Copertina
Autore Alessandro Dal Lago
Titolo Le nostre guerre
SottotitoloFilosofia e sociologia dei conflitti armati
Edizionemanifestolibri, Roma, 2010, Esplorazioni , pag. 264, cop.fle., dim. 14,4x21x1,6 cm , Isbn 978-88-7285-596-6
LettoreCorrado Leonardo, 2011
Classe guerra-pace , sociologia , scienze sociali , storia contemporanea
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Indice


Introduzione                                      9

PARTE PRIMA. IL PASSATO DAVANTI A NOI

I.    La guerra dei filosofi                     23
II.   La rimozione della guerra                  49
III.  La fine dell'eroismo                       61

PARTE SECONDA. LA GUERRA DEI MONDI

IV.   La dimensione sociale della guerra         81
V.    Strategia e distruzione                   105
VI.   Il feticcio del terrorismo                117
VII.  Il tao della vittoria                     131
VIII. Il nuovo mestiere delle armi              147

PARTE TERZA. GUERRE DI FRONTIERA

IX.   La militarizzazione delle frontiere       179
X.    La porta stretta                          191
XI.   L'anomalia italiana e l'insicurezza       205

Appendice. Il principe delle tenebre            217

Bibliografia                                    233


 

 

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Pagina 9

Introduzione



Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la guerra, ma prima o poi la guerra si interesserà sicuramente a te. (Massima attribuita a Trotsky)


1. In altre versioni del bon mot citato sopra la parola guerra è sostituita da "strategia" e da "storia". Ma il senso non cambia: per quanto ci si possa disinteressare della violenza organizzata, questa finisce per riguardarci direttamente. Oggi è ancor meno facile sfuggire alla guerra, quanto più le dinamiche conflittuali vicine e lontane, materiali e simboliche, virtuali e reali si implicano indissolubilmente nel mondo globalizzato. Mai come all'inizio del ventunesimo secolo è stato vero che il battito d'ali di una farfalla in un punto qualsiasi della terra può far crollare un grattacielo agli antipodi. Quando gli americani, all'inizio degli anni Ottanta, iniziarono a finanziare la guerriglia contro i russi in Afghanistan, innescarono una catena di eventi che avrebbe portato agli attacchi dell'11 settembre 2001: in pochi anni, i naturali alleati degli americani (che nel film Rambo III erano presentati ancora come indomiti combattenti per la libertà) si sarebbero trasformati in talebani fanatici e terroristi nemici dell'umanità. Nessuno oggi è protetto dalle conseguenze di azioni avviate decenni fa in luoghi familiari soltanto ai lettori di libri di viaggio.

Questo vale anche per l'Italia, che per quasi cinquant'anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, è rimasta lontana da ogni conflitto armato. Certo, tra il 1945 e il 1989 la guerra fredda definiva la posizione dell'Italia nel mondo, gli alleati d'oltreoceano influivano pesantemente sulle vicende politiche interne e apparati militari segreti erano pronti a entrare in azione se i comunisti fossero andati al governo. Ma da noi, per molto tempo, chi è nato dopo la seconda guerra mondiale si è fatto un'idea delle battaglie del presente solo al cinema o sui libri. La condizione di idillio cognitivo è finita bruscamente nel 1991 con quella che viene chiamata Guerra del Golfo. Per la prima volta, l'Italia partecipava a missioni militari all'estero (se non ricordo male, i due primi aviatori della coalizione abbattuti in territorio iracheno furono italiani). In seguito, compatibilmente con la relativa esiguità delle sue forze armate, l'Italia è stata coinvolta in missioni militari (di guerra o di peace-keeping) in mezzo mondo: Balcani, Somalia, Kuwait, Iraq, Afghanistan, Libano, solo per citare le principali e comunque quelle ufficiali.

L'implicazione diretta nei conflitti di una potenza militare minore come l'Italia non risulta tanto dall'entità delle perdite (poco meno di cento caduti dal 1991 a oggi), quanto dalla banalizzazione del discorso della guerra. Se si escludono le grandi manifestazioni della primavera 2003 contro l'invasione dell'Iraq, l'opinione pubblica italiana sembra aver metabolizzato la necessità della "guerra globale contro il terrore", avviata da G. W. Bush nel 2001, e quindi delle missioni militari all'estero. Con eccezioni tutto sommato marginali (e in ogni caso non rappresentate più in parlamento), quasi tutte le forze politiche approvano la partecipazione a quelle che sono, sotto ogni punto di vista, missioni di guerra. Quanto all'opinione diffusa, anche se i dati di Eurobarometro e altri istituti di ricerca mostrano una certa contrarietà alla strategia occidentale nella guerra contro il terrorismo e un notevole scetticismo sull'andamento del conflitto in Afghanistan, l'atteggiamento più diffuso in Italia (come in altri paesi europei) è il disinteresse per le questioni di politica internazionale e quindi anche militari.

Dire che il problema della guerra è banalizzato significa soprattutto sottolineare le pratiche ufficiali di definizione del tipo di conflitto armato a cui si partecipa. Da quando D'Alema, nel 1999, autorizzò í bombardamenti della Serbia, i governi italiani non hanno mai parlato di guerra vera e propria (anche per aggirare l'articolo 11 della costituzione), lo stato di guerra non è mai stato dichiarato, né il parlamento è stato chiamato in causa, se non per finanziare le missioni all'estero. Coinvolgere il proprio paese in operazioni militari è dunque una prassi abituale che rientra a pieno titolo nella politique politicienne. Come Massimo D'Alema ha candidamente ammesso nel decennale della guerra della Nato contro la Serbia, la decisione fu presa direttamente da lui, quando era presidente del Consiglio dei ministri, e imposta al governo, anche se gli americani non consideravano opportuna una partecipazione diretta dell'Italia e, tutto sommato, i bombardamenti non erano necessari nemmeno da un punto di vista militare.


Clinton le offrì di limitarsi a offrire la disponibilità delle basi italiane. Perché non raccolse l'invito?

Clinton mi disse: "L'Italia è talmente prossima allo scenario di guerra che non vi chiediamo di partecipare alle operazioni militari, è sufficiente che mettiate a disposizione le basi". Gli risposi: "Presidente, l'Italia non è una portaerei. Se faremo insieme quest'azione militare, ci prenderemo le nostre responsabilità al pari degli altri paesi dell'alleanza". Era moralmente giusto ed era anche il modo di esercitare pienamente il nostro ruolo. [...]

Fin dal primo momento io misi le cose assolutamente in chiaro nel Consiglio dei ministri. Dissi "questa è una cosa che io ritengo che si debba fare. Me ne assumo la responsabilità. Se finirà male, mi dimetterò". Punto e basta. Non si votò in Consiglio dei ministri, e nemmeno in Parlamento, cosa che poi mi è stata anche rimproverata. [...]

Dopo le prime vittime civili dei bombardamenti non ebbe mai un momento di pentimento per le sue scelte?

Pentito no, mai. Continuo però ancora oggi a pensare che non era necessario bombardare Belgrado. Penso che ci voglia sempre una misura e una intelligenza nell'uso della forza, ma difendo il principio secondo cui ci sono momenti in cui è inevitabile, quando si tratta di difendere valori come i diritti umani, che non possono essere accantonati nel nome della sovranità nazionale.


Al di là del cinismo di questo Cavour in sedicesimo (che curiosamente gode in Italia della fama di "statista"), c'è da dire che si tratta della declinazione del discorso della guerra divenuta abituale in occidente dopo la fine del bipolarismo (e soprattutto dopo l'11 settembre 2001). Nell'espressione "guerra al terrore" (la global war on terror di George W. Bush) oppure agli "stati canaglia" (rogue states), l'aspetto centrale è la spoliticizzazione del conflitto armato. Il "terrore" appare (o comunque è trattato) come una dimensione-limite o un evento eccezionale di tipo naturale: qualcosa da cui proteggersi e possibilmente da eliminare, ma non come l'espressione di un nemico a cui attribuire un qualche riconoscimento. Si tratta cioè di un fenomeno allo stesso livello di una pandemia o di uno tsunami. Nel caso degli "stati canaglia", il nemico verrà definito in termini morali, ma il risultato è lo stesso: l'azione militare avrà lo scopo di difendere l'"umanità" o i "diritti", come dichiara D'Alema, ma sempre in assenza di un nemico legittimo. Di conseguenza, il conflitto armato sarà concepito come un'operazione di "polizia" o "pulizia" globale (DAL LAGO 2003, 2008b), occasionale (per esempio Serbia, 1999) o di lunga durata (Iraq, dopo il 2003, o Afghanistan, dal 2001) a seconda delle circostanze. E, come ogni operazione di polizia, più o meno regolare, si concluderà con la cattura e l'eliminazione dei criminali (Milosevic, Saddam Hussein).

