Copertina
Autore Daniela Danna
Titolo Ginocidio
SottotitoloLa violenza contro le donne nell'era globale
EdizioneEleuthera, Milano, 2007 , pag. 154, cop.fle., dim. 12,5x19x1 cm , Isbn 978-88-89490-29-7
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe sociologia , storia criminale , femminismo , etnografia
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Indice

      INTRODUZIONE                                            7

   I. Violenza ginocida e globalizzazione                    11
  II. Società senza violenza                                 23
 III. Gli stupri                                             31
  IV. I maltrattamenti su mogli e figli                      43
   V. Gli omicidi e i ginocidi                               52
  VI. Violenza culturale, istituzionale, economica           59
 VII. Uno sguardo comparativo                                67
VIII. Italia: l'amore che uccide                             74
  IX. Scandinavia: gente senza onore                         93
   X. Americhe: padroni e schiave del mondo                 105
  XI. Europa dell'Est: il rinascimento del patriarcato      125
 XII. Il mondo musulmano: «E l'onore, l'avete poi salvato?» 133

      CONCLUSIONI                                           149

 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE



Forse c'è stato un tempo in cui uomini e donne hanno vissuto in armonia. Forse quando gli esseri umani veneravano la dea madre come simbolo di fertilità, di continuità della vita, questa devozione costituiva la trasposizione sul piano ideale e rituale del rispetto esistente nelle relazioni tra i sessi: il linguaggio della dea (Gimbutas 1990). Purtroppo lo ignoriamo: di quell'epoca di caccia e raccolta restano pitture rupestri, incisioni e statuette, troppo poco per non dover ricorrere a mere supposizioni, a fantasie molto più rivelatrici del mondo culturale di chi le propone che della vita sociale di quell'epoca preistorica. Nel nostro tempo invece i luoghi in cui le regole sociali prescrivono il rispetto e la reciproca stima tra il sesso maschile e quello femminile sono scarsi, limitati, circoscritti. Le pessimiste dicono: inesistenti, o comunque in via di estinzione, come piccole comunità delle foreste dell'India o degli altipiani della Nuova Guinea. Nella maggior parte delle culture, a chi appartiene al gruppo degli uomini si insegna la superiorità su chi appartiene al gruppo delle donne e su quei maschi che assumono sembianze o comportamenti etichettati come «femminili». Viceversa, a chi appartiene al sesso femminile si insegnano sottomissione, docilità e regole molteplici, poi interiorizzate, che impongono di controllarsi, di modificarsi per apparire desiderabili e innocue, e soprattutto di badare alla propria castità. Mentre al maschio tutto è dovuto, la femmina non ha diritto a nulla.

Questa rigida separazione tra i sessi con la prescrizione della subordinazione del sesso femminile a quello maschile è la radice della violenza che vogliamo chiamare ginocida. È la violenza rivolta contro il femminile allo scopo di affermare la superiorità maschile, è lo stupro che collega al piacere sessuale un'aggressione intima contro la vittima che viene «posseduta», è l'annichilimento della volontà della partner nei maltrattamenti familiari, è l'omicidio per gelosia, per «passione», in cui la pretesa di amare la vittima nasconde la manifestazione suprema del possesso: la distruzione. Tale violenza è presente, oltre che negli atti individuali di aggressione, anche nelle norme sociali che giustificano questi atti, ad esempio dandone la colpa alla «scarsa moralità» della vittima, punendola per non aver adempiuto al ruolo femminile, e in quelle che prescrivono violenze espressamente mirate al sesso femminile, come l'uccisione per adulterio, le mutilazioni genitali (che hanno proprio lo scopo di costruire la versione socialmente accettata del sesso femminile), la sistematica denutrizione e discriminazione delle figlie femmine. Ed è il risultato di un'educazione maschile che esalta l'aggressività, di un ideale di virilità violenta in cui vengono cresciuti i maschi. La violenza ginocida è una categoria che comprende anche la violenza che i maschi scatenano contro quegli uomini, adolescenti, bambini che non adempiono il loro ruolo maschile e vengono giudicati deboli, perdenti, simili alle donne, ovvero effeminati – forse ancora più degradati delle donne stesse, poiché hanno perso la loro posizione dominante mentre le femmine, per definizione, non possono raggiungerla.

