Copertina
Autore Alessandro Dal Lago
Titolo Carnefici e spettatori
SottotitoloLa nostra indifferenza verso la crudeltà
EdizioneCortina, Milano, 2012, minima , pag. 220, cop.fle., dim. 12x19,5x1,8 cm , Isbn 978-88-6030-460-5
LettoreGiangiacomo Pisa, 2013
Classe guerra-pace , storia criminale , sociologia , critica letteraria , storia antica , storia contemporanea
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Indice


Prologo
Lo show planetario della crudeltà                 9


1. La crudeltà degli antichi e dei moderni       25

2. Volgere lo sguardo                            63

3. L'oscurità della battaglia                   107

4. Come la guerra è diventata invisibile        153

5. Guerre che non c'erano                       189


Indice dei nomi                                 213

 

 

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Pagina 9

Prologo
Lo show planetario della crudeltà



                                E un tizio di bassa estrazione,
                                Frutto di una terra ingrata,
                                Degli anni a venire fatale zimbello
                                Praticato un foro con un succhiello,
                                Tremante si avvicinò a sbirciare —
                                Ma i suoi occhi, prima di poter vedere,
                                Si rinsecchirono accecati nella testa
                                E gli caddero davanti. Così Iddio,
                                Che da noi s'attende nobili atti
                                Cancellò un senso usato male.

                                           ALFRED TENNYSON, Lady Godiva



Quando è iniziato l'intervento NATO in Libia (marzo 2011), ho cercato, per quanto mi era possibile, di tenermi aggiornato. Per alcune settimane, ho letto un gran numero di quotidiani e periodici. Per qualche ora al giorno mi sono incollato allo schermo del computer e ho scandagliato i siti web, da quelli che riportavano il punto di vista dei ribelli a quelli che ospitavano analisi militari fino a quelli facenti capo ad agenzie ufficiali di intelligence. Ho seguito i notiziari televisivi più autorevoli o diffusi (BBC, CNN, Al Jazeera ecc.). Mi sono creato un archivio di articoli, documenti, saggi e video, proprio come avevo fatto per le altre guerre che, direttamente o indirettamente, i Paesi occidentali, Italia compresa, hanno combattuto negli ultimi vent'anni.

È il mio lavoro. Da anni mi occupo di questioni militari. Aggiungo che perseguo con un certo spirito polemico un'idea di scienza sociale capace di trascendere gli angusti limiti in cui appartenenze accademiche, conformismo metodologico e pigrizia concettuale hanno confinato la sociologia e l'antropologia. Credo, con Immanuel Wallerstein, che questi saperi siano destinati a un declino irreversibile, a meno che non assumano come campo di ricerca la dimensione mondiale dell'economia e della politica. E a meno che, di conseguenza, non si occupino anche dei conflitti, armati e no, che coinvolgono società apparentemente distanti tra loro, ovvero quelle occidentali e le altre che un tempo si sarebbero definite del "terzo mondo".

Ed eccomi, nella primavera del 2011, ad accumulare informazioni sull'intervento in Libia, come hanno fatto e fanno migliaia di miei simili, accademici e no, in giro per il mondo. Ma si tratta solo di questo? La curiosità occidentale è esclusivamente "scientifica", espressione diretta del demone del razionalismo moderno, come vogliono farci credere Karl Popper e Hans Blumenberg? Non lo credo. E non mi riferisco solo a quanto di specificamente voyeuristico comporta inevitabilmente una prospettiva giornalistica, sociologica o antropologica. No, sto parlando dello spettatore affamato di eventi che fa capolino in ognuno di noi, ricercatori o profani, quando apre un quotidiano o accende il televisore e assiste alla messa in scena della violenza e della guerra.

Quando penso a tutto ciò, mi viene in mente il peep show. Questo spettacolo, che Wim Wenders ha celebrato a suo tempo in Paris, Texas, è in sostanza un tipo di erotismo on the spot. Invece di noleggiare o scaricare un film porno, il cliente va in certi locali specializzati (ne esistono nelle metropoli americane ed europee), acquista un gettone e assiste, per lo più dietro un vetro, alle evoluzioni sessuali di professionisti, singoli o in coppia. Vorrei ribadire la differenza temporale ed esistenziale tra questo tipo di performance e la pornografia vera e propria: non si tratta di guardare, al cinema o in rete, una serie di atti sessuali girati e montati alla meglio in qualche parte del mondo, magari anni prima. Nel peep show, o in altri tipi di show dal vivo on demand, è come se il sesso fosse messo in scena lì per voi e per altri che assistono. Un'unità molto aristotelica di azione, tempo, luogo e pubblico.

Non si può parlare ovviamente di prostituzione, perché in questi spettacoli il cliente partecipa per lo più come spettatore, anche se, negli show dal vivo nei locali porno o nella lap dance, si trova in prossimità o addirittura a contatto con le attrici o con gli attori. Indipendentemente dunque dal significato di queste esibizioni (si tratta di voyeurismo), assistervi di persona, condividendo il tempo e il luogo di ciò che viene messo in scena (o, se si è in rete, il momento reale e il luogo virtuale), è condizione essenziale perché esse abbiano luogo. Lo spettatore è parte indispensabile dello spettacolo.

Non vorrei essere frainteso: non voglio riprendere una volta di più le considerazioni sulla pornografia dello sguardo che Baudrillard ci ha reso familiari, né recitare qualche giaculatoria moraleggiante. Penso invece all'onnipotenza inconsapevole dello spettatore, e cioè al fatto che egli costituisce, magari senza rendersene conto, la condizione specifica e necessaria del tipo di evento messo in scena. Nella pornografia cinematografica, quella che ha come capitale mondiale la San Fernando Valley, i film vengono prodotti per un pubblico astratto e generico. Il numero di atti sessuali, la tipologia (straight, perversioni ecc.) e la definizione del target (pubblico eterosessuale, gay ecc.) mirano ad acquirenti suddivisi in un vasto campionario di tipi che però, ovviamente, non partecipano alle riprese. Nel peep show, al contrario, lo spettatore deve essere lì, davanti alla scena, mentre questa si compie. Senza un pubblico presente fisicamente o virtualmente, lo show non può aver luogo.

In un noto romanzo-saggio, La mostra delle atrocità, James G. Ballard ha scandagliato i nessi profondi tra crudeltà, erotismo e voyeurismo (che d'altra parte sono stati esposti nelle linee essenziali, due secoli fa, dal marchese de Sade ). Avendo in mente le riflessioni di Ballard, ritengo che la copertura mediale delle guerre contemporanee sia strutturalmente simile a un peep show. Apparentemente, siamo su un piano analogo a quello del cinema pornografico. In realtà, la copertura presuppone un pubblico planetario che, con la sua presenza in diretta, e anzi partecipante, rende possibile la messa in scena della violenza armata. Insomma, un peep show militare globale.