Qui non è in gioco solo una filosofia dell'intervento armato autoreferenziale e ideologica; il problema è l'intrinseca contraddizione di un modo di fare la guerra in cui scompare il nemico legittimo. Apparentemente, la logica di tali conflitti è la stessa di qualsiasi guerra civile, in cui si lotta all'estremo, non si fanno prigionieri e si coinvolgono normalmente gli innocenti — con la differenza che ora si combatte su scala globale e quindi potenzialmente tutto il mondo è implicato. Con ciò, non intendo sostenere che i conflitti in corso costituiscono episodi di una guerra civile globale. Ritengo piuttosto che guerre in cui il nemico è trattato alla stregua di una piaga o di una catastrofe naturale trascendono fatalmente i limiti culturali che faticosamente e con innumerevoli eccezioni, l'umanità ha posto alla guerra. Se i nemici combattono con il ricorso ad attentati, suicidi e no, attacchi terroristici e così via (ciò che in questo volume sarà definito come "guerra asimmetrica"), è anche vero che l'occidente bombarda indifferentemente militari e civili, rinuncia alle limitazioni delle convenzioni relative al trattamento dei prigionieri (Guantanamo, Abu Ghraib) e si beffa di qualsiasi restrizione del diritto internazionale (come nell'aggressione anglo-americana all'Iraq nel 2003). E questo non può che inasprire il senso di ingiustizia diffuso nel pianeta nei confronti del mondo ricco e sviluppato.


2. Le avanzate travolgenti delle truppe corazzate alleate contro l'esercito di Saddam Hussein, nel febbraio 1991 e nel marzo 2003, rappresentano un tipo di guerra apparente, perché avevano di mira – al di là delle perdite ingenti che ne sono derivate — un nemico sconfitto in partenza, infinitamente più debole sul piano militare e, per quanto riguarda i coscritti iracheni, privo di qualsiasi volontà di resistenza. Erano dimostrazioni dello strapotere occidentale, un messaggio rivolto non solo al despota di Baghdad, ma anche al resto del mondo. In questo senso, sono esempi di un modo di fare la guerra che appartiene a un passato irripetibile. Quello che è successo dopo il 1991 descrive invece il tipo di conflitto che ci accompagnerà probabilmente per molto tempo: guerriglie e contro-guerriglie in remote aree rurali (Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, Sudan) o in ambiente urbano (ancora Afghanistan, Somalia, Iraq, Cecenia, Libano, Gaza, ecc.) che in alcuni casi si prolungano in attentati nel cuore dell'occidente (e non solo); nemici impalpabili, virtuali, evanescenti, eppure capaci di infliggere colpi devastanti; popolazioni cacciate dai loro insediamenti, moltiplicazione di campi profughi e di richiedenti asilo; un senso di insicurezza generalizzato in occidente, ampiamente sfruttato per la diffusione di nuove tecnologie di controllo, una tendenza a ridurre la libertà di circolazione e di movimento, soprattutto degli stranieri, un'ostilità crescente nei confronti delle categorie di persone suscettibili di "essere" o "diventare" nostri nemici.

La dimensione della guerra tende dunque ad assorbire la totalità della nostra esistenza, anche quando non siamo direttamente coinvolti. È in questo senso che Deleuze e Guattari hanno osservato come alle guerre mondiali del XX sia seguito un tipo di pace ancor più terrificante. La situazione contemporanea si può definire come iscrizione della guerra nell'orizzonte ordinario della vita nella società globale. Che si tratti di conflitti di lunga durata (Iraq, Afghanistan) o di esplosioni periodiche (Palestina), si direbbe che un'idea strategica di pacificazione sia impensabile: l'ordine globale è strutturalmente instabile, come se i costi umani (limitati per noi, illimitati per gli altri) dei conflitti fossero considerati condizione inevitabile, anzi necessaria, dell'egemonia occidentale. Non passa giorno senza che i media trasmettano le immagini di conflitti in cui sono coinvolti i "nostri" soldati e, marginalmente, le nostre società: una litania di attentati, bombardamenti, combattimenti urbani o operazioni più o meno segrete — eventi a cui si reagisce con un'alzata di spalle o una leggera smorfia di fastidio, esattamente come i controlli a cui qualsiasi viaggiatore è sottoposto negli aeroporti.

Si può parlare allora di una "mitridatizzazione" della violenza organizzata. Come cercherò di mostrare in questo libro, ai rischi limitati corsi da chi vive nella cinta protetta dell'occidente si accompagnano un visibile ottundimento del senso delle sofferenze degli altri e una consapevolezza pressoché nulla della responsabilità politica dell'occidente nel causarle. Verrà forse un giorno in cui si farà definitiva chiarezza sul martirio a cui la popolazione dell'Iraq (e in parte dell'Iran) è stata sottoposta da almeno trent'anni: il sostegno offerto dagli americani e dagli europei a Saddam Hussein in funzione anti-iraniana, la vendita di armi a entrambi i contendenti durante la guerra Iraq-Iran (senza dimenticare il finanziamento, da parte americana, dei contras del Nicaragua con i proventi della vendita di armi all'Iran), la guerra del 1991 con il bombardamento indiscriminato dei civili iracheni, le sanzioni all'Iraq tra il 1991 e il 2003, l'invasione del 2003. È ragionevole calcolare le perdite civili irachene tra íl 1980 e oggi in almeno tre milioni di esseri umani - vittime di una politica egemonica e di controllo diretto delle risorse energetiche che non sembra aver causato alcun problema a tutti coloro che hanno teorizzato la difesa dei diritti umani come prerogativa della "civiltà occidentale".

Ma anche all'interno del nostro mondo la retorica umanitaria ufficiale si scontra con la realtà di un razzismo dilagante di cui sono vittime gli stranieri, i migranti, gli islamici ecc. È stato Foucault a sottolineare come la supremazia bianca fosse legata alla mitologia di una guerra "tra razze" (FOUCAULT 1998). Oggi, la supremazia si esprime in pratiche di discriminazione e subordinazione di chiunque non corrisponda allo stereotipo implicito dei bianchi come abitatori legittimi dell'occidente: stereotipo implicito, perché qualsiasi discorso sull'inferiorità razziale è imbarazzante o politicamente sconveniente (con l'eccezione dell'estrema destra) in uno spazio sociale in cui i lavoratori stranieri sono una realtà irreversibile; eppure, stereotipo potente in quanto si basa sul discorso dell'inferiorità culturale degli altri. In questo senso, Lo scontro delle civiltà di HUNTINGTON (1997) è la matrice teorica di una "guerra delle culture" che costituisce lo sfondo evidente della politica dell'occidente (o dei paesi sviluppati) verso il resto del mondo.