Le parole «ginocidio», «femicidio», «femminicidio» sono state coniate dal femminismo negli anni Settanta – Jane Caputi, Mary Daly (2005), Andrea Dworkin, Antoinette Fouque (1989), Diana Russell e molte altre – per indicare non solo gli assassinii di donne ma anche tutta la violenza che si rivolge contro l'essere donna, contro il femminile, a causa del disprezzo sociale e della brama di controllo sui corpi femminili da parte del sistema di potere maschile, il patriarcato. E dunque gli esecutori di questa violenza, che certo può spingersi anche fino all'omicidio, possono essere uomini ma anche donne (un esempio sono le anziane che eseguono le mutilazioni genitali sulle bambine).

La creazione di una particolare categoria di «violenza ginocida» è importante perché le statistiche mostrano una prevalenza di vittime maschili di omicidio e di aggressioni: se ne dovrebbe concludere che sia il sesso femminile a godere di vantaggi e protezione. Ma questa «protezione» del genere femminile è semplicemente la limitazione del movimento delle femmine negli spazi pubblici da parte di norme sociali oppressive o semplicemente della paura degli uomini.

Infatti, così come la violenza sugli uomini viene esercitata in massima parte da altri uomini, anche le donne vittime di violenza lo sono per mano maschile. Gli stessi «protettori» delle donne, i loro compagni, familiari e amici maschi, sono coloro che perpetrano la maggioranza delle violenze ginocide. Le femmine vengono rinchiuse nelle case per proteggerle (o per proteggerne «la virtù»), ma per loro è la casa il luogo più pericoloso.

È importante sottolineare il fatto che analizzeremo ruoli sociali, cioè norme generali prescritte nelle relazioni tra i sessi, e che il cambiamento è in atto: nel corso della storia la posizione delle donne è più volte mutata, le norme e le sanzioni relative alla trasgressione sono in continuo mutamento aprendo o chiudendo spazi di libertà.

Nel primo capitolo presenteremo il dibattito tra i due schieramenti politico-intellettuali contrapposti. Se alcuni ritengono che l'approfondimento dei legami economici e culturali tra le diverse aree del mondo, la globalizzazione degli ultimi 20-30 anni, abbia portato benefici alle donne, altri sono invece convinti che essa abbia peggiorato la situazione in cui vivono gran parte delle donne del mondo. Il tentativo di suffragare l'una o l'altra ipotesi attraverso prove empiriche sarà il filo rosso che attraversa questo libro.

Ancora oggi esistono, in alcune parti del mondo poco popolate e relativamente isolate, gruppi umani che mantengono modi di vita tradizionali che discendono dalle società senza scrittura e nei quali non esiste violenza ginocida: ce ne occuperemo in dettaglio nel secondo capitolo. Proprio questa variabilità nella posizione sociale delle donne, e nelle circostanze in cui la violenza ginocida è perpetrata, permette di individuare in quali situazioni la violenza diminuisce, quali fattori possono tenerla a freno. Questo sarà il tema dei quattro capitoli che seguono, su stupri, maltrattamenti, omicidi e violenza culturale. istituzionale ed economica, in cui esporremo le ricerche sull'incidenza e sulle motivazioni di ciascuno di questi misfatti.

Dopo aver parlato di società senza violenza e delle forme della violenza ginocida con un approccio tematico, nella seconda parte del libro passeremo a un approccio geografico e presenteremo alcuni indicatori tratti da ricerche internazionali comparate, per poi approfondire l'indagine su alcune aree del mondo: l'Italia, la Scandinavia, le Americhe, l'Europa dell'Est, il mondo musulmano, cercando i dati sulla violenza contro le donne (un'approssimazione empirica del concetto analitico di violenza ginocida) per formulare un giudizio sul miglioramento o il peggioramento della condizione delle donne nella globalizzazione.