Ed ecco qualche fatto. Alcune emittenti (soprattutto Al Jazeera) hanno falsificato le notizie sulle stragi che Gheddafi avrebbe compiuto sui cittadini libici all'inizio del 2011. In un servizio si mostravano "fosse comuni" di insorti uccisi scavate nella periferia di una città libica. In realtà si trattava di un cimitero in normale attività. Diverse volte, i media hanno rilanciato l'accusa secondo cui Gheddafi avrebbe distribuito ai suoi soldati Viagra per stuprare le donne di Bengasi. Queste notizie, di per sé inverosimili, sono state rapidamente smentite dalle Nazioni Unite e da altri osservatori internazionali dei diritti umani. È vero che l'esercito libico ha commesso atrocità sulla popolazione e, durante la guerra, durata sei mesi, ha giustiziato i suoi prigionieri (così come gli insorti hanno giustiziato i loro prigionieri). Ma l'aver fatto vedere "fosse comuni" e l'aver parlato di "stupri di massa" perpetrati dai gheddafiani ha avuto un impatto emotivo evidente. E proprio su questo hanno fatto leva Sarkozy e Cameron per giustificare i bombardamenti NATO. Tornerò ancora, nell'ultimo capitolo di questo saggio, sulle giustificazioni. Ma mi preme notare come í media, direttamente o no, abbiano letteralmente partecipato alla guerra contro Gheddafi. Esattamente come avevano reso possibile, rilanciando la famosa storia delle armi di distruzione di massa di Saddam, l'intervento anglo-americano in Iraq del marzo del 2003.

Il caso delle guerre contemporanee mostra che la società globale non è solo innervata dai media, il che è ovvio, ma in larga parte costituita dai media, tradizionali o innovativi che siano. In alcuni casi i media hanno uno specifico peso politico. Così, l'emittente televisiva Al Jazeera, di proprietà dell'emiro del Qatar, ha avuto un ruolo fondamentale nel costruire una certa immagine della rivolta in Libia, trasformando essenzialmente una guerra civile in una sollevazione popolare e restituendo, in tal modo, un'immagine evidentemente favorevole non solo a una fazione, ma ai poteri occidentali che sono intervenuti. Anche le testate giornalistiche hanno svolto un ruolo decisivo pubblicando appelli di opinion maker o intellettuali prestigiosi o supposti tali, primo fra tutti il soi-disant filosofo Bernard-Henri Lévy, il quale si vanta ancora oggi di essere stato uno dei principali ispiratori dell'intervento in Libia deciso da Sarkozy e, mentre finisco di scrivere questo saggio, pretende di svolgere lo stesso ruolo con Hollande per quanto riguarda la situazione in Siria.

Con tutto questo, voglio semplicemente dire che i media hanno giocato un ruolo attivo in quella che gli strateghi contemporanei chiamano infowar o guerra dell'informazione, che è considerata parte integrante di una strategia militare complessa. Si tratta di un ruolo talvolta deliberato, come nel caso di Al Jazeera, ma più spesso frutto di credulità, subordinazione alle fonti considerate più autorevoli o della semplice appartenenza di campo (se siamo occidentali non possiamo che guardare con simpatia agli interventi per fermare un genocidio, fondare la democrazia ecc.). Ma in ogni caso sono i media a fornire, intenzionalmente o no, a centinaia di milioni di spettatori il copione dello spettacolo.

Parlare dei media (o almeno di alcuni media) significa, inevitabilmente, parlare di noi, gli utenti, il pubblico. Credo che qui qualsiasi idea di manipolazione o complotto sia fuori luogo. È vero che i media costituiscono la realtà, piegandola talvolta ai loro obiettivi o interessi. Ma questo perché noi, tacitamente o esplicitamente, diamo loro un mandato o, semplicemente, lo accettiamo. Inoltre, innumerevoli fili legano le fabbriche di notizie, le redazioni dei media, al pubblico. Come mostro sotto, il ruolo di imprenditori morali globali assunto dagli intellettuali può essere decisivo nel legittimare gli interventi militari all'estero. Filosofi, scrittori ed editorialisti che forse non alzerebbero mai una mano contro altri esseri umani non provano alcun ritegno a giustificare, e anzi propagandare, interventi militari in terre vicine e lontane. Naturalmente, pochi danno prova dell'attivismo narcisistico di un Bernard-Henry Lévy, che tende a presentarsi come una specie di Lawrence d'Arabia contemporaneo e gira documentari sulla guerra in Libia in cui fa la parte del leone. Ma è singolare come, negli ultimi anni, tanti intellettuali, giovani o vecchi, magari provenienti dalle fila della sinistra, un tempo pacifista, abbiano riscoperto la vertigine guerresca – naturalmente, al riparo da qualsiasi rischio. Quando dico che lo spettacolo della guerra contemporanea è un peep show militare globale, in cui il ruolo degli spettatori è decisivo, mi riferisco, per cominciare, a simili personaggi.

So, per esperienza, che la prima obiezione alle considerazioni che sto facendo in queste pagine è: "Ma, allora, tu sei per l'indifferenza? Dovremmo lasciar compiere impunemente i massacri contro le popolazioni inermi, i bambini ecc.?". Ecco una domanda che ha il sostanziale difetto di presupporre che noi occidentali – cittadini comuni, uomini della strada ecc. – siamo titolari di un ipotetico diritto di intervenire là dove il male viene compiuto; e anche che i governanti occidentali sono sensibili alla nostra indignazione o al nostro senso dell'orrore. Noi saremmo insomma, forse per la nostra supposta civiltà, depositari di un senso della giustizia che va applicato mediante le nostre forze armate.

"Le nazioni civili devono intervenire in Siria!", grida Bernard-Henry Lévy, ansioso di ripetere il suo exploit libico. L'assunto soggiacente a questa chiamata alle armi è implicitamente razzista (soltanto la Francia e poche altre "nazioni" europee sarebbero civili, qualunque cosa significhi oggi una parola così usurata) e visibilmente falso. Per cominciare, per anni Paesi e opinioni pubbliche in Europa sono stati del tutto indifferenti alla repressione condotta da Gheddafi contro il popolo libico o una sua parte. E questo in nome sia della partecipazione del dittatore alla guerra contro il terrorismo sia, ovviamente, delle forniture di gas e petrolio libici. Nel 2007 Gheddafi fu accolto a Parigi con tutti gli onori da Sarkozy, che gli vendette aerei da combattimento e per uso civile, e durante la campagna elettorale del 2012 voci insistenti hanno parlato di un finanziamento illecito del dittatore libico al presidente francese. Ora, è fuori discussione che i Paesi che hanno mosso guerra a Gheddafi dopo averlo sostenuto o tollerato quando faceva loro comodo si sono in qualche modo disonorati. Ma senz'altro la palma va all'Italia, che prima ha ecceduto in piaggeria verso l'allora potente dittatore (il famoso baciamano di Berlusconi ecc.) e poi ha partecipato controvoglia alla guerra, non solo per il petrolio, ma anche per motivi più sordidi — ovvero affinché i migranti fossero mantenuti alla larga dalle nostre coste dal nuovo governo rivoluzionario, che in questo è erede in tutto e per tutto di Gheddafi. Appellarsi alla morale e alla giustizia in un simile guazzabuglio di interessi, voltafaccia, tradimenti e speculazioni dovrebbe offendere l'intelligenza di chiunque.

Non si può dunque sposare il principio dell'ingerenza in nome della giustizia, della protezione delle popolazioni e così via, per il semplice motivo che nessun governo è dotato di autorità morale in questo campo. Chi si è fatto paladino di una specie di "polizia del mondo" può soltanto, a fatti compiuti (quando cioè l'intervento più che interessato e sospetto delle potenze occidentali in Libia si è consumato), riconoscere le "sbavature" di una simile applicazione della giustizia internazionale, salvo poi difenderla comunque in nome della libertà. Come scrive Adriano Sofri, alfiere di questo tipo di interventi:

Bisognerà ammettere che il progetto – il sogno, se preferite – di una polizia internazionale esce molto contraddittoriamente da questa prova. L'autorizzazione del Consiglio di sicurezza – a un passo dall'invasione punitiva contro la ribelle Bengasi – è stata largamente oltrepassata dall'azione degli alleati maggiori e della NATO. La protezione dei civili è diventata l'abbattimento del regime. La contraddizione è largamente inevitabile nel sistema di relazioni internazionali. Chi mira a sottrarvisi escludendo ogni intervento di forza fuori dai confini della cosiddetta sovranità nazionale rischia di farsi complice, attivo o per omissione, di crimini immani. La controprova sta solo nel fatto compiuto. [...] E intanto la ribellione è avvenuta, e la gente che grida: "We are freedom", non sa bene l'inglese, ma sa che cosa spera. Ho visto dei consuntivi che assegnano la liberazione della Libia per il 70 per cento alla NATO, per il 20 ai ribelli, per il 10 alla defezione della cerchia del capo. "Siamo liberi", abbiamo gridato da noi nel 1861, o nel 1945: la percentuale straniera era stata molto forte, ma furono belle giornate.