Ed ecco quindi che la persecuzione degli stranieri "ospiti" nei paesi ricchi e le pratiche di polizia globale si dispongono in un vero e proprio continuum (PALIDDA 1997, 2009; DAL LAGO e PALIDDA 2010). Si tratta di una realtà largamente in ombra, in quanto la conoscenza dei conflitti globali è frammentata nell'attuale divisione del lavoro nelle scienze politiche, sociali e umane. Con poche eccezioni di rilievo che qui verranno debitamente segnalate, la sociologia e l'antropologia si disinteressano dei conflitti contemporanei: nei manuali correnti, la parola "guerra" è citata a malapena e ben pochi applicano un minimo di immaginazione sociologica nel connettere conflitti interni ed esterni. Le scienze sociali restano largamente condizionate da una prospettiva europea o occidentale, come d'altronde risulta dal quadro nazionalista in cui ha preso avvio la sociologia classica e dalle origini coloniali dell'antropologia. Non diversamente avviene nella teoria e nella filosofia politica: nonostante alcune riflessioni che hanno colto il vero e proprio passaggio d'epoca rapresentato dalla fine del bipolarismo, si direbbe che la novità in questo campo sia costituita dalla geopolitica, ovvero da un quadro concettuale in cui il "realismo" dei rapporti di forze tra "noi" e "loro" è assunto come un dato indiscutibile e in fondo dogmatico. Quanto alla filosofia, il sapere che dovrebbe essere interessato più di tutti alla meditazione sui fondamenti del nostro mondo, ho già avuto occasione di rilevare come la propensione oggi dominante all'intimità, all'interiorità e al ripiegamento soggettivo inibisca una vera consapevolezza del significato della guerra contemporanea (DAL LAGO 2007). E ciò vale ovviamente non solo nel caso delle guerre esterne, ma anche delle realtà conflittuali all'interno (razzismo, fenomeni migratori, limitazione delle libertà civili, "sicuritarismo" diffuso).

Certo, c'è una grande eccezione: Michel Foucault. La recente pubblicazione dei suoi corsi al Collège de France (soprattutto degli anni Settanta) ha messo in luce un laboratorio di ricerca storica d'avanguardia (rispetto al suo, ma anche al nostro tempo), in quanto capace di trascendere í confini concettuali dei discorsi convenzionali nelle scienze umane. Penso in particolare alle idee della "governamentalità" come insieme di pratiche di potere che eccedono la sfera del politico (e dello stato) e della guerra come sistema regolativo e fattore costituente dell'ordinamento politico-sociale. Anche se all'epoca di Foucault la riflessione sulla globalizzazione era appena agli inizi, i suoi scritti ci offrono una formidabile scatola degli attrezzi per cogliere le implicazioni di guerra, economia e trasformazioni sociali nel nostro mondo. Io credo che in questo senso le ricerche di Foucault integrino, seppure criticamente, l'analisi marxiana della guerra, per non parlare della tradizione della sociologia dei conflitti.


3. Questo volume costituisce un tentativo di fissare alcuni punti fermi nell'analisi filosofica e sociologica della guerra contemporanea. Non ha alcuna pretesa di completezza, né di organicità - ciò che apparirebbe patetico, vista la complessità dei piani che si intrecciano: teorici, strategici, militari, economici, storici, sociali ecc. Rispetto a qualche tentativo analogo al mio, ho dedicato una particolare attenzione al "discorso strategico", cioè allo strano sapere - non scienza in senso stretto, ma piuttosto arte o "sistema degli espedienti", come lo definiva il maresciallo prussiano von Moltke - che da alcuni secoli cerca invano di fissare le condizioni cognitive della vittoria in guerra. Si tratta di un'attività intellettuale indubbiamente sinistra, eppure rivelatrice degli intimi rapporti tra guerra ed economia. Come cercherò di mostrare in alcuni capitoli della parte seconda, l'immaginazione strategica gioca un ruolo decisivo nell'innovazione economica. Parlo sia dell'invenzione di sistemi o gadget che, dopo essere stati progettati per scopi militari, divengono beni di consumo o strumenti di sviluppo economico (come l'informatica), sia di uno stile di pensiero che dal mondo militare trapassa in quello civile. Tutto quello che oggi riguarda la "sicurezza" civile, dall'attività di polizia alle pratiche giudiziarie, è di origine militare. Ma il pensiero strategico ha un ruolo fondamentale nell'orientare la cultura del business e qualsiasi altro sistema sociale più o meno dispotico.

Non sono immune da un certo spirito polemico nei confronti della cultura di sinistra in cui mi riconosco. Spesso, il rifiuto della guerra o la propensione per la soluzione pacifica delle controversie internazionali comporta il disinteresse per la conoscenza dei conflitti armati. A me è capitato più di una volta, mentre esponevo alcuni aspetti della guerra contemporanea discussi in questo volume, di suscitare in qualche ascoltatore una vera e propria ripulsa. Sono stato accusato di "militarismo" solo per il fatto di cercare di comprendere il nucleo del pensiero strategico contemporaneo. C'è una certa difficoltà ad accettare il fatto che la guerra — così come viene combattuta oggi — non è un'oscura dimensione pulsionale o, come dice HILLMAN (2004), un "archetipo dell'anima", ma l'articolazione più o meno fatidica di sistemi che si muovono per inerzia, una volta avviati. Che dunque la guerra non si manifesta solo nelle sue orribili conseguenze, ma nel lavorìo incessante di centri di ricerca, laboratori, think tank, industrie d'avanguardia, imprese e così via. Oggi la guerra non è più quella dei Lieder di Schubert:

Hier, wo der Flammen düstrer Schein
Ach! nur auf Waffen spielt,
Hier fühlt die Brust sich ganz allein,
Der Wehmut Träne quillt.
Herz! Daß der Trost dich nicht verläßt!
Es ruft noch manche Schlacht.
Bald ruh ich wohl und schlafe fest,
Herzliebste — gute Nacht!

Né i soldati avvertono presagi di morte alla luce del fuoco dei bivacchi. Invece, i combattenti contemporanei — arruolati nelle forze armate, ausiliari o mercenari — sono alla ricerca di opportunità economiche o semplicemente di un salario, per usare le parole di alcuni di loro intervistati qui nel capitolo ottavo. Come mostro in questo volume, l'implicazione di innovazione tecnologica e distruzione scientifica, di partecipazione della società civile alla guerra e militarizzazione delle relazioni sociali, e quindi di pace e di guerra, è oggi talmente stretta da coinvolgerci tutti in qualche misura — in un senso che lo stesso Trotsky, citato qui in esergo, non avrebbe potuto nemmeno immaginare. Ed ecco allora che una cultura che si vuole critica del capitalismo deve esserlo anche della guerra e delle sue conseguenze sulla vita civile.

Nella prima parte discuto, tra l'altro, i difficili rapporti tra i filosofi e la guerra. In questa parte hanno un certo rilievo sia Platone e Kant, sia una figura a noi vicina come Hannah Arendt che, pur avendo sottoposto a critica serrata l'impoliticità della filosofia, condivide la rimozione del problema della guerra tipica della tradizione del pensiero occidentale. Ma qui ha un ruolo anche un personaggio come T.E. Lawrence, l'intellettuale prestato alla guerriglia che ha anticipato, per certi versi, i conflitti asimmetrici combattuti oggi. Nella seconda parte analizzo i rapporti tra dimensione strategica, sociale ed economica delle guerre contemporanee, mentre nella terza parte mi soffermo sulle pratiche militari di controllo e contenimento che oggi hanno di mira stranieri e migranti. Infine, nell'Appendice ritorno sulla figura di T. E. Lawrence, di cui sono presentati e tradotti due brevi testi veramente profetici.

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Capitolo quarto
La dimensione sociale della guerra



Poche attività umane sono così intensamente sociali come la guerra moderna. [...] In tutto il mondo, dopo il 1914, ogni stato maggiore ha riconosciuto che il valore individuale dei soldati è inessenziale quanto la loro bellezza.


La natura sociale della guerra

La tesi centrale di questo capitolo è semplice: la guerra è un fatto sociale e quindi le sue trasformazioni tendono a riflettersi sull'assetto della società. A prima vista si tratta di una di quelle ovvietà che suscitano le ironie di chi non si occupa di scienze sociali. A uno sguardo più attento, tuttavia, la formula appare più complessa, perché chiama in causa l'interazione tra due dimensioni solitamente considerate agli antipodi: la "vita sociale", ovvero l'insieme di relazioni che tengono assieme gli esseri umani, e la "guerra", ovvero la situazione estrema in cui essi si contrappongono fino al punto di darsi la morte. In realtà, come si cercherà di mostrare qui in dettaglio, stato di guerra e società non sono incompatibili. Anzi, è proprio la loro implicazione a mostrarci come tra interno e esterno della società occidentale, tra la nostra esistenza apparentemente protetta o normale e la conflittualità del resto del mondo, non esista soluzione di continuità. Ciò è tanto più vero quanto più i conflitti di ogni parte del mondo tendono a connettersi, sovrapporsi e influire su tutti gli altri.

