanto indissolubile: il potere compra gli artisti attraverso il denaro, ma, nel contempo, il denaro è ciò che permette a questi ultimi di acquistare autonomia e libertà, anche nei confronti della committenza. Nelle pagine che seguono proponiamo un esempio dell'insuperabilità di questo vero e proprio loop.

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Per cominciare, la categoria di falso appare gravida di significati religiosi, morali e sociali – e quindi derivata dal dualismo che sembra governare gran parte delle culture. Si direbbe che l'umanità non possa esistere senza un altro da sé simmetrico e opposto, inevitabilmente negativo, insomma un nemico. Ed ecco che i concetti di sinistro, buio, cattivo, brutto, falso, illusorio ecc., pur non coincidenti – in quanto pertinenti alla topologia, all'ottica, alla morale, all'estetica, all'epistemologia, alla psicologia ecc. – finiscono per attirarsi e sovrapporsi, fino a rappresentare un'alterità negativa indispensabile a ogni discorso o retorica. In particolare, la figura del falsario coincide con quella di un demiurgo cattivo, ovvero un creatore che usa le sue capacità non per nobili fini artistici, come la bellezza o il progresso dell'umanità, ma per scopi sordidi o diabolici.

Nella sua critica della metafisica e della morale, Nietzsche ha gettato le premesse per una decostruzione radicale dei dualismi vero/falso, buono/cattivo, morale/immorale ecc. e dell'indebita traduzione da un dualismo all'altro. Qualche decennio dopo Nietzsche, Max Weber ha affermato con forza la non coincidenza di verità, bellezza, giustizia ecc. — e di conseguenza la non traducibilità dei relativi contrari [Weber 2004]. Questo vale soprattutto in campo artistico. Un'opera può essere vera (nel senso di autentica, cioè realizzata proprio da chi la firma) senza avere alcun valore estetico riconosciuto (si pensi alle innumerevoli croste che riempiono i magazzini dei musei). Viceversa, capita che un falso sia considerato bello, anche quando è stato smascherato. Le combinazioni sono molteplici e non possono essere schematizzate in una tabella a due valori. La ragione principale di questa indeterminatezza costituiva dei significati nel mondo artistico è che il valore o la qualità di un'opera non risiede nelle sue caratteristiche intrinseche o tecniche, ma nella sua aura, ovvero nel discorso che la definisce – influente e talvolta decisivo, anche se mutevole, socialmente condizionato e storicamente determinato [Becker 2004].

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5. Una questione di responsabilità

Di solito andiamo in un museo per contemplare le opere d'arte, per curiosità o semplicemente per passare il tempo. Per quanto la nostra concezione dei musei possa essere dissacrante o spregiudicata, in un museo non parliamo ad alta voce, non mangiamo, non beviamo, né attacchiamo conversazione con gli estranei (e se lo facciamo, parliamo a bassa voce). E tanto meno sfrecciamo in bicicletta per le sale. Un museo non è una piazza e tanto meno un'agorà. Inoltre, un museo è un luogo facoltativo, non obbligatorio. Facendo un museo di Gibellina, una città progettata per 40.000 persone ma abitata da poco più di 5.000, i responsabili hanno inevitabilmente costretto gli abitanti a parlare a bassa voce, a comportarsi come se fossero ospiti di un luogo non loro. E questo vale anche per i visitatori, interessati o no a tutta l'arte che li circonda, che si sentono inevitabilmente degli intrusi. Ecco la ragione del silenzio che stordisce chiunque visiti Gibellina Nuova.

Una volta, il mecenate e artista Antonio Presti commissionò a Pietro Consagra una scultura in memoria del padre, per fare della sua morte «non un fatto privato, ma un fatto pubblico». Era nel suo pieno diritto, anche se è abbastanza discutibile che, persino nell'arte, si debbano mescolare le due sfere. Tuttavia, nel caso di Gibellina Nuova, che una moltitudine di artisti e architetti – anche per nobili motivi – abbiano imposto le loro visioni personali o private dell'arte a una società reale, per quanto strappata dal terremoto al suo tradizionale insediamento, non è un episodio che si possa liquidare come meramente artistico o di storia dell'architettura. È un atto di forza che mostra quanto la dimensione del potere sia intrinseca nell'arte. E quanto, al tempo stesso, questo potere possa essere vano.