Naturalmente, ognuno sceglie in base alla sua coscienza, morale e intellettuale, se sponsorizzare pubblicamente interventi militari come quello in Libia, senza far caso a manipolazioni mediali, strumentalizzazioni politiche e preponderanti interessi materiali; oppure privilegiare, finché è umanamente possibile, la strada delle pressioni diplomatiche o di interventi rigorosamente limitati alla protezione delle popolazioni e non al rovesciamento dei regimi. Ma il punto è che quando si plaude a una guerra bisognerebbe sempre considerare che, come sanno gli storici militari, nessuna guerra ha mai conseguito i suoi obiettivi, e che molto raramente, nella storia delle guerre civili, i torti si sono collocati da una parte sola. Qualsiasi guerra è foriera di ulteriori tragedie, a cui non si pensa quando si incita ai bombardamenti o alle azioni militari. Così, anche la guerra combattuta dalla NATO si è macchiata delle sue infamie. Ed ecco, al riguardo, il commento di Sofri all'esecuzione sommaria di Gheddafi.

Nel linciaggio della Sirte la combinazione fra l'antiquato animale umano e l'ipermodernità ha preso la forma degli aerei del cielo e degli indigeni sulla terra, arcangeli disabitati gli uni e creature imbelvite gli altri, la NATO e i fanti, ignari i primi del linciaggio, che devono fingere di non volere, responsabili e anzi fieri ed ebbri i secondi: e contenti tutti, perché il processo di un tiranno così longevo e intimo è sempre una minaccia micidiale per i piani alti. Nessuna cospirazione: non ce n'è bisogno. Solo una divisione del lavoro. Chi mette in fuga dall'alto, chi stana dal basso, come in una buona battuta di caccia. Alla muta non occorre suggerire niente, è fatta di uomini giovani ed eccitati, hanno avuto padri torturati, sorelle violate, compagni ammazzati, sentono l'odore della vendetta e della gloria.

Questo commento è esemplare del grado di falsificazione e banalizzazione della realtà a cui l'ideologia della guerra umanitaria può arrivare. In realtà, qui si dice solo che gli uomini in guerra sono feroci. A parte la consueta contrapposizione tra gli indigeni animaleschi (il "branco", la "muta") e la nostra ipermodernità, queste righe non sono che un contorto tentativo di assolvere la NATO dalla responsabilità dei suoi atti. Chiunque capisce che se si fa vincere una fazione in una guerra civile, quella consumerà le sue vendette sui soccombenti. Che si aspettavano, prima di questo esito, la NATO, e personaggi come Lévy e Sofri? Che gli antigheddafiani, al culmine dei combattimenti, avrebbero trattato i nemici e l'odiato dittatore con rispetto? Che non ci sarebbero state vendette? Quanto è più onesta, nella sua brutalità pragmatica, la dichiarazione di un comandante americano ai tempi delle prime sollevazioni in Iraq, nel 2004!

[Il calcolo delle perdite irachene] non è un dato utile per noi. Non è una misura di efficacia... Da un punto di vista militare non ha proprio importanza sapere quanti soldati iracheni sono stati uccisi.

Chi incita alla guerra, a qualsiasi guerra, dovrebbe sempre pensare alle possibili conseguenze e condividerne il peso morale, non cavasela con qualche misero luogo comune sulla ferocia dei "primitivi" che abbiamo armato e hanno combattuto, oltre che per la loro problematica libertà, per i nostri interessi. Dovrebbe meditare inoltre sul fatto, per esempio, che mentre la guerra civile in Libia prima dell'intervento NATO aveva causato probabilmente tra mille e duemila morti, alla fine del conflitto le perdite sono valutabili tra 10.000 e 50.000. E dovrebbe mordersi la lingua prima di abbandonarsi a valutazioni così insensate da sfociare nel grottesco:

Ora, comunque, sembra che aerei francesi e inglesi, bombardando le basi di Gheddafi (cosa aspettano ancora?), restituiranno alla Libia insorta la speranza della liberazione. Un "vade retro" delle forze democratiche sarebbe campana a morto (e non metaforica) per gli ammutinati contro il Rais. Piuttosto, si impegnino i democratici europei a stringere rapporti con le forze laiche e riformatrici dell'Africa mediterranea, ponendo fine a un colpevole e spocchioso disinteresse, perché alla caduta dei Mubarak, Ben Ali e Gheddafi non seguano altre dittature, a cui gli establishment d'Occidente non farebbero mancare i brindisi.

Predicare una guerra "democratica" contro Gheddafi – condotta evidentemente dall'establishment europeo con il sostegno americano – affinché, dopo la caduta del dittatore, non rispuntino altre dittature appoggiate dallo stesso establishment è qualcosa che non si era mai sentito. Equivale a dire che i bombardamenti NATO avevano lo scopo di fondare una democrazia senza l'appoggio NATO. Ma qui non ci sono solo parole in libertà o la violazione della logica più elementare. C'è il travestimento della Realpolitik più abietta con finzioni quali i "democratici europei" o le "forze laiche e democratiche dell'Africa mediterranea", che in Tunisia ed Egitto esistevano e sono state sconfitte, mentre in Libia sono sempre state poca cosa, al punto tale che oggi il Paese è governato da fazioni armate tra cui stanno emergendo i gruppi che si rifanno alla legge islamica.

Quando parlo di peep show militare globale, ho in mente questo parassitismo dello sguardo sulla crudeltà e sulla guerra. Proprio come chi assiste a una performance sessuale la rende possibile, ma se ne tiene fuori, tra ipocrisia e voyeurismo, così gli apologeti della guerra la legittimano a patto, però, di non sentirsene mai responsabili. L'opinione pubblica – a partire dagli imprenditori morali citati sopra, primo fra tutti Lévy – crede o dice di credere alle fandonie più inverosimili sulle stragi ordinate da Gheddafi o sulla natura squisitamente laica delle fazioni ribelli, invita all'intervento armato, contribuisce a legittimare un conflitto che lascia dietro di sé un'inevitabile scia di vittime, soprattutto civili, e poi si autoassolve, parla d'altro oppure attribuisce il sangue versato alla "naturale" ferocia degli insorti.

In tutto questo vedo l'emergere o il ritorno di uno "sguardo", ovvero d'un atteggiamento o inclinazione culturale, in cui fanatismo morale, self-righteousness o presunzione di essere nel giusto a prescindere, senso di superiorità dell'Occidente e anche razzismo si mescolano in varia misura. Uno sguardo, però, che a onta del suo preteso ipermodernismo laico e razionalista, viene da lontano e affonda le radici in una storica propensione a risolvere i conflitti in casa d'altri con la forza preponderante delle nostre armi. Come ho mostrato altrove, il pensiero occidentale non ha fatto veramente i conti con il suo fondamento bellico, non ha mai pensato radicalmente la guerra – e quindi non ha pensato fino in fondo la propria inevitabile crudeltà. Nel disinteresse per le vittime uccise da noi – che contrasta con l'apparente ipersensibilità per quelle provocate da popoli "selvaggi", "primitivi", "animaleschi", "premoderni" – io vedo un'ipocrisia fondativa che è la negazione sia della verità morale, sia di quella fattuale, ovvero della pravda e dell' istina, per usare le due parole usate da Tolstoj a proposito della guerra di Crimea.