Va detto che le relazioni tra guerra e società sono abbastanza in ombra nelle scienze sociali. Nel XX secolo (epoca del massimo sviluppo della sociologia e dell'antropologia), pochi autori di spicco se ne sono occupati, come se la guerra fosse un'eccezione, un'anomalia da ignorare. Esiste certamente un'importante tradizione di sociologia delle professioni e delle organizzazioni militari, ma è proprio la guerra, come dinamica quasi sempre imprevedibile e fattore di cambiamento, a non trovare che un posto marginale nel sapere normale della società. Si tratta di una lacuna, o se vogliamo di una rimozione, che si estende ad altri saperi come la filosofia politica o la politologia. Insomma, quando la parola spetta alle armi, la conoscenza sembra arrestarsi. Si potrà osservare che, per secoli, la storia è stata storia di guerre, se non di battaglie, ma ciò cambia poco il quadro di reticenza a cui alludiamo. Solo recentemente, infatti, il discorso storico ha affrontato la descrizione sistematica della guerra (o meglio del combattimento), come situazione sociale limite in cui sono implicati esseri umani in carne e ossa e non mere figurine militari (KEEGAN 2001).

La definizione della guerra come fatto sociale rimanda a due prospettive distinte. La prima è che la guerra, al pari di qualsiasi altra attività umana, come la scienza o l'arte, è comprensibile solo nel quadro di specifiche forme di società. Ogni modo di fare la guerra riflette in senso lato un tipo di ordine sociale e politico. Per limitarsi all'era moderna, chiunque comprende la differenza tra le incessanti guerre dinastiche del secolo XVIII, combattute da eserciti formati in larga parte da mercenari, e quelle totali del secolo XX, in cui stati nazionali, democrazie o dittature, hanno messo in campo forze armate di milioni di uomini per ridurre all'impotenza i paesi nemici. La seconda prospettiva è meno evidente, perché riguarda la natura specificamente sociale di ogni attività bellica. Benché raramente i manuali di sociologia trattino di guerra, questa è un fatto sociale per eccellenza. E ciò sia perché mette alla prova nella situazione della morte di massa (e di ciò che ne consegue, lutti e distruzioni) la coesione delle società, sia perché è un insieme di processi socialmente complessi: mobilitazione economica, innovazione scientifica e tecnologica, disciplinamento e addestramento di vaste formazioni armate, complesse prestazioni intellettuali (la strategia e la pianificazione delle campagne militari), attività gestionali articolate (la guida e il controllo di ingenti macchine organizzative che devono affrontare la possibilità costitutiva di essere distrutte o menomate).

La tesi di questo capitolo non si limita però a mettere in luce la complessità sociale della guerra. Essa sottolinea anche come la guerra -cor trasformi la società. La ragione principale di questa capacità risiede in un'autonoma funzione propulsiva dei conflitti. Non c'è mai stata una guerra che si sia conformata ai piani degli strateghi. E ciò per un complesso di motivi: in primo luogo, è difficile che i piani di una parte, elaborati nel chiuso degli stati maggiori, possano tener conto delle contromosse degli avversari. In secondo luogo, ogni guerra incorpora, sia al livello della strategia, sia a quello della tattica, dei fattori inerziali e aleatori che Clausewitz chiamava frizione o attrito e che oggi vengono definiti "nebbia della guerra" o "carattere non-lineare dei conflitti". In altri termini, ogni guerra è un gioco di cui si possono prevedere tutt'al più le mosse iniziali, ma molto difficilmente le linee evolutive e quasi mai l'esito. Soprattutto, l'imprevedibilità si traduce in una mobilitazione di forze che tendono a trascinare le parti in lotta in un processo cumulativo di reciproca distruzione.

L'esperienza militare del Novecento, iniziata con lo scoppio della prima guerra mondiale, si può riassumere in sostanza come passaggio da conflitti teoricamente limitati a conflitti relativamente illimitati. Quanto più una parte alza il tiro, allo scopo di battere il nemico, tanto più questo adotterà forme di lotta nuove e totalizzanti. E questo significa il coinvolgimento di forze sempre più ampie e, a limite, di tutte le energie economiche e sociali nella guerra. L'esempio più noto di questo carattere cumulativo e innovativo dei conflitti armati è senz'altro il repentino mutamento strategico del primo conflitto mondiale, quando la guerra di movimento si è mutata in una guerra di posizione che ha inchiodato nelle trincee gli eserciti contrapposti.

Nel 1914 gli stati maggiori delle potenze che stavano per affrontarsi sui campi di battaglia pensavano a campagne di pochi mesi, perché erano ancora vincolati all'esperienza della guerra manovrata e di movimento tipica del XIX secolo (KEEGAN 2002). L'offensiva tedesca a occidente, basata su un grandioso progetto di accerchiamento delle forze anglo-francesi (il piano Schlieffen), sembrò in un primo momento realizzare il suo obiettivo, la conquista di Parigi, che avrebbe dovuto porre fine al conflitto. Invece si arenò, sia per l'incapacità tedesca di dominare un teatro così vasto e per l'esaurimento delle forze all'attacco, sia per la tenace resistenza francese. Quello che le potenze belligeranti non avevano previsto era che la guerra, a causa della mobilitazione di milioni di uomini e dello sviluppo di armi sempre più potenti, non avrebbe contrapposto gli eserciti, ma intere società. Di conseguenza, gli stati europei furono coinvolti in una guerra di trincea quinquennale che modificò profondamente l'equilibrio politico del continente, gettando le premesse di un conflitto ancora più devastante. La memoria dell'immane macello, intrecciata alla grande depressione economica, condizionò per decenni la politica estera delle potenze grandi e piccole. In Germania, Italia e Giappone creò un senso di frustrazione e di rivalsa che alimentò il nazionalismo estremo, il militarismo e infine il riarmo degli anni trenta. In Inghilterra e Francia, provocò una depressione sociale e politica che impedì di valutare esattamente il significato dell'espansionismo nazista e fascista e dell'aggressività giapponese (BRENDON 2002).

I modi in cui le guerre trasformano la società non si limitano però ai rapporti di forza tra le potenze. Esse modificano profondamente le forme della vita associata.

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Ovviamente, dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 a New York, dell'11 marzo 2004 a Madrid e del giugno 2005 a Londra (per non parlare di Bali, del Marocco, del Pakistan ecc.), questa pretesa si è rivelata fragile. Ma la presenza della guerra nelle nostre vite non si limita allo spettro del terrorismo. Essa ha determinato piuttosto una mobilitazione che, lungi dal costituire uno stato d'eccezione, ha riorientato stabilmente le nostre abitudini, cioè le forme in cui si volge normalmente la vita sociale. Alcuni di questi cambiamenti sono sotto gli occhi di tutti e si possono riassumere nella formula del primato della sicurezza: inasprimento dei controlli alle frontiere, negli aeroporti e in generale nei luoghi di transito, potenziamento e onnipresenza dell'intelligence, sospetto generalizzato verso gli stranieri, soprattutto se di origine nord-africana, mediorientale, araba o "islamica", allestimento di campi per prigionieri privi di uno status preciso e quindi di qualsiasi garanzia (Guantanamo, campi in Iraq e Afghanistan ecc.).

ll primato della sicurezza significa in ultima analisi la militarízzazione del controllo sociale, cioè la gestione in termini militari delle minacce portate alle società occidentali dall'esterno (infiltrazioni terroristiche) o dall'interno (cellule terroristiche dormienti). La militarizzazione del controllo comporta due conseguenze principali: la prima è che certe categorie di esseri umani, in quanto sospettate di connivenza con il nemico, sono sottratte alle normali garanzie giuridiche su cui l'occidente ha costruito la propria rappresentazione di culla del diritto. Il Patriot Act voluto da Bush e confezionato dal ministro della giustizia Ashcroft, l'istituzione dei campi di detenzione come Guantanamo, l'evidente normalità della tortura nel carcere di Abu Graib rappresentano l'istituzione di un regime militare speciale riservato ai "terroristi". La seconda conseguenza è la messa in stato d'accusa virtuale e reale di quei tipi umani, in particolare i migranti, considerati inclini, per la loro "natura" sociale irregolare, ad accogliere la propaganda dei nemici dell'occidente. In questo senso, i centri di detenzione (ormai diffusi in tutto il mondo) per stranieri illegittimi o "clandestini", non sono formalmente diversi dalle carceri militari speciali, in quanto riservati a soggetti privi di qualsiasi legittimità sociale. Si può anche notare che ormai il principio dell'inimicizia (su cui si fonda la militarizzazione del controllo) tenda a investire qualsiasi minaccia dell'ordine costituito (ciò vale, sotto determinate circostanze, anche per l'opposizione interna all'occidente).