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Pagina 11

I
VIOLENZA GINOCIDA E GLOBALIZZAZIONE



La violenza degli uomini contro le donne — violenza psicologica, fisica e sessuale sia su donne adulte che su ragazze e bambine — ha tre importanti dimensioni: 1) le circostanze in cui è perpetrata; 2) i luoghi; 3) la sua legittimità o illegittimità. Le circostanze del ginocidio si suddividono analiticamente in situazioni di pace o di guerra. I diversi luoghi in cui può avvenire sono il chiuso delle case, in strada, oppure i luoghi di lavoro, dove la violenza varia in gravità dai ricatti e dalle molestie sessuali fino allo stupro e persino all'omicidio. È una favola che i luoghi pubblici siano i più pericolosi per le donne, mentre è proprio nel privato che si consumano più atti di violenza.

L'ultima dimensione analitica è il contrasto tra la prescrizione culturale o viceversa la punibilità giuridica della violenza: l'obiettivo politico delle donne è quello di rendere la violenza ginocida illegale. Tra le situazioni in cui le vittime sono designate come tali dall'intera società, che incoraggia o addirittura impone la violenza, vi sono i delitti d'onore, i matrimoni imposti, il potere correzionale attribuito al marito. Soprattutto in questi casi è evidente come il fine della violenza sia la legittimazione del dominio dell'uomo sulla propria donna, giustificato dal concetto di onore e dal sentimento, cui non si vogliono porre freni o limiti, della gelosia.

Prima della rivoluzione cinese, le famiglie ricche — poi sempre più anche quelle degli strati sociali più bassi — deformavano i piedi delle proprie bambine: «Per evitare che le donne corrano da un uomo all'altro in modo vergognoso»; la clitoride viene mutilata perché è la principale sede del piacere femminile e la radice degli impulsi sessuali (considerati indecenti nelle femmine), e anche perché rappresenta un «principio maschile» da cui purificarle, ritenendolo velenoso e letale per l'uomo durante il rapporto sessuale o per il bambino durante il parto; le mutilazioni sessuali vengono eseguite anche su neonati di paesi occidentali (USA, Gran Bretagna...): sui maschi «micropenici» e le femmine «iperclitoridee», nonché sugli ermafroditi, questa volta per confermare l'idea dell'esistenza di solo due sessi ben distinti tra di loro e dunque gerarchizzabili (Poidimani 2006, 54); il burka o il chador, che riducono le donne a un ammasso informe e provocano non solo problemi psicologici ma anche fisici alla vista, ai capelli, alla pelle che non riceve mai la luce del sole, sono imposti per non indurre gli uomini in tentazione; tra le prescrizioni che le donne turche devono rispettare — perché l'onore di un uomo è nelle loro mani di mogli, madri, sorelle, figlie (e se lo insozzano verranno uccise da lui o da un altro congiunto di sesso maschile) — non vi è solo la castità ma anche la modestia nei comportamenti: non stare troppo tempo affacciate alla finestra, non salutare gli uomini, non camminare mai davanti al marito. E un altro bersaglio della violenza ginocida sono coloro che deviano dall'obbligo sociale all'eterosessualità da viversi solo nel matrimonio: sono chiamate puttane e lesbiche, inferiori tra le inferiori.

Vi è inoltre la violenza legata alla procreazione, che colpisce direttamente la capacità riproduttiva femminile: la sterilizzazione forzata, l'imposizione dell'aborto o la costrizione a portare a termine la gravidanza. le proibizioni legali poste alla contraccezione e all'interruzione di gravidanza l'imposizione di rapporti sessuali in cui vi è il rischio di gravidanze non desiderate. Siccome in molte culture una prole numerosa aumenta il prestigio virile, i mariti proibiscono alle mogli l'uso di contraccettivi — e le maltrattano se scoprono che li usano lo stesso. Le stesse leggi che proibiscono di abortire negli ospedali o di ricorrere a metodi chimici esercitano violenza esponendo le donne ai rischi dell'aborto clandestino, tra cui quello di una morte orribile per emorragia. Violenza è anche l'ignoranza sul proprio corpo, sulle conseguenze della sessualità: non sapere come vengono concepiti i bambini, non sapere quali sono i modi di trasmissione delle malattie veneree, non sapere che una vergine non sempre ha l'imene chiuso, che non sempre durante il primo coito esso si lacera sanguinando, è un'ignoranza che può avere conseguenze terribili.