I cinque capitoli che seguono sono tentativi di rintracciare il dispiegarsi di questa suprema finzione in alcuni momenti decisivi della nostra tradizione culturale: la crudeltà degli antichi comparata a quella dei moderni, la ferocia della giustizia, lo sguardo opaco sulla battaglia, l'impossibilità, per chi l'ha combattuta, di raccontare la guerra e, infine, l'ipocrisia suprema, la negazione della guerra nel momento in cui la si combatte. Variazioni più che saggi compiuti – riflessioni con la matita in mano, avrebbe detto Adorno – sia perché il possibile materiale a cui rifarsi è sterminato, sia e soprattutto perché troppo complessa è una genealogia dello sguardo occidentale sulla crudeltà per essere ingabbiata in una ricostruzione organica e compiuta.

Il riferimento alla genealogia rimanda, non c'è bisogno di dirlo, all'opera di Michel Foucault. Lo sottolineo. Non per vantare un'ascendenza, ma per riconoscere il debito contratto con un pensatore che, dalle ricerche sulla follia e sulla punizione sino ai corsi in via di pubblicazione sulla guerra, la biopolitica e il governo della sicurezza, non ha mai smesso di riflettere sul non detto o il deliberatamente taciuto di quella che si chiama "tradizione occidentale".

Genova, giugno 2012

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Un modo per venire a capo dell'apparente contraddizione tra crudeltà delle pratiche legali e indizi di spirito umanitario nell'antichità è rifarsi alla distinzione tra singolarità o "rarità" dei fatti della storia e idee generali (Paul Veyne). Supplizi spettacolari e combattimenti mortali nell'arena avevano senso in una cultura politica e giuridica unica. Erano un'istituzione specificamente romana e non genericamente antica. Ciò non impediva che filosofi romani li disapprovassero e avanzassero persino dei dubbi sulla schiavitù (sulla sofferenza degli schiavi, ma non sulla legittimità della loro condizione). I combattimenti dei gladiatori durarono sporadicamente sino al crollo dell'impero d'Occidente, e comunque anche dopo che l'imperatore Onorio li ebbe ufficialmente proibiti. Ma, alla fine, questa istituzione che ci appare abnorme, esorbitante (come la definisce Paul Veyne) scomparve, non perché si fossero affermate nuove idee generali (lo stoicismo, il cristianesimo), ma perché erano mutate le condizioni sociali e politiche che le davano senso.

Nel tardo impero, il sovrano non era più il princeps, il nobile primus inter pares che si mostrava al popolo nel momento culminante della vita romana, gli spettacoli circensi; a partire dalla fine del III secolo, era divenuto un monarca remoto, isolato nei suoi palazzi di Roma, Milano o Ravenna, o perpetuamente impegnato con il suo esercito di professionisti, mercenari e comites a guerreggiare per difendere i lontani confini; il senato, da sempre custode delle tradizioni romane (compresa la messinscena della morte), perse importanza a favore del nuovo ceto di "borghesi", i cavalieri, massicciamente impegnati nell'amministrazione imperiale; con la crisi dell'economia del latifondo, le grandi fattorie schiavistiche decaddero e la condizione degli schiavi si trasformò lentamente in quella di coloni vincolati alla terra, prefigurando la servitù della gleba medievale. Nella lunga transizione tra l'impero e le monarchie cristiane occidentali, romano-germaniche, i combattimenti dei gladiatori restarono semplicemente la reliquia di un'epoca irripetibile, una curiosità storica oggetto di un'esecrazione che permane ancora oggi.

La cultura antica è dunque esotica e non deve essere interpretata con le nostre categorie morali di moderni. Allo stesso tempo, la storia è il campo in cui fluttuano idee, per così dire, senza tempo, e sono proprio queste, solitamente incarnate in qualche tipo di doxa o senso comune culturale, a farci credere che i nostri antichi progenitori la pensassero come noi, autorizzandoci a pensare di poterli giudicare secondo i nostri criteri. E in una piccola misura, in questo presupposto, in senso lato fallace, c'è qualcosa di vero. È il problema generale dell' auctoritas degli antichi e del loro influsso sulla cultura moderna. La polis ateniese non ha nulla a che fare con la nostra democrazia, ma è il dibattito bimillenario sull'idea di democrazia a consentirci uno sguardo appropriato, inevitabilmente prospettico e relativo, su quella cosa che chiamiamo democrazia greca. Allo stesso modo, una letteratura soprattutto cristiana ha contribuito a formare una tradizione "umanitaristica", che ci connette all'antichità. Ed ecco perché le parole di Plauto o di Seneca citate sopra ci suonano così ragionevoli, familiari e umane, anche se inscritte in una cultura, quotidiana e giuridica, tanto diversa dalla nostra e crudele verso gli schiavi, í condannati e i gladiatori.

È vero però che questo relativismo temperato deve valere anche per noi moderni. Le nostre idee in tema di crudeltà, umanità ecc. non possono essere considerate necessitanti, definitive e tanto meno normative. Non abbiamo il diritto di considerarci più umani, tolleranti o sensibili dei Romani o dei Greci (o di qualsiasi altra cultura, passata o presente), ma solo diversamente tali. Anzi, la rinuncia al presupposto più o meno dogmatico della nostra superiorità morale è un primo passo per valutare in modo quanto più possibile oggettivo o equanime la nostra crudeltà. La capacità di mettere a fuoco la specifica crudeltà moderna o postmoderna discende da una sorta di epochè, da una messa tra parentesi delle idee generali oggi correnti sul tema. Ed ecco alcuni esempi di questo relativismo, iniziando da uno sport che, apparentemente, abbiamo ereditato dall'antichità.


Una questione di regole?

Negli ultimi cent'anni, più di mille pugili, professionisti e dilettanti, tra cui due donne, sono morti sul ring o in seguito a un incontro. Come giudicare una cifra del genere? È vero che, se comparata ai dati delle vittime della guerra o delle altre morti in pubblico (penso alle esecuzioni capitali in Cina, in Iran e altrove), può sembrare poca cosa, ma se teniamo conto del contesto sportivo e spettacolare in cui i decessi sono avvenuti, la prospettiva cambia. Non solo: fin dall'inizio della popolarità della boxe, nel XVIII secolo, la legge ha perseguito blandamente i pugili uccisori e gli organizzatori degli incontri, in base al presupposto che chi sale sul ring non può non essere consapevole dei rischi che corre. Ma la questione è molto più ampia. Nella cultura popolare contemporanea, il pugilato è spesso visto come una scuola di vita, se non un'occasione di riscatto sociale e di genere (penso a un film come Girlfaght). Nel lodatissimo Million Dollar Baby di Clint Eastwood, in cui la pugile protagonista rimane paralizzata in seguito a un colpo scorretto dell'avversaria, il problema della moralità (o dell'immoralità) del pugilato è assente, o comunque svanisce rispetto allo stoicismo della protagonista e alla riflessione sull'eutanasia. È del tutto evidente che la nostra cultura ammette la possibilità non proprio teorica che un pugile muoia sul quadrato, a patto che siano rispettati alcuni presupposti o regole più o meno formalizzate: che i pugili siano ovviamente consapevoli di quello che fanno, che siano della stessa categoria di peso, che combattano in modo corretto e obbediscano all'arbitro.