Altri cambiamenti, invece, meno evidenti ma probabilmente capaci di provocare effetti imprevedibili, si possono compendiare nella formula del primato della decisione armata. A partire dal 1999, quando la guerra contro la Serbia fu condotta dalla Nato senza il consenso dell'Onu, si è affermato il principio di ingerenza militare dell'occidente in tutto il mondo. La giustificazione o legittimazione di questa attivata di polizia globale fa leva sulla minaccia del terrorismo e di chi lo sosterrebbe (i cosiddetti rogue states, in primo luogo) ma è sostanzialmente autoreferenziale. Assumendo che solo l'occidente pratichi il diritto nelle relazioni interne e internazionali (si trovi cioè in una situazione giuridica ideale), e disponga dei mezzi per farlo rispettare, si gettano di fatto le premesse per la costituzione di un potere militare globale legittimato dalle circostanze. Circostanze peraltro durature, in quanto si ritiene che ogni prevedibile opposizione armata al suo esercizio ricada nella fattispecie del terrorismo. La guerra al terrorismo riposa quindi su un potere di fatto o capacità militare di intervento, che naturalmente può essere giustificato con il richiamo alla superiorità culturale (economica, sociale e anche militare) della "civiltà occidentale". In questo senso, il potere di intervento, cioè la guerra, assume una funzione costituente e quindi capace di ri-configurare le relazioni globali di potere.

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Le meraviglie dell'intelligenza

Dire che la guerra assume oggi più di ieri una funzione costituente, anche se implicita o rimossa significa riconoscere non solo che progettualità politico-sociale e progettualità militare vanno perfettamente d'accordo, ma che, al limite, è la seconda a determinare il ritmo della prima. Qui il discorso non si limita alle tecnologie che nella nostra vita quotidiana sono divenute perfettamente ordinarie (e anzi sono assunte come simbolo di uno sviluppo pacifico e perfino della libertà di comunicare) e che hanno un'origine militare, come Internet. Basterebbe limitarsi al fatto che nella società di mercato oggi trionfante, in cui il ruolo della mano pubblica è considerato scandaloso, prospera il più straordinario apparato di welfare militare che la storia abbia conosciuto. Se Roma, con una trentina di legioni attive al momento di massimo sviluppo, era considerata l'impero più militarizzato dell'antichità e la Prussia di Federico II, con un esercito di alcune decine di migliaia di uomini, un vero e proprio stato-caserma, che cosa dovremmo dire degli Stati Uniti contemporanei, che hanno sul libro paga del Department of Defense più di due milioni di uomini, senza contare í riservisti, la guardia nazionale e gli altri milioni che lavorano per la parte civile del complesso militare-industriale? E che dire, oltre ai mercenari, degli altri milioni di portatori d'armi a fini civili, come poliziotti di ogni tipo o doganieri oggi arruolati nella guerra senza fine al terrorismo?

Il sistema militare, apparentemente silenzioso o raggelato nel tempo di pace, e dispiegato e più o meno trionfante in quello di guerra, è sembrato una sorta di implicito male necessario finché, dopo il 1989, le convenzioni, intellettuali, politiche e giuridiche, hanno cominciato a sgretolarsi, rivelando nel mondo un solo grande campo di battaglia. Naturalmente, si tratta di uno scenario marziale profondamente nuovo, del tutto adeguato alle direzioni prese negli ultimi decenni dall'economia e dalla tecnologia. Per cominciare, i primi anni Novanta hanno visto l'affermarsi dell'utopia tenocratica in campo strategico, nota come Rma o Rivoluzione nelle questioni militari. Per comprenderne íl significato, è necessario ricordare che la storia militare occidentale è convenzionalmente contrassegnata da svolte a cui si dà il nome di "rivoluzioni". Per limitarsi all'epoca moderna, tali sono considerate la diffusione su larga scala delle armi da fuoco (tra XVI e XVII secolo), l'introduzione degli eserciti di leva (tra XVIII e XIX secolo), l'adozione, menzionata sopra, di forze corazzate e aviazione strategica (prima metà del XX secolo). La Rma segnerebbe un'ulteriore svolta, la più radicale di tutte, in quanto capace non solo di assumere il mondo come campo di applicazione, ma anche e soprattutto di realizzare, in linea di principio, la progressiva riduzione, se non sparizione, dell'elemento umano combattente (O'HANLON 2000). Il nucleo strategico della Rma è essenzialmente costituito dall'impiego delle nuove tecnologie (informatiche, comunicative, robotiche) nei settori militari in cui l'elemento umano è sempre stato preponderante: raccolta di informazioni sul terreno e combattimento. Qui i soldati in carne e ossa sarebbero progressivamente sostituiti, anche se non esclusivamente, dall'automazione dei sistemi di informazione (infowar) e dall'impiego preponderante della guerra aerea e missilistica per neutralizzare le forze armate nemiche (DE LANDA 1996).

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La degradazione del nemico conosce sfumature diverse. Si va dalla creazione di categorie ad hoc, come quella di "nemico combattente", con cui si definiscono i "terroristi" catturati in Afgahanistan o altrove e internati nella base americana di Guantanamo (BONINI 2004) alla pura e semplice cancellazione delle vittime dall'informazione. Non c'è stata guerra, dal 1991 in poi, in cui i vincitori si siano preoccupati di proporre una valutazione delle vittime civili. L'uso dell'espressione "danni collaterali" per indicare le vittime civili dei bombardamenti esprime perfettamente l'equiparazione degli "altri" esseri umani a semplici cose coinvolte fatalmente dalla guerra. Questo stile è d'altronde del tutto coerente con la pratica militare della "risposta indiscriminata", di cui costituisce in realtà una pura e semplice estensione linguistica. Quando un'unità combattente occidentale è attaccata sul terreno, reagisce facendo il vuoto interno a sé. Poiché il nemico è sempre e comunque terrorista, si mira a distruggere il suo habitat civile e quindi non solo a colpire "qualunque cosa si muova", ma anche la popolazione in cui presumibilmente si annida. La dinamica dei combattimenti urbani a Mogadiscio (1993), in Palestina, Cecenia e oggi in Iraq è sostanzialmente la stessa. Le forze armate regolari colpiscono in modo generalizzato i civili, bombardando i santuari di terroristi o guerriglieri situati negli agglomerati urbani, e quindi cercando essenzialmente di "obliterare" ogni appoggio, effettivo o virtuale, al nemico. In questo senso, la tattica occidentale è sostanzialmente speculare a quella dei terroristi, il cui scopo è coinvolgere i civili per mobilitarli contro gli occidentali.

Come ho già indicato, si tratta di un caso evidente di guerra asimmetrica, che si può definire come conflitto in cui una parte dotata di una forza schiacciante cerca di distruggere un nemico infinitamente più debole che combatte in modo non convenzionale e "scorretto" (METZ 1997, TUCKER 1999, PAPE 2007). Ma l'asimmetria acquista qui un significato molto più ampio della sua dimensione militare. In generale, quando l'occidente combatte si può parlare di un'asimmetria di tipo antropologico. La definizione militare del nemico come barbaro o criminale esclude qualsiasi riconoscimento del suo status di combattente. Di conseguenza, verrà trattato come un mero problema tecnico, equiparandolo a un disastro o a una piaga naturale, come un'epidemia. Si tratta all'apparenza del modello razzista delle guerre coloniali e di conquista, i cui esempi estremi sono costituiti dall'aggressione italiana contro l'Etiopia nel 1936 e dall'invasione nazista dell'Urss nel 1942. Ma oggi non è necessaria alcuna teoria esplicita dell'inferiorità delle razze, come negli anni trenta e quaranta, per giustificare la pratica della guerra asimmetrica. Poiché si assume che la sola cultura (legittima) sia la nostra, gli altri saranno considerati privi di cultura o portatori di culture abnormi, di mostri culturali (come, appunto, il fondamentalismo). Quindi, la guerra asimmetrica non è combattuta contro degli uomini diversi ma contro dei non-uomini. In questo senso, il trattamento del nemico è razzista in senso iperbolico, perché non assume la sua inferiorità razziale, ma la sua esclusione a priori dal genere umano.