Una sorta di imbarazzo circonda la realizzazione di Gibellina Nuova. Le storie dell'architettura ne parlano malvolentieri e raramente come di un fatto unitario. Allo stesso modo, la critica d'arte si interessa soprattutto dei singoli artisti. Periodicamente, qualche giornalista riscopre questa storia e ripartono le polemiche. Ora, la sola opera di tutto il Belice che sembra mettere d'accordo tutti è il Grande cretto (cioè la grande fenditura) di Alberto Burri. L'artista non volle essere coinvolto nella fondazione di Gibellina Nuova e scelse invece di lasciare il segno sul sito di quella vecchia. Tra il 1984 e il 1989, dieci ettari di macerie vennero spianate, pareggiate a un metro e mezzo d'altezza circa, e ricoperte di cemento. Il risultato è una sorta di labirinto che riproduce parzialmente la pianta della cittadina rasa al suolo. Come abbiamo detto sopra, il Cretto dovrebbe costituire un vasto monumento alla memoria della città morta. Noi non discutiamo la potenza di quest'opera funebre di Land art. Ma ci chiediamo: essa onora la memoria di una distruzione o quella dell'artista? Se si fosse voluto ricordare per sempre il terremoto, forse le macerie avrebbero rappresentato meglio il trauma del sisma. Così com'è stato ideato, invece, il Cretto cancella qualsiasi ricordo dell'antica cittadina. Il Cretto, che per noi è l'opera d'arte più rilevante e meno prepotente (almeno nei confronti degli esseri umani) di tutto il Belice, è una sorta di tabula rasa e sintetizza come la cultura dell'urbanizzazione abbia vinto definitivamente. Dopotutto, di una colata di cemento si tratta.

Con tutto quello che precede, lo ripetiamo, sospendiamo il giudizio sulle correnti artistiche e architettoniche che hanno plasmato questo singolare esempio di fallimento urbanistico e artistico del XX secolo. Forse una maggiore modestia di artisti e architetti, se non altro nelle dimensioni delle opere, avrebbe limitato lo sconcerto di chiunque visiti Gibellina. Ma qui la questione non è estetica. Riguarda semplicemente la relazione di potere che intercorre tra artisti e vita reale. Noi non pretendiamo che gli artisti si pieghino alle esigenze della società a cui le loro opere sono destinate. Ma quando operano per gli esseri umani, e non in nome di teorie artistiche o utopie, dovrebbero cominciare con l'ascoltarli o almeno porsi al loro livello. Rivedendo oggi le immagini delle inaugurazioni delle opere d'arte di Gibellina Nuova, tra gli anni Ottanta e Novanta, si nota facilmente come gli artisti incedano tra gli abitanti come se fossero sacerdoti di qualche culto. Ciò appare, ieri come oggi, vagamente ridicolo. Ma il punto è che se gli artisti e gli architetti si fossero messi nei panni delle popolazioni del Belice, probabilmente avrebbero evitato clamorosi errori di progettazione e non avrebbero fatto di Gibellina Nuova un esperimento fallito già a pochi anni dalla fondazione. E le loro opere, forse, non sarebbero corrose dalla ruggine e dall'incuria.

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2. Quanto è bello quel Caravaggio!

Perlopiù, gli artisti, i critici e i curatori, d'avanguardia o conservatori che siano, hanno a cuore un solo obiettivo: mantenere l'esclusiva della produzione dell'aura, cioè del carisma dell'arte [Benjamin 2012, 17ss.]. Come abbiamo sostenuto in un precedente saggio [Dal Lago e Giordano 2006], l'aura non è mai morta, ma sta benissimo e continua a esercitare il suo ruolo insostituibile. Dai graffiti di Lascaux a oggi, essa ha il potere di trasformare un segno, un manufatto, un oggetto, una situazione o un'idea qualsiasi in arte. L'aura regola le relazioni interne al sistema dell'arte, stabilisce gerarchie e investe nuovi territori, arricchendo sia la scena, sia il mercato dell'arte. Come è facile dedurre dagli esempi citati nei capitoli precedenti, è grazie all'aura che il lavoro degli artisti diventa opera. Naturalmente, l'aura è assai ambita fuori dai confini dell'arte; è grazie al suo ruolo che gli artisti, in una certa epoca, si mettono alla testa dei popoli, che un quadro diviene emblema dell'antifascismo, che i miliardari si trasformano in collezionisti o mecenati, che uno scultore fa l'architetto e così via. L'aura, riassumendo, è il potere dell'arte. È difficile, dunque, immaginare che cosa succederebbe se chiunque potesse attribuire un valore artistico a ciò che fa, cioè se potesse produrre aura, per così dire, in proprio.