Troviamo un'espressione sintetica della prospettiva prevalente sul pugilato nell'Occidente moderno nell'autobiografia di Theodore Roosevelt, il presidente americano che più di ogni altro rappresenta la cultura della durezza (toughness) nella vita e in politica. Roosevelt praticò sino alla vecchiaia la boxe, il wrestling e la lotta con i bastoni. Quando era alla Casa bianca perse di fatto la vista all'occhio sinistro durante un incontro di pugilato con un giovane capitano di artiglieria. Ed ecco le sue opinioni sulla noble art:

La mia sola obiezione alla boxe professionale è la corruzione che si accompagna alla sua fortuna commerciale. A parte questo, considero la boxe, amatoriale o professionale, come uno sport di rango e non la considero brutale. Naturalmente, gli incontri si possono svolgere in condizioni che li rendono brutali. Ma questo vale anche per il football e altri sport basati sulla forza fisica. [...] I giovani uomini vigorosi di forte costituzione animale devono trovare il modo di sfogare i loro spiriti animali. [...] Ma gli uomini che partecipano a questi combattimenti sono duri come i loro artigli e non ha senso essere sentimentali con loro quando subiscono dei danni, di cui di fatto sono i primi a non preoccuparsi. Naturalmente, gli spettatori dovrebbero essere in grado di salire anche loro sul quadrato con i guantoni o a pugni nudi. Non ho alcuna inclinazione per quel tipo di "sportività" che consiste esclusivamente nell'assistere alle imprese degli altri.

È davvero curioso come il punto di vista di Theodore Roosevelt ricordi, con tutte le dovute differenze, quello di alcuni intellettuali pagani e cristiani antichi in tema di oscenità e brutalità degli spettacoli. Per il rough rider e quei lontani pensatori, il problema non è tanto nella violenza in sé quanto nel contorno, nel pubblico.

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Se si prendono in esame i dati sulle vittime delle guerre moderne si trova facilmente un andamento esponenziale. Il solo Novecento ha causato più vittime di tutte le guerre precedenti, con un sensibile aumento di quelle civili, che oggi toccano circa il 90% del totale. Un discorso simile vale per il colonialismo. I genocidi di nativi a opera delle potenze coloniali, di cui furono testimoni occasionali missionari, funzionari, viaggiatori e i primi antropologi sul campo trovano raramente posto nelle storie, popolari ma non solo, della civiltà occidentale. Si oscilla qui tra un vero e proprio razzismo e una letterale rimozione dei milioni di morti che la missione civilizzatrice dei Paesi occidentali ha lasciato dietro di sé in quattro continenti, tra il XVI e il XX secolo. Anche in questo campo le mitologie filosofiche prevalenti si segnalano per un'assoluta rimozione del problema. Per Karl Popper, universalmente considerato la massima espressione teorica del liberalismo e del razionalismo contemporaneo, il nostro mondo è il migliore fra tutti quelli possibili. Lo stesso Popper disse una volta che forse "li avevamo liberati troppo presto" (i colonizzati), con l'effetto di abbandonare a se stesso "un asilo infantile". Qui non siamo davanti nemmeno a un'ideologia elaborata, ma a un senso comune più o meno colto, a un discorso, come lo chiamerebbe Foucault, talmente pervasivo da giustificare ancora oggi l'atteggiamento prevalente nei confronti di chi non beneficia dei vantaggi della civiltà occidentale.

Ma non si tratta solo di questo. Se la guerra non viene presa solitamente in conto nelle celebrazioni teoriche della supremazia culturale dell'Occidente, essa talvolta fa capolino, nella forma di una sorta di nostalgia o di una laudatio temporis acti, nelle riflessioni un po' aggrondate che gli imprenditori politico-morali dedicano alla decadenza delle élites o all'inettitudine di chi ci governa. È una forma aggiornata di quel culto molto letterario per l'eroismo che si trova in Carlyle, nel peggior Nietzsche e nella Kulturkritik tardo-ottocentesca.

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Propongo ora una prima sintesi del confronto tra crudeltà degli antichi e crudeltà dei moderni. Per gli antichi, lo spettacolo della morte nei circhi era deprecabile non in sé, ma in quanto espressione della rilassatezza dei costumi del popolo e mancanza di civismo (per gli intellettuali pagani) o occasione di eccitazione malsana e idolatria (per i pensatori cristiani). Per il resto, l'uccisione in nome dello Stato, individuale o collettiva che fosse, era un aspetto corrente e quotidiano della vita sociale, così come lo sterminio degli altri popoli un dato di fatto indiscutibile, diremmo oggi, della politica internazionale. Per i moderni, lo spettacolo delle esecuzioni capitali divenne, a un certo punto, insostenibile, come ha mostrato Michel Foucault in un suo saggio fondamentale. Per il resto, la violenza bellica (con tutto il seguito di stragi ecc.) venne per così dire messa tra parentesi e attribuita (in fondo, non troppo diversamente dagli antichi) all'inevitabile necessità del conflitto tra Stati.

Ecco, dunque, che ci troviamo di fronte non già a un processo di incivilimento progressivo, ma a una differenziazione delle strategie di gestione della violenza e della spettacolarizzazione della violenza. Come si spiega questa articolazione? Per rispondere, è necessario abbandonare il confronto con gli antichi tempi e gettare uno sguardo sull'origine del nostro mondo moderno.

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Un modo per iniziare a venire a capo di questi numerosi conflitti tra pratiche e idee è mettere in prospettiva il nostro sguardo sulla crudeltà. Definisco lo sguardo come un sistema culturale di giudizio efficace. Sistema, perché si tratta di qualcosa di relativamente organico, dato che ha il compito di sintetizzare la nostra visione, facendone qualcosa di coerente e sopportabile. Capace di giudizio efficace, perché noi non ci limitiamo ad assistere agli eventi, ma esercitiamo la pretesa più o meno consapevole di valutarli, e quindi di influenzarli. Lo sguardo non è dunque un mero apparato percettivo, come se fosse una sorta di otturatore culturale, ma un sistema di interpretazione attivo, che contiene fin da principio gli elementi essenziali di una grammatica e di una sintassi dell'azione (e dell'inazione).

Diversi elementi contribuiscono a configurare lo sguardo. Pregiudizi, stratificazioni culturali, modelli cognitivi a disposizione, informazioni selettive, nonché quelle strane entità che sociologi e antropologi chiamano "valori", ma che io chiamerei più che altro retoriche prevalenti in una cultura. Lo sguardo è sempre prefigurato. Noi crediamo di vedere e giudicare con i nostri occhi, e in realtà guardiamo con i paraocchi che la nostra cultura elabora e modifica incessantemente. Ecco allora riformulata la domanda con cui si concludeva il capitolo 1 di questo saggio. Quando abbiano cominciato, noi occidentali, a non sopportare più lo spettacolo della crudeltà e della sofferenza e quindi a sentirci umani? Come è nato e si è affermato il nostro sguardo compassionevole? E in che modo ha modificato la natura di ciò che contemplava?