La violenza apertamente esercitata è comunque un indicatore molto imperfetto della condizione femminile, che è quello che realmente importa. Là dove vi è sottomissione assoluta, là dove la donna non ha possibilità di vita se non si assoggetta, là dove si identifica pienamente nel ruolo subordinato socialmente imposto, la rassegnazione evita minacce e percosse. Tale assenza esteriore di violenza ha lo stesso significato della violenza più estrema: qui la schiavitù è la più assoluta.

Riflettere sulla sottomissione e sulla rassegnazione pone quindi il problema della soggettività della definizione di violenza (come del resto della definizione di tutti i fenomeni umani): la violenza è importante solo se soggettivamente percepita? Se osservatrice e osservata hanno parametri di giudizio diversi, a chi dar credito? Può esistere una definizione oggettiva di violenza?

Un atto di violenza è un atto finalizzato, attraverso il dolore fisico o psicologico, a piegare la volontà di una persona, a sottometterla al proprio volere. Non importa quanto il perpetratore o la vittima siano convinti della sua rispondenza a norme sociali: per l'osservatore che vede i fatti e le loro conseguenze, questo atto è senza dubbio un'azione violenta.

Se la violenza subita è ritenuta legittima, se è l'unico modo di interazione sperimentato (come accade ai figli di un padre violento), essa non sarà per questo priva di conseguenze sul benessere non solo fisico ma anche e soprattutto psicologico di chi la subisce, e questo anche nel caso in cui la vittima la accetti, non se ne lamenti, non cerchi neppure una via di uscita proprio perché ritiene che sia questa la normalità.

Per valutare la posizione delle donne con un metro oggettivo, senza farsi trarre in inganno dall'acquiescenza di coloro che sono talmente schiacciate da un potere maschile e tradizionale da aver rinunciato persino a desiderare una condizione migliore, la filosofa statunitense Martha Nussbaum ha applicato ai rapporti tra i sessi l'approccio basato sulle «capacità» dell'economista indiano Amartya Sen. Sen riconosce il problema dell'adattività delle preferenze, cioè del fatto che normalmente si esercita la facoltà di scelta solo tra gli obiettivi che sono effettivamente raggiungibili, e dunque la scelta non è un buon criterio per giudicare la volontarietà di un'azione. Scrive Nussbaum:

Se qualcuno che non ha diritti di proprietà legalmente riconosciuti, che non ha istruzione formale, che non ha diritto al divorzio, che sarà probabilmente picchiata se cerca impiego fuori casa, dice di condividere le tradizioni di pudore, castità e sacrificio personale, si può dubitare che queste siano le ultime parole al riguardo (Nussbaum 2001, 63).

Il metro di giudizio è dunque verificare quali alternative sono concretamente alla portata di quella donna, di quel gruppo femminile, con un approccio che è detto «delle capacità» perché vuole garantire a tutte e a tutti lo sviluppo di capacità umane fondamentali mediante la garanzia della soddisfazione dei bisogni essenziali alla vita umana, nonché dell'accesso all'istruzione, della parità giuridica e di una pari considerazione sociale delle donne rispetto agli uomini. Infatti, è solo nel momento in cui si intravede un'alternativa che il comportamento violento, fino ad allora subìto, diventa inaccettabile e viene finalmente nominato come tale. A volte è sufficiente una pausa di riflessione, un confronto con persone che provengono da un ambiente diverso, una convalida della propria percezione di ingiustizia: «Mio marito mi picchia, viene a letto con me quando non voglio e io devo obbedire. Prima di venire intervistata non ci pensavo veramente. Pensavo che fosse naturale. Per un marito questo è il giusto modo di comportarsi», ha dichiarato una donna bengalese nell'ambito di un'inchiesta sulla violenza dell'Organizzazione mondiale per la sanità (Krug et al. 2002. 10).