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Capitolo decimo
La porta stretta



Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà. (I. MONTANELLI, Dentro la guerra)


La portaerei affondata

Nel 1925, gli ammiragli italiani proposero a Mussolini di costruire portaerei, tipo di nave militare di cui le principali potenze mondiali cominciavano a dotarsi su larga scala (all'epoca, la marina militare italiana aveva in programma soprattutto nuove corazzate, ciò che, sulla carta, l'avrebbe fatta diventare di poco inferiore alla flotta inglese.) Mussolini rifiutò le portaerei, sia perché l'aviazione (controllata dal potente gerarca Italo Balbo) era contraria, sia perché aveva idee molto particolari in tema di strategia militare e geopolitica. "L'Italia è già una portaerei naturale, protesa nel Mediterraneo", proclamò soddisfatto. Come è noto, la marina italiana fu ripetutamente sconfitta, tra il 1940 e il 1943 (con l'eccezione di alcuni colpi di mano nel porto di Alessandria d'Egitto). Non era dotata di radar e non era protetta dall'aviazione, che disponeva di un raggio d'azione limitato e che comunque, gelosa della propria autonomia, non riusciva a coordinarsi con la marina. Poco dopo l'inizio della guerra, l'aviazione italiana fu ridotta all'impotenza, quando gran parte degli apparecchi, immobilizzati a terra nella "portaerei naturale", furono distrutti dagli inglesi.

L'aneddoto non descrive solo il dilettantismo del regime fascista nelle questioni militari. Rappresenta anche l'immagine che i governanti italiani hanno, da sempre, del ruolo dell'Italia nel Mediterraneo. Una fortezza in mezzo a un mare largamente estraneo e ostile. Da una parte, la consapevolezza che la penisola, per almeno un terzo, è più vicina all'Africa di quanto non sia all'Europa continentale. Dall'altra, una ristrettezza di vedute che è frutto della storica marginalità del paese rispetto al mondo sviluppato. Dai tempi dell'unificazione, la politica estera italiana è oscillata tra due poli: la volontà di inserire il paese nel novero delle nazioni "che contano" e l'aspirazione a farlo diventare una potenza imperiale, proiettata verso le profondità dell'Africa e capace di esercitare una vasta influenza sul mondo slavo e nel vicino oriente.

Possiamo definire l'atteggiamento italiano verso il Mediterraneo, nel periodo che va dall'unificazione alla seconda guerra mondiale, come colonialismo tardivo. Dalla fine degli anni Settanta del XIX secolo sino alla guerra d'Etiopia, un paese male unificato e profondamente arretrato si impegna – prima in modo ufficioso, per interposta attività di esploratori e missionari, poi ufficialmente – nella conquista di terre al di là del mare. Il colonialismo italiano non discende da un ruolo storico di potenza politica ed economica su scala globale, come l'Inghilterra e in misura minore la Francia. Al pari di quello tedesco, ma con mezzi infinitamente minori, nasce piuttosto da una velleità di potenza puramente politica. In più, rispetto al caso del Reich, da considerazioni di tipo demografico e sociale. L'idea principale era in fondo quella di distogliere l'emigrazione dai tradizionali paesi d'attrazione (Stati Uniti, Argentina, Francia, Svizzera ed altri paesi europei), per dirigerla verso territori da "civilizzare" e annettere alla patria. A questa concezione di un colonialismo o imperialismo "sociale" collaborarono pensatori e intellettuali laici e cattolici, sia di destra, com'era naturale, sia provenienti dal socialismo moderato. Nel 1911, Giovanni Pascoli, poeta noto per la sua "mitezza", così si espresse in un discorso commemorativo dedicato ai caduti della guerra di Libia:

La grande Proletaria si è mossa. Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre le Alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora; ad aprire vie nell'inaccessibile, a costruire città, dove era la selva vergine, piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada.

Ora l'Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant'anni ch'ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all'aumento e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volonterosi quel che sol vogliono, lavoro; al suo solenne impegno coi secoli augusti delle sue due Istorie, di non esser da meno nella sua terza Era di quel che fosse nelle due prime; si è presentata possente e serena, pronta e rapida, umana e forte, per mare, per terra e per cielo.

Il testo non è privo di accenti razzisti espliciti all'indirizzo di "Beduini, Berberi e Turchi", e nemmeno di una retorica che diverrà corrente con il fascismo e il nazismo (la nostra non è una guerra offensiva, ma difensiva ecc.). Tuttavia, l'aspetto più interessante, e destinato a rimanere immutato sino a oggi, è il sovrano disinteresse per ciò che sta dall'altra parte. Le sponde africane sono viste esclusivamente come uno spazio vuoto e disabitato, una terra da dissodare ai margini del deserto. La retorica sulla continuità tra la storia romana e quella dell'Italia unita, "grande martire tra le nazioni", non nasconde l'incapacità di immaginare che dall'altra parte esistono non solo esseri umani, ma anche capaci di iniziativa e soprattutto di resistenza. L'ignoranza per quello che la Libia era davvero nel 1911, un paese complesso, solo marginalmente controllato dai turchi e abitato da gente animosa e fiera della sua indipendenza reale, porterà a continui rovesci militari italiani e a successivi massacri dei civili libici, anche dopo l'annessione. Il controllo del paese resterà problematico sino all'avvento del fascismo e all'arrivo in qualità di governatore di Rodolfo Graziani, il quale praticherà su larga scala rappresaglie sui civili, esecuzioni sommarie e deportazioni. In poche parole, lo sguardo ufficiale e prevalente degli italiani sulle sponde meridionali del Mediterraneo, anche prima del fascismo, è stato sostanzialmente razzista.

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Capitolo undicesimo
L'anomalia italiana e l'insicurezzà



                            And hereupon it was my mother dear
                            Did bring forth twins at once, both me and fear.

                            (Thomas Hobbes, Vita carmine expressa, 27-28)



Una destra che viene da lontano

Mentre ultimo questo libro, nel gennaio 2010, diversi segnali indicano che Berlusconi, nonostante la debolezza dell'opposizione e il rilancio della sua immagine dopo l'aggressione del dicembre 2009 a Milano, ha imboccato il viale del tramonto. Uno stile di governo da caudillo mediatico, gli ha alienato l'opinione pubblica internazionale. A parte Putin, la cui amicizia è tutta da verificare, il solo capo di stato con cui Berlusconi mostri qualche sintonia è l'impresentabile Gheddafi. Una vita privata da satiro di provincia ha messo in luce la clamorosa contraddizione tra il moralismo bacchettone e l'autoritarismo del governo (caso Englaro, pacchetto sicurezza) e lo sfrenato menefreghismo privato del suo capo, obbligando a una presa di distanza dal Cavaliere quelle gerarchie ecclesiastiche che pure l'avevano preferito a Prodi. E soprattutto, al di là delle boutade del ministro dell'economia Tremonti, è certo che il governo non è in grado, per incapacità tecnica e ragioni culturali, di fronteggiare la crisi economica. Inoltre, prima del dicembre 2009, si annunciavano altre rivelazioni sulle abitudini private di Berlusconi. È probabile che, esaurita l'emozione per il ferimento del leader, nuovi veleni (con relative campagne giornalistiche, probabili interventi dei servizi segreti ecc.) verranno prima o poi a galla, con l'indebolimento forse irreversibile del premier.