Guardare e non vedere

C'è stata un'epoca, in fondo non troppo remota, in cui la nostra cultura, cristiana da tanti secoli, sembrava replicare le più efferate crudeltà degli antichi. I ladri minorenni venivano impiccati, i banditi erano fatti a pezzi sulla ruota e le donne accusate di stregoneria bruciate sui roghi (l'ultima europea fu giustiziata in Svizzera nel 1782, pochi anni prima della Rivoluzione francese). Nella stessa epoca, sotto Federico II, il sovrano illuminato corrispondente di Voltaire e protettore degli illuministi, le lunghe giornate dei soldati dell'esercito prussiano erano scandite da incessanti bastonature. Sino ai primi dell'Ottocento, l'impiccagione davanti alla flotta schierata era frequente nella marina militare britannica. Si punivano le mancanze gravi con il "giro della chiglia", mentre la flagellazione veniva inflitta comunemente a marinai e deportati per infrazioni anche minime. Come è stato possibile che tutto questo ci sia divenuto apparentemente intollerabile?

Azzardo qui una risposta. A un certo punto, che si può collocare all'inizio della modernità sviluppata, la crudeltà iniziò a defluire verso i bordi del mondo occidentale e nelle colonie, diventando perciò remota per noi, o a ristagnare in quelle istituzioni separate che sono da sempre le prigioni, l'esercito e simili. Ma era in gioco soprattutto una questione di cambiamento dello sguardo, e cioè di atteggiamento culturale verso la messinscena della morte e della sofferenza. Non era dunque la crudeltà a sparire dal mondo, quanto piuttosto lo sguardo dell'Occidente a non vederla più, e quindi a illudersi che íl nostro mondo fosse divenuto più umano di quelli che lo hanno preceduto.

Michel Foucault ha individuato esattamente il momento in cui il massimo di crudeltà visibile si converte in invisibilità. Egli si è conquistato fama imperitura ricostruendo il discorso sulla punizione moderna sullo sfondo della crudeltà spettacolare delle esecuzioni capitali nell'Ancien Régime. Il suo Sorvegliare e punire è costruito sulla contrapposizione tra la minuziosa descrizione, in apertura, del supplizio, che scandalizzò gli illuministi, del tentato regicida Damiens e la riforma del sistema penale e penitenziario, condotta a partire dalla fine del XVIII secolo, con cui la punizione dei delinquenti assunse forme razionali, scientifiche e soprattutto discrete. Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV, fu condannato, come già era avvenuto a Ravaillac, l'assassino di Enrico IV, a essere squartato da due coppie di cavalli frustati in direzioni opposte, dopo aver subito tormenti inenarrabili. In un famoso testo teatrale, Peter Weiss ricostruisce esattamente l'esecuzione di Damiens, avvenuta il 28 marzo 1757 in Place de Grève a Parigi:

    Torace braccia e cosce gli furono squarciati
    Nelle ferite gli fu versato piombo fuso
    Lo cosparsero di olio bollente pece infuocata cera e zolfo
    La mano gli fu bruciata via
    Alle sue membra legarono funi
    Quattro cavalli attaccati e frustati
    Per un'ora non usi al nuovo compito
    E non lo spaccarono
    Fino a che lo segarono alle spalle e ai fianchi
    Così perdette il primo braccio e poi il secondo
    Lui stava a vedere quello che gli facevano e poi si volse
    verso di noi
    Riuscendo a far udire la sua voce
    E quando gli strapparono la prima gamba e poi la seconda
    Era vivo ancora ma la sua voce s'era fatta più fioca
    E infine pendette lì un tronco sanguinolento
    Con il capo cionco
    Ormai gemeva soltanto e guardava a occhi sbarrati
    Il crocifisso che gli porgeva il confessore.

A un certo punto, alle soglie della modernità, assistere a tutto questo divenne sconcio.

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L'oscurità della battaglia



                                I tre quarti delle cose su cui ci si basa per
                                agire in guerra sono immerse nella nebbia, più o
                                meno densa, dell'incertezza.

                                               CARL VON CLAUSEWITZ, Della guerra


                                La battaglia di Waterloo è un enigma. Essa è
                                oscura tanto per coloro che l'hanno vinta quanto
                                per colui che l'ha perduta.

                                                       VICTOR HUGO, I miserabili



Non voler vedere

Volgere gli occhi da un'altra parte è oggi l'atteggiamento più diffuso davanti alla guerra. Per spiegarmi su questo punto mi è indispensabile richiamare un'esperienza personale. A partire dalla fine degli anni Novanta, mi occupo di strategie militari contemporanee (di cui dirò qualcosa più avanti). Ciò implica mettere le mani nel "discorso" della guerra, ovvero nel complesso testuale in cui, al più alto piano decisionale (strateghi, generali, consiglieri militari ecc.), la guerra è pensata e progettata. È proprio in questa dimensione che i conflitti armati d'oggi mi sono apparsi non già una lacerazione, ma una caratteristica strutturale dell'ordine globale.

Ebbene, nell'inverno del 2002 fui invitato da un'associazione di pacifisti a parlare della guerra che si annunciava in Iraq, e che anzi, in base a numerosi indizi, era già iniziata con le attività coperte delle forze speciali. Invece di entrare nei dettagli di una situazione difficile da decifrare perché in continua evoluzione, scelsi di parlare del pensiero strategico contemporaneo, in massima parte americano. A metà del mio intervento, alcuni si alzarono e se ne andarono, visibilmente contrariati. Quando terminai, una donna mi disse che l'avevo profondamente delusa. Loro si aspettavano qualcuno che parlasse di pace e non di strategie militari.

Questa è la forma più radicale di distrazione. È il rifiuto, motivato da quella che si ritiene un'eticità assoluta, di guardare negli occhi ciò che si percepisce come male, in fondo una reazione di fuga. Un atteggiamento del tutto compatibile con la cultura del volgere gli occhi che ho iniziato ad analizzare in relazione allo spettacolo della crudeltà della giustizia. Tuttavia, nel caso della guerra siamo di fronte a qualcosa di più complesso. Non si tratta di "ciò che è nascosto fin dalla fondazione del mondo", per dirla con René Girard, ma di qualcosa che occupa stabilmente la scena globale, e che dunque è più che visibile, senza però che gran parte degli abitatori dell'Occidente ne siano minimamente condizionati. Essi guardano la guerra, ma non la vedono – o meglio la vedono come qualcosa che non li riguarda. Non si limitano a chiudere gli occhi, come gli spettatori davanti al lavoro del boia. Ma guardano lo spettacolo nella massima indifferenza.

Dal 1991 a oggi, i Paesi occidentali, Stati Uniti in testa, hanno combattuto in tre continenti (Iraq, Bosnia, Somalia, Serbia, Afghanistan, ancora Iraq, Libia, Pakistan ecc.), alla media di una guerra ogni due anni circa. A parte l'11 settembre 2001 e gli attentati in Inghilterra e Spagna (eccezioni rilevanti, ma pur sempre eccezioni), la vita quotidiana dei Paesi occidentali non è stata coinvolta dalla guerra (se non, limitatamente, nei suoi soldati). In due casi, i Balcani negli anni Novanta e la Libia a partire dal marzo 2011, i conflitti sono stati combattuti a due passi da noi. Eppure, al di là del clamore estemporaneo delle cronache, si direbbe che non siamo mai in guerra. Da noi le sirene non annunciano più da quasi settant'anni l'arrivo dei bombardieri nemici, né i treni militari partono per il fronte nello sventolio di bandiere. E, quando una guerra è finita, non ci sono templi di Giano da chiudere solennemente, né accoglienze festanti alle truppe vittoriose.