Ed ecco un esempio concreto, una vicenda che abbiamo conosciuto personalmente. Nella zona del porto di Genova, esisteva un tempo l'Ansaldo meccanica che, dal 1918, produceva proiettili e cannoni. Nei primi anni Ottanta l'Ansaldo perde migliaia di ordini e nel 1987 chiude definitivamente i battenti. Lo stabilimento è abbandonato e iniziano a crescere arbusti e fiori tra i capannoni. Una decina d'anni dopo la chiusura, qualcuno ha l'idea di utilizzare come set teatrale gli spazi della fabbrica dismessa, così come sono, con i giganteschi macchinari arrugginiti. Nel 1998, in questa scenografia già pronta e di grande effetto, va in scena con grande successo di pubblico una tragedia di Eschilo, I Persiani. Molti cittadini, colpiti dall'esperimento, propongono che gli stabilimenti dell'Ansaldo meccanica non vengano distrutti, ma destinati ad altri usi, soprattutto culturali. Anche alcuni ex operai, che avevano vissuto le dure condizioni del lavoro nella fabbrica, sono d'accordo, affinché gli impianti testimonino una storia fondamentale per una ex città industriale come Genova. Questa, insomma, poteva essere l'occasione per fare dell'area un grande ready-made voluto dai cittadini, trasformando una fabbrica di armi (e quindi di morte) in una fabbrica di idee.

Ma non è andata così. Le autorità locali, preferendo ovviamente un gigantesco affare immobiliare allo sviluppo culturale, hanno deciso per lo smantellamento dell'Ansaldo (con notevole coerenza, d'altronde: Genova è una delle città italiane più devastate dal cemento). Al posto dell'Ansaldo meccanica sorge oggi un gigantesco centro commerciale (di rara bruttezza, se ci è consentito un giudizio estetico). Ci pare che l'episodio mostri chiaramente come i comuni cittadini, ovvero il potenziale pubblico dell'arte, non abbiano alcuna facoltà di attribuire autonomamente un valore estetico a manufatti, opere o edifici — proprio come vogliono artisti, curatori e critici. Infatti, non dispongono di potere discorsivo in campo artistico, per quanto siano potenti i loro argomenti, come l'efficacia scenografica di uno spazio urbano e la memoria di cui esso è testimonianza.

I cittadini godono certamente della libertà di entrare nei musei che, per fortuna, sono spesso luoghi piacevoli e accoglienti. Possono trascorrere un'intera giornata in uno spazio espositivo attrezzato, acquistare online i biglietti per una mostra importante, visitare le grandi collezioni, andarsene in giro per monumenti, chiese ed edifici storici. Tutto sommato, sono liberi [Anderson 2004]. Ma liberi di assistere a uno spettacolo che, per lo più, non è stato scritto o messo in scena dagli artisti, ma da chi ha l'autorità di produrre il discorso dell'arte, creando un'aura, spesso fumosa, intorno alle opere. Dalla scuola al museo, dall'infanzia all'età adulta, il pubblico è stato educato ad accettare tale mediazione. Come nella favola di Barbablù, può visitare ogni stanza dell'arte, alla condizione di non aprire mai una certa porta, dietro la quale c'è lo spazio segreto del discorso, alla cui produzione non può assistere, né partecipare. Senza discorso, cioè senza aura, un'opera d'arte è ridotta a uno strato di pittura colorata su una tela o su un pezzo di legno. Prima che Albert Aurier [1890] scrivesse un articolo di lode sulla sua pittura, le tele oggi universalmente venerate non erano considerate che espressione di un disagio psichico di Vincent Van Gogh.