Ciò detto, in Italia c'è poco da rallegrarsi, e non solo perché il centrodestra dispone di una vasta maggioranza e a breve termine non si profilano alternative al Cavaliere. La fine dei partitini della sinistra sociale fa sì che una parte consistente dell'opposizione non sia rappresentata e che, soprattutto, non abbia voce un'alternativa al laissez faire sgangherato del centro-destra. Quanto al principale partito d'opposizione, la campagna del Pd per le elezioni regionali del 2010 è forse un modello di suicidio strategico annunciato: nessun programma alternativo, una sorda lotta tra i candidati, tra i notabili e gli emergenti, tra le diverse anime del partito e così via. Ma quello che sconcerta è come nei documenti e nelle dichiarazioni pubbliche del Pd manchi un qualsiasi riferimento ai ceti o agli interessi da rappresentare. La corsa cieca a liberarsi dell'ideologia (in realtà, di qualsiasi punto di vista autonomo) ha fatto sì che il Pd sia ormai privo di una cultura politica, intendendo con ciò gli orientamenti di un partito che esprimono gli interessi materiali e simbolici del proprio elettorato. Molto cattolicesimo, un po' di laicismo minoritario, spruzzate di retorica riformista, ammiccamenti all'impresa, perbenismo... Non disponendo di un'autentica cultura politica, né di un programma alternativo a Berlusconi, è naturale che il Pd parli soprattutto di se stesso, producendo una sensazione deprimente di autoreferenzialità.

Anche l'altro partito laico d'opposizione, l'Italia dei valori, che pure, per la sua opposizione a Berlusconi, ha raccolto i consensi di transfughi del Pd e dei partiti della sinistra sociale non sembra avere una base sociale e culturale consistente. È in sostanza una formazione in cui un leader più o meno carismatico ha assemblato notabili, pezzi di altre culture politiche e anche persone di buona volontà. Se mai il potere personale di Berlusconi inizierà a incrinarsi, l'opposizione non ha quindi molto da opporre al berlusconismo. Questo non è stato solo il risultato dell'ascesa al potere di un imprenditore spregiudicato e dalle origini oscure, capace di piegare le leggi a suo vantaggio e di dominare l'opinione pubblica con il controllo dei mezzi di comunicazione pubblici e privati. Il berlusconismo è soprattutto un blocco sociale e culturale relativamente maggioritario, grosso modo lo stesso che a suo tempo sosteneva il Caf. Nel 1993-1994, il talento di Berlusconi si è manifestato nell'aver compreso che, dopo la fine di Craxi e del Caf, questo blocco era privo di un leader. Ecco allora la discesa in campo, l'invenzione di Forza Italia, del Popolo della libertà e poi del Partito della libertà. È vero che senza le televisioni l'impresa di Berlusconi sarebbe stata impossibile. Ma lo stile è sempre stato quello del maestro Craxi (non a caso grande alleato e sponsor del cavaliere) e dei congressi pacchiani allestiti dall'architetto Panseca. Che il Pdl, soprattutto nella cerchia più vicino a Berlusconi, pulluli di ex socialisti ed ex democristiani di destra (nonché di transfughi della sinistra) dà un'idea della continuità tra la prima e la seconda repubblica. Se il programma del Cavaliere era quello di Gelli, come molti hanno scritto, significa che il capo della P2 ha espresso meglio di ogni altro l'anima profonda della destra italiana.

Un blocco sociale e culturale non è solo un'aggregazione di interessi, anche di lungo periodo. È stile di vita idealizzato, assemblaggio più o meno riuscito di quello che un tempo i sociologi avrebbero chiamato "valori", e cioè punti di vista profondi, è un insieme al tempo stesso concreto e immaginario, e quindi un sistema di rappresentazioni in cui riconoscersi. Berlusconi ha offerto al blocco sociale orfano dei governi della prima repubblica – lo sterminato mondo della piccola impresa e del commercio che un tempo votava Dc, le tante Vandee italiane, il cosiddetto popolo delle partite Iva, dell'evasione fiscale e dell'interesse particolare a ogni costo, la piccola borghesia impiegatizia del sud, le clientele elettorali (a cui si aggiungono anche pezzi di classe operaia delusi dai sindacati) ecc. – un modello culturale in cui identificarsi. Il mito della riuscita personale, il paternalismo del "ghe pensi mi", il maschilismo, la rozzezza da cumenda, le barzellette da caserma corrispondono esattamente ai sentimenti profondi e allo stile di vita del blocco sociale di centro-destra. Esattamente come il provincialismo, l'indifferenza in materia di politica internazionale, il cattolicesimo opportunista, l'ostilità per gli stranieri, le tendenze forcaiole in tema di ordine pubblico e sicurezza.

Berlusconi, il cui fiuto politico è indubbiamente superiore a quello dei suoi avversari, ha sintetizzato tutto ciò nella sua persona. Nella coalizione che sta guidando gli accenti possono essere molto diversi – la goliardia xenofoba della Lega, il moderatismo dell'ala cattolica e centrista del Pdl, il perbenismo statalista degli ex missini, le tendenze separatiste a nord come a sud ecc. –, ma Berlusconi rappresenta la capacità di mediazione tra posizioni anche lontane. Non avendo alcuna ideologia personale (che non sia la volontà spasmodica di guadagno e successo in ogni campo), egli è volta per volta e allo stesso tempo tutto quello che sono i suoi alleati. Si potrebbe dire, con Lao Tzu, che Berlusconi è il vuoto che dà senso al pieno e quindi permette a una sparsa pluralità di funzionare come unità. Che questa sua capacità di leadership si sia affermata con la manipolazione mediatica e la trasformazione di una saga personale in vicenda pubblica non cambia i termini della questione. Berlusconi è un caudillo in declino. Ma ciò significa soltanto che se mai e quando sparirà, il blocco sociale e culturale che lo sostiene andrà in cerca di un nuovo padrone.


La necessità strutturale dell'ostilità

Il personaggio Berlusconi è, insomma, la maschera di un blocco sociale e culturale di destra che si è potuto esprimere liberamente, quasi gioiosamente, grazie alla scomparsa dei partiti che, dopo la caduta del fascismo, esercitavano in Italia una funzione gramsciana di egemonia o pedagogia collettiva, e cioè il Pci e la Dc. Il termine generico "destra" è forse inadeguato perché non rende la peculiarità anche storica di questa cultura. "Fascistoide" ne esprime meglio la natura: attaccamento spasmodico alla proprietà, affarismo, decisionismo contro i deboli, mitologia, a seconda delle varianti, della nazione o della piccola patria, spirito strapaesano, sospetto nei confronti di qualsiasi cosa venga da fuori, assoluta indifferenza ai diritti degli altri. È una cultura provinciale profondamente radicata nel paese, forse più nelle zone sviluppate e apparentemente moderne che nel resto? Probabilmente, le sue potenzialità eversive (come si manifestano nella Lega) sono state tenute a freno per molto tempo dalla presenza di un capillare cattolicesimo organizzato. Ma per avere un'idea di quanto sia antico questo genius loci italiano, anzi padano, si considerino i versi apparentemente affabili di un poeta settecentesco, l'abate Giuseppe Rota, difensore della poesia in bergamasco e anti-illuminista radicale.

Mi per efett de ver amour, de stima,
Lavori e pensi in prima
A i mè compatriogg e a i mè terèr;
E dopo, se 'l men vansa, a i forestèr.

Ma l'affabilità dell'uomo di chiesa è notoriamente scomparsa nei suoi successori leghisti e non solo in loro. È vero che nello stesso centrodestra le sparate xenofobe della Lega fanno alzare qualche sopracciglio, ma questo è lo spirito che anima, con piccole varianti, tutto il Pdl e che Berlusconi ha mirabilmente sintetizzato. È qui la ragione profonda del ruolo centrale che l'immigrazione gioca nella vicenda italiana. La questione ha portato alla luce non tanto una generica ostilità all'Altro, come si sostiene ritualmente nei tentativi di analizzare l'anomalia italiana e le derive xenofobe, quanto la stessa ragion d'essere, materiale e simbolica, del blocco sociale berlusconiano e della sua espressione più radicale, e cioè la Lega. Se mai, per assurdo, questa un giorno dovesse rivedere le sue posizioni in materia d'immigrazione, negherebbe la propria ragion d'essere. La Lega è naturalmente e felicemente xenofoba. Essa ha scoperto cioè da una ventina d'anni quanto il suo "popolo" sia felice nell'odiare qualcuno, come se fosse una curva di tifosi perennemente in guerra contro un'altra curva. E quindi paradossalmente, la Lega ha bisogno dell'immigrazione e dell'insicurezza.