Tutto ciò è divenuto ovvio, ma non dovrebbe esserlo. Se proiettato sullo sfondo della storia del XX secolo, è un cambiamento straordinario. Implica, come si vedrà, un mutamento della costituzione materiale delle società occidentali, o forse il rivelarsi della loro vera natura; ma anche un riaggiustamento dello sguardo, di ciò che ho chiamato in precedenza un sistema di giudizio efficace degli eventi. Il fatto che i nostri eserciti facciano la guerra (in forme talmente innovative da non essere percepite come tali), mentre noi non se ne siamo sfiorati, apre una dimensione universale di indifferenza che non ha precedenti nella storia. Ed ecco un esempio rivelatore. Il giorno dopo l'uccisione di Muammar Gheddafi, le notizie sulla guerra di Libia – che peraltro, per più di sei mesi, erano state assai vaghe – già scivolavano nelle pagine interne dei quotidiani e in coda ai telegiornali. Un'archiviazione istantanea che corrispondeva perfettamente al tipo di intervento militare della NATO, avvolto in sostanza dal segreto. "La NATO si è comportata nel modo giusto. L'America ha speso due miliardi di dollari e non ha perso una sola vita umana", dichiarava il vice-presidente americano John Biden. E con ciò il silenzio calava sulle vittime libiche, di qualsiasi parte. Nessuno aveva più interesse a contare le perdite: la NATO, per non intaccare la mitologia della guerra umanitaria e a "zero vittime", e i vincitori libici, ovviamente, perché esclusivamente interessati al futuro nel Paese liberato dal tiranno. Quanto alla voce degli sconfitti, come sempre, è scomparsa con loro.

Questo spazio della non-esistenza degli altri che abbiamo ucciso o contribuito a far uccidere si potrebbe definire il "neutro", con il filosofo Maurice Blanchot. Ma io preferisco definirlo il nullo, perché per Blanchot il neutro, figura della banalità, e quindi di un'immanenza assoluta, mantiene paradossalmente la possibilità che vi si riveli un'alterità, un qualche tipo di dialettica. Nella nullità io vedo invece l'esito di procedure di annientamento definitivo, in una doppia accezione: materiale, come è tipico di ogni azione militare, e visiva, come totale opacità dello sguardo che non vede più, se mai ha visto, ciò che è stato fatto in suo nome. I cadaveri vengono bruciati o sepolti frettolosamente, svanisce l'attenzione e gli occhi non hanno più nulla da guardare. In questo senso, la morte di Gheddafi ha suscitato un limitatissimo moto di sdegno, finché si è trattato di uno spettacolo, della profanazione di un corpo ancora vivo e dell'esposizione del suo cadavere allo scherno degli uccisori. Ma il luogo della sua sepoltura è segreto, una tomba anonima nel deserto, nel nulla. Questo è il destino dei dittatori contemporanei o dei nemici assoluti (Ceauşescu, Saddam Hussein, Gheddafi, Bin Laden), la cui sparizione è sempre totale, e non solo perché, in certi casi, i segreti della passata connivenza con i vincitori devono essere sepolti con loro; soprattutto, perché l'esecrazione deve coincidere con la distruzione della loro memoria. Ma credo anche che il loro destino sintetizzi quello delle vittime, di qualsiasi parte, delle guerre contemporanee.

"Lo sappiamo: nessuno [negli Stati Uniti] vuole vedere un film sulle guerre in Iraq o in Afghanistan": così si afferma in un sito di recensioni cinematografiche a proposito dello scarso successo commerciale di film come Green Zone e perfino The Hurt Locker, nonostante il primo vanti la star Matt Damon e il secondo abbia procurato un Oscar alla regista Kathryn Bigelow. Non voler vedere, non voler sapere: con ciò si recide qualsiasi legame tra la natura delle società occidentali e le guerre combattute in loro nome, tra la vita ordinaria che deve continuare e le uccisioni di massa che avvengono là, altrove, nello spazio puramente teorico dell'annientamento. Si potrebbe osservare che, di fronte agli orrori incalcolabili del Novecento – il secolo più mortifero che l'umanità abbia conosciuto – l'annientamento contemporaneo è ben poca cosa. Ma risponderei che non è una grande consolazione. Perché ciò di cui sto parlando, il dispensare la morte nella totale opacità dello sguardo, sino al punto in cui la guerra viene combattuta senza essere tale (una non-guerra, un nulla), offre possibilità quasi impensabili.

Ancora una volta si tratta di tentare una genealogia di un processo in cui alla morte non si adatta nemmeno più la qualifica di crudele – perché lo spazio dell'uccisione si sottrae alla vista, è una mera possibilità statistica priva di spettacolarità e di compiacimento, aspetti essenziali della crudeltà. Insomma, una vicenda di progressivo accecamento, al punto tale che oggi mancano persino le parole per definirla. Ritengo che, come è avvenuto per lo spettacolo della crudeltà della legge, l'inizio della rimodulazione dello sguardo si collochi intorno alla metà dell'Ottocento, in piena età romantica, quando la letteratura cominciò a fare i conti con i vent'anni di guerre continue in cui si affermò e declinò il cosiddetto genio militare di Napoleone. Il ruolo che attribuisco alla narrativa in ciò che in queste pagine definisco come formazione dello sguardo mi sembra ampiamente giustificato dalla preminenza del discorso letterario in quanto espressione e al tempo stesso matrice dell'opinione pubblica nella cultura moderna. Nelle pagine che seguono cercherò di riprendere il filo di questa perdita dello sguardo, del passaggio dalla volontà di comprendere allo stupore e infine all'indifferenza.

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Come la guerra è diventata invisibile



                                In realtà, gli stati di pace non sono altro che
                                le condizioni in cui la guerra è latente. Lo
                                stato di pace è il padre della guerra; la pace
                                è l'ordine che sempre sprigiona la guerra e le
                                fornisce i mezzi di cui necessita per la sua
                                esistenza.

                                        FRIEDRICH G. JÜNGER, Guerra e guerrieri


                                Dato che [con la televisione] il mondo ci è
                                fornito in casa, non ne andiamo alla ricerca;
                                rimaniamo privi di esperienza.

                                             GÜNTHER ANDERS, L'uomo è antiquato



L'incommensurabile

Il Novecento è stato il secolo della guerra. Tutto quello che gli uomini si sono fatti da quando sono comparsi sulla terra rimpicciolisce davanti ai più di cento milioni di morti del XX secolo, una cifra superiore a tutte le vittime delle guerre precedenti. Ma questa valutazione non può rendere conto del tipo di ecatombi contemporanee. Fino all'inizio del Novecento, i conflitti coinvolgevano in massima parte i militari. Si calcola che per tutto l'Ottocento, con l'eccezione della guerra civile americana, il 90% delle perdite si registrasse fra i combattenti. Ancora nella prima guerra mondiale, la percentuale delle vittime civili si calcola tra il 10 e il 15%. Ma sale all'incirca al 40% nella seconda guerra mondiale, per poi raggiungere oggi il 90%. E quindi non è esagerato affermare che nel nostro tempo la guerra è condotta di fatto contro le popolazioni civili.

Nelle guerre del Novecento la distinzione tra militari e civili divenne puramente formale. Milioni di giovani venivano addestrati frettolosamente, armati di fucile e gettati nelle trincee della prima guerra mondiale o nelle battaglie di massa della seconda. L'adozione, a partire dagli anni Trenta del Novecento, dei bombardamenti strategici (cioè degli attacchi aerei in profondità contro le città e gli impianti industriali) aveva lo scopo di fiaccare la resistenza del nemico, distruggendo la sua economia e terrorizzando le popolazioni. Nelle battaglie di Stalingrado (1943) e Berlino (1945), i civili erano letteralmente arruolati in massa per respingere gli invasori. Diversamente dal passato, la guerra non era più un duello supremo tra professionisti o uno scontro circoscritto tra eserciti nazionali, ma un conflitto di durata imprevedibile tra intere società.