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3. La sindrome di Warhol

Tachicardia, vertigini, confusione e allucinazioni. Non stiamo citando gli effetti indesiderati di qualche psicofarmaco, ma la «sindrome di Stendhal», una patologia della psiche «scoperta» qualche decennio fa [Magherini 1989]. Le emozioni che lo scrittore francese provò a Firenze, apparentemente sopraffatto dai capolavori che lo circondavano, probabilmente hanno poco a che fare con l'arte. Partendo dalle sue innocenti annotazioni, è nata una vera e propria patologia immaginaria che alcuni prendono ancora sul serio. Pare che, ogni estate, l'ospedale di Santa Maria Nuova si riempia di turisti storditi che temono di essere stati contagiati. La sindrome, nonostante la sua natura fantasiosa, compare in diverse enciclopedie:

Stendhal, sindrome di. Complesso di manifestazioni di disagio e sperdimento psichico conseguenti a una forte esperienza emozionale subita, in partic., da visitatori di centri storico-artistici dove più forte e caratterizzante è il contesto culturale [...] L'analisi della sindrome ha messo in evidenza le complesse interazioni psicosomatiche che possono attivarsi in alcuni individui, con particolari condizioni psichiche predisponenti, quando il contesto ambientale favorisce gli aspetti di sradicamento rispetto alle proprie abitudini di vita.

La presunta malattia sarebbe dunque causata da un eccesso d'arte, da una sorta di indigestione percettiva di capolavori. Per questo motivo, Firenze è il luogo perfetto perché si manifesti. Ora, noi vogliamo dare il nostro piccolo contributo alla scienza medica, segnalando una nuova sindrome, quella di Warhol, detta anche «sindrome americana», per via del luogo in cui le sue manifestazioni sono più probabili. Chi ne è affetto non riuscirebbe più a distinguere ciò che è interessante da ciò che è banale. In mezzo a una strada, in un supermercato o in qualsiasi altro luogo, chi è colpito dalla sindrome di Warhol trova tutto straordinariamente significativo. Naturalmente, se è così, non può più comprendere la differenza tra bello e brutto o tra buono e cattivo. Da qui i comportamenti a dir poco immorali di coloro che sono affetti da tale sindrome: tendenza ossessiva alla confusione di alto e basso, mancanza di rispetto per i monumenti, una certa intolleranza per i capolavori indiscutibili e, in certi casi, pericolosa tendenza a ridiscuterli.

La sindrome esisteva probabilmente prima che nascesse Warhol ed è apparsa in artisti che, senza aver mai messo piede in America, hanno accusato proprio gli stessi sintomi. Vincent Van Gogh, per esempio, divenne apparentemente incapace di distinguere l'oggettiva bellezza di un campo di grano dalla banalità di un paio di scarpe. Come Caravaggio, Van Gogh non voleva dipingere qualcosa di bello: né nel caso del campo di grano, né nel caso delle scarpe vecchie. Molto probabilmente, mentre era ancora in vita, avrebbe trovato qualcuno disposto ad ammettere la bellezza del primo soggetto, ma non del secondo. Oggi, tutti noi troviamo belle le scarpe di Van Gogh, anche a costo di contraddire il punto di vista del loro autore che non le trovava belle, ma «parlanti». Chi loda oggi quelle di Van Gogh è del tutto indifferente, invece, di fronte a un nuovo paio di scarpe qualunque, che non gli dicono niente. Insomma, le scarpe dipinte da Van Gogh devono essere belle. Le nostre, usate o gettate in un cassonetto della spazzatura, non possono esserlo, perché nessun artista le ha ancora notate. In base a quanto precede, possiamo azzardare la seguente definizione: non è arte tutto ciò che non è ancora stato autorizzato come tale. Al contrario, è arte tutto ciò che 1) è già caduto sotto lo sguardo degli artisti e 2) il cui riconoscimento estetico, da soggettivo che era, si è trasformato in oggettivo. Se questo è vero, tutto potrebbe diventare arte. A trasformazione avvenuta, è consentito a chiunque riconoscere il valore estetico dell'oggetto trasfigurato, avvolto cioè dalla sua aureola artistica.

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