Ho usato la metafora della curva calcistica perché meglio di ogni altra descrive la profonda topofilia della destra italiana, l'ossessione per il luogo, il territorio. L'immigrato rappresenta, con la sua semplice esistenza di essere umano uscito dal suo paese per entrare in un altro, la negazione della territorialità, e cioè del fatto che si possa esistere come attori sociali e politici solo in un territorio. Ma si tratta di una negazione indispensabile alla cultura politica della destra italiana. Se un giorno, sempre per assurdo, gli stranieri non arrivassero più, la Lega esaspererebbe il conflitto con quelli che ci sono, ne inventerebbe di nuovi o ne rispolvererebbe di vecchi (come nelle grottesche e periodiche sparate contro i "meridionali"). Perché la territorialità non si esprime nel semplice possesso esclusivo di un territorio, ma nella sua riaffermazione incessante – tale pretesa deve essere pronunciata in eterno per avere senso politico. Ecco perché la Lega (e in misura minore, ma nello stesso senso, il resto del centrodestra) ha bisogno dell'immigrazione per poterla "contrastare" e quindi riaffermare la propria pretesa esclusiva al territorio.

Si tratta dunque di un contrasto che ha soprattutto una funzione simbolico-politica, al di là dei terribili costi umani che il recente pacchetto-sicurezza e il rifiuto indiscrimsnato dei richiedenti asilo stanno causando. Mi spiego: l'espulsione preventiva dei migranti (i cosiddetti respingimenti) e la negazione dell'asilo politico non significano la fine dell'immigrazione irregolare. Per mille rivoli, nonostante i naufragi e le deportazioni in Libia, gli stranieri continueranno ad arrivare e ad alimentare il mercato del lavoro clandestino. Se questo rimane invisibile, alla Lega e alla destra va benissimo (come dimostra la sanatoria delle badanti, e cioè di una categoria sociale non solo indispensabile alle famiglie ma scarsamente visibile perché confinata entro le mura domestiche). Per il resto, quello che importa alla Lega e alla destra è il consenso su una politica simbolicamente muscolare. Stando ai sondaggi, il consenso c'è e questo dà un'idea del grado di implosione culturale e politica del paese.

Ecco dunque il significato di una politica migratoria tutta giocata sulla paura. Poche migliaia di migranti vengono lasciati alla deriva nel Canale di Sicilia o respinti in Libia, dove il loro destino, in base a numerose testimonianze, è a dir poco oscuro (uccisioni, vessazioni di ogni genere, carcerazioni indefinite, violenze, deportazioni verso paesi terzi sottratte a qualsiasi controllo internazionale ecc.). Tutti gli altri, regolari o irregolari che siano, vivono da noi in una condizione d'invisibilità sociale, mancanza di diritti, obbedienza ai padroncini e di terrore verso qualsiasi polizia si occupi di loro. Ma il governo di centrodestra non ha mai veramente bloccato il loro afflusso. Negli anni del secondo governo Berlusconi (2001-2006), il numero dei migranti regolarizzati è più che raddoppiato, rispetto all'epoca del precedente governo Prodi, e una tendenza analoga, a partire appunto dalla sanatoria delle cosiddette badanti, è facilmente ipotizzabile oggi. Con la faccia feroce verso gli sventurati che traversano il Canale di Sicilia e gli stranieri che commettono piccoli reati e, allo stesso tempo, l'assorbimento delle categorie degli invisibili nell'economia domestica, il governo Berlusconi realizza un duplice obiettivo: la riaffermazione simbolica della difesa del territorio e il sostegno alle famiglie e alle piccole imprese. Con il pacchetto sicurezza dell'autunno 2009 si realizza dunque un inasprimento parossistico di quel doppio regime verso gli stranieri (i clandestini "cattivi" e i regolari "buoni") che in realtà ha sempre definito le politiche pubbliche italiane, di destra e di sinistra, in materia di immigrazione.

Tutto ciò ha naturalmente dei costi sociali e politici. Per cominciare, il pacchetto sicurezza approvato nel luglio 2009 introduce un reato, quello di immigrazione clandestina, che sta portando inevitabilmente al sovraffollamento delle carceri. Non solo: l'attività della polizia dovrebbe raddoppiare per controllare davvero i possibili clandestini. E data l'attuale crisi economica e fiscale, questo è chiaramente impossibile. Inoltre, anche senza chiamare in causa l'opposizione di vasti ambienti cattolici alle leggi dell'attuale governo, il pacchetto sicurezza sta visibilmente aprendo dei conflitti con l'Europa. Benché in linea di principio l'atteggiamento europeo sia altrettanto ostile all'immigrazione incontrollata, quasi tutti i paesi europei hanno una legislazione più aperta nei confronti dei richiedenti asilo. Espellendoli a priori, l'Italia, una volta di più, non fa che scaricare il problema sul resto d'Europa.

La politica italiana in materia di immigrazione e diritto d'asilo espone il paese non solo all'aggravamento di problemi tradizionali (il sovraffollamento delle carceri, l'ingorgo dell'apparato giudiziario e di polizia), ma anche a frizioni con il resto del continente. E tuttavia è assai dubbio che l'attuale maggioranza cambi rotta. Come si è detto sopra, la cultura politica della destra si fonda sull'odio nei confronti di nemici reali e immaginari, forestieri, migranti, clandestini, "comunisti" ecc. È quindi basata sull'emergenza, sull'idea del territorio assediato, cioè su sentimenti collettivi irrazionali che assicurano alla destra, finché probabilmente la crisi economica non spariglierà i giochi attuali, il consenso del fondo sociale del paese. In questo senso, se altri poteri esterni o interni (l'alleato americano, l'Europa, la Chiesa...) non interverranno, direttamente o indirettamente, Berlusconi e i suoi pretoriani (parte del Pdl, la Lega ecc.) continueranno a percorrere la strada attuale, anche quando è visibilmente contraria agli interessi collettivi.


Lo straniero, il nemico tra noi

Il primo anno e mezzo del terzo governo Berlusconi ha fatto emergere una progressiva deriva fascistoide. Naturalmente, questa tendenza non è apparentemente in contraddizione con la forma democratica di un paese inserito in Europa e nel sistema delle alleanze occidentali. Si tratta piuttosto di una dittatura soft dell'esecutivo e del suo beatus possidens, dell'emarginazione progressiva del parlamento, del ridimensionamento della magistratura e della costruzione di un legame diretto e a senso unico con la pubblica opinione grazie al controllo assoluto della televisione e al crescente condizionamento della stampa quotidiana. Un processo che, con tutte le differenze che si possono stabilire, ricorda l'ascesa al potere di Napoleone il piccolo.

Ma ci si sbaglierebbe pensando che questo cesarismo sia l'esclusivo effetto della manipolazione mediale (come risulta anche da un film recente come Videocracy). In realtà, lo strapotere di Berlusconi si fonda anche su un legame sociale parzialmente nuovo (in quanto emerso soprattutto negli anni Novanta) con il pubblico, quello relativo al bisogno indotto di sicurezza personale o, se vogliamo, di incolumità. Se l'odio contro i migranti (la "cattiveria" di Maroni) riafferma la relazione esclusiva di una popolazione con il territorio, la questione della sicurezza è funzionale alla costituzione (o alla protezione) immaginaria dell'identità individuale. Odiare gli stranieri come categoria sociale generale significa affermare un'identità collettiva, un "noi". Ma temere gli stranieri concreti, visibili, a portata di mano vuol dire produrre un'identità personale, disporre di un "io". È naturale che attribuire agli stranieri la responsabilità dell'insicurezza comporta una fusione dell'identità collettiva immaginaria con quella individuale.

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