Una conseguenza della totalizzazione dei conflitti nel XX secolo è che la consapevolezza di ciò che la guerra è, della sua realtà, svanisce del tutto. Dapprima, è l'enormità dei conflitti a creare, salvo alcune eccezioni letterarie, un effetto complessivo di rimozione, di impossibilità di comprendere e ricordare se non nei termini convenzionali della memoria ufficiale dei vincitori. In seguito, dopo la seconda guerra mondiale, e in particolare dopo la fine del conflitto Est-Ovest, è la natura stessa dei conflitti armati – che assumono la forma ambigua di interventi umanitari, di pacificazione ecc. – a inibire un'autentica comprensione dei fenomeni bellici. Ora, la guerra è metabolizzata e di conseguenza è inavvertita, come già Tolstoj aveva notato a proposito della distruzione dell'esperienza negli automatismi quotidiani:

Se la vita di molta gente passa inconsciamente, allora è come se non fosse mai esistita. La vita esiste solo quando è illuminata dalla coscienza.

Tutto ciò risulta da un breve confronto tra l'immagine delle guerre tradizionali e l'immagine di quelle novecentesche, così come appare nella letteratura e in particolare nella narrativa. Ai conflitti armati limitati del passato (fino al XIX secolo) – al centro delle narrazioni prese in esame nel capitolo precedente – sono adattabili retoriche diverse e anche opposte, ma consolidate e convenzionali: il patriottismo, la concordia nazionale, il pacifismo, perfino il senso beffardo dell'orrore di un Ambrose Bierce. La guerra è sì una lacerazione dell'ordine quotidiano dell'esistenza; ma una lacerazione culturalmente definita che prevede riti di passaggio e di espiazione ben orchestrati. Gli esseri umani si uccidono in campi di battaglia su cui verranno eretti monumenti funebri e stele commemorative. Proprio la relativa limitatezza fa sì che i conflitti non distruggano i legami sociali fondamentali. Anche quando artisti e narratori si fanno conquistare da uno spirito marziale ed esaltano le virtù militari, ciò avviene per celebrare la forza e la struttura sociale dei Paesi che hanno superato una prova considerata vitale e comunque degna, se non necessaria.

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Vedremo in breve come, per loro natura, le guerre attuali producano simili paradossi. Di fronte all'irrappresentabilità della morte di massa, le retoriche culturali prevalenti perdono qualsiasi senso delle proporzioni. Possono anche essere significative nel loro contesto limitato, ma, nell'insieme, producono soltanto opacità. Nella citazione precedente, la moglie trova intollerabile il racconto dell'uccisione dei prigionieri – perché è legata a un'immagine evidentemente libresca e convenzionale della guerra e delle sue "regole" –, mentre non ha nulla da obiettare al racconto di un bombardamento aereo, semplicemente perché non lo "vede". Lo stesso, anche se in ben altre proporzioni, è avvenuto con le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Quando la morte assume simili dimensioni – centinaia di migliaia di vittime in un istante, per non parlare di quelle che moriranno nei giorni e negli anni successivi–, diviene letteralmente invisibile agli occhi di chi non è coinvolto. Non è nemmeno indifferente per noi, come può essere la notizia di un maremoto o di un altro disastro naturale: è un non-fatto, un non-evento, un nulla.

I sentimenti associati alla percezione individuale e culturale della sofferenza altrui, nonché i problemi morali implicati dal ruolo del nostro esercito o del nostro Paese nel determinarla, hanno bisogno di uno spazio di rappresentazione definito, di uno schermo su cui proiettare l'altro. Per esempio, noi ci commuoviamo o indigniamo quando leggiamo di una povera donna condannata alla lapidazione o di un uomo considerato incapace di intendere e volere giustiziato sulla sedia elettrica. Ma il numero complessivo di condannati a morte nel mondo, o in un Paese che consideriamo affine al nostro per civiltà, di fatto ci tocca infinitamente meno. E non necessariamente perché siamo ottusi o moralmente indifferenti: ma perché un numero non è un volto in cui rispecchiarci.

Lo stesso avviene in caso di guerra. Il problema al centro della discussione tra moglie e marito, se sia più lecito raccontare una violazione delle regole di guerra o un bombardamento, si ripresenta teoricamente ogni giorno nei conflitti d'oggi, ma è risolto automaticamente con un "non luogo a procedere". Pensiamo a un drone, un aereo telecomandato, che rade al suolo per errore di calcolo un villaggio afghano o pachistano uccidendo decine di abitanti. O a una cannoniera volante che attacca un quartiere di Baghdad densamente popolato da civili in cui si presume che si nascondano terroristi o insurgents. Dapprima gli stati maggiori negano e poi finiscono per ammettere l'"errore", ma tutto finisce lì. Queste uccisioni, di fatto, non contano perché rimandano a una serie di enti "astratti", non individuabili, né visibili (comandi militari, mappe elettroniche, decisioni prese da operatori remoti, macchine di guerra senza pilota) e quindi irrappresentabili – esattamente come è insolubile il problema di chi ha determinato in ultimo l'evento. A chi attribuire la responsabilità? Allo stato maggiore che pianifica i bombardamenti, ai Paesi NATO, ai talebani che si ostinano a non arrendersi, alla fatalità?

La pretesa di applicare il diritto e la morale in casi limitati, mentre il contesto generale resta indefinibile e quindi non è oggetto di giudizio, produce effetti che si potrebbero definire comici se non si trattasse di immani tragedie. La guerra del 2003 in Iraq, decisa in base a motivazioni che apparivano già allora inverosimili (le armi di distruzione di massa di Saddam capaci di colpire l'America) ha causato un numero di vittime, al 90% civili, stimato tra 150.000 e un milione. Chi ha preso la decisione di invadere l'Iraq (il governo americano e quello inglese) e quindi, secondo ogni logica, è responsabile ultimo di questa strage, sfugge a qualsiasi giudizio. Nessun tribunale internazionale si è sognato di incriminare Bush e Blair per crimini contro l'umanità. In cambio, abbiamo letto di singoli marines condannati a pene detentive per lo stupro o l'uccisione di civili. Ma qual è il significato di un processo in questi casi? Ebbene, che solo i delitti limitati attirano l'attenzione dell'opinione pubblica e della giustizia, mentre i delitti illimitati non sono giudicabili e quindi non sono delitti.

Come si è giunti a questa neutralizzazione o impossibilità del giudizio in caso di conflitto armato? Certo, la diffusione planetaria dei media, vecchi e nuovi, ha avuto un ruolo decisivo: davanti ai nostri occhi scorrono in continuazione, sugli schermi televisivi o dei computer, notizie che finiscono per equivalersi e quindi non possono che produrre indifferenza. Ma non si tratta solo di un problema percettivo prodotto dall'eccesso di informazione: nei conflitti contemporanei, è la stessa forma che la guerra ha assunto negli ultimi due decenni a vanificare la consapevolezza degli abitanti dell'Occidente. Vedremo infatti, in una rapida rassegna delle tipologie dei conflitti del Novecento, come la guerra che gli Stati sviluppati combattono all'esterno, in luoghi remoti e quindi lontano dalla nostra vita quotidiana, sia diventata una normale caratteristica delle società occidentali, o meglio un aspetto decisivo della supremazia economica e politica del nostro mondo. In quanto evento che ci coinvolge in pratica ma ci riguarda indirettamente, perché non è sotto i nostri occhi, la guerra non può che confluire in un rumore di fondo indistinguibile, qualcosa di cui sentiamo l'eco lontana ma che non ci sfiora.

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