Ampliare le capacita delle donne non è cosa facile: implica azioni culturali, ma ancora di più mutamenti materiali. Il femminismo si è ribellato soprattutto culturalmente al sistema di potere maschile, che ha definito prima patriarcato poi fratriarcato, sottolineando come oggi l'autorità del pater familias sia terminata, mentre sono i fratelli (in senso sociale) a essersi uniti in un nuovo patto per il dominio sulle donne. E il femminismo è stato anche definito una rivoluzione riuscita, dal momento che le sue richieste di mutamento sociale si sono in una certa misura avverate, ad esempio la crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro in tutti i ruoli, o la concezione giuridica della donna come persona, come individuo, o meglio individua che sta alla pari con l'uomo di fronte alla legge, legge che deve tenere conto della sua volontà e delle sue scelte al pari di quelle degli uomini. Questa concezione generale ha avuto alcuni capisaldi legislativi concreti: il voto naturalmente e il divieto di discriminazione in base al sesso, ma altrettanto importanti sono state l'emancipazione delle donne sposate dall'autorità maritale e l'introduzione della parità tra i coniugi perché si abbandonasse la concezione della famiglia come soggetto collettivo rappresentato dalla volontà del suo capo — s'intende maschio.

Un'altra vittoria culturale del femminismo è che è cambiata la considerazione sociale della sessualità femminile: era un bene custodito dalla famiglia, di cui il futuro marito si sarebbe appropriato, e a questa concezione facevano da corollari la comprensione e giustificazione per il delitto d'onore e l'impossibilità di denunciare uno stupro se il colpevole era lo stesso marito. La sessualità oggi vuole invece essere uno scambio basato sull'idea e sull'espressione del consenso, e la facoltà di esprimerlo o negarlo non viene meno per il fatto di essere stati uniti in matrimonio. Inoltre, le norme giuridiche che permettono di sciogliere il matrimonio rendono ora più facile separarsi da un marito violento (anche se la variabile cruciale rimane la possibilità di guadagnarsi la vita autonomamente da lui).

In tutto il mondo, infine, vi è ormai la consapevolezza della violenza maschile ai danni delle donne, e a essa ci si oppone in molti modi: dal sorgere, a partire dagli anni Settanta, di centri di ascolto e di case di fuga che proprio il movimento femminista cominciò a organizzare in modo autonomo per poi chiederne il pubblico riconoscimento e supporto, all'organizzazione di momenti pubblici di dibattito e riflessione sulle varie forme del ginocidio, alla formazione delle forze di polizia e dell'apparato giudiziario, alle nuove leggi in materia approvate anche in seguito alla firma della Convenzione per l'eliminazione delle discriminazioni contro le donne, ratificata a partire dal 1979 da 180 Stati.

È una rivoluzione lunga, difficile, faticosa. E sarà vero che continua ad avanzare? La condizione delle donne sta ancora migliorando o ha cessato di farlo? È regredita? Che cosa accade nei paesi sviluppati e che cosa accade in quelli poveri? A queste domande non è sicuramente possibile rispondere con un unico libro. La dimensione della violenza maschile contro le donne è un indicatore molto importante della condizione femminile, ma è solo un indicatore, a sua volta basato su stime e non su dati certi. Quello che possiamo e vogliamo fare è esplorare le conoscenze attualmente raccolte sulla violenza ginocida alla luce di queste domande, e cercare risposte parziali. L'avvento del neoliberismo sulla scena mondiale dall'inizio degli anni Ottanta è il nostro punto di partenza. Questo periodo viene chiamato «globalizzazione», una fase storica di intensificazione dei contatti internazionali in molteplici ambiti: economico, culturale, ambientale. Dominano le forze del capitale privato che aprono i mercati di un crescente numero di paesi ai flussi di capitale e merci, mentre i flussi migratori sono giuridicamente ostacolati, creando una sottocasta di lavoratrici e lavoratori che non hanno neppure il diritto di rimanere nel paese dove prestano la propria opera.

Alla domanda se le donne stiano migliorando o peggiorando la propria condizione dopo l'esplosione del femminismo degli anni Settanta i due schieramenti politici pro e contro la globalizzazione danno risposte opposte. La prima, il miglioramento della condizione femminile nell'ambito delle «magnifiche sorti e progressive», è fornita da coloro che stanno diffondendo nell'intero globo la fede nel mercato come risolutore dei problemi sociali, sulla scorta delle teorie neoliberiste di Milton Friedman e della sua scuola economica di Chicago. La seconda, il peggioramento, è quella dei movimenti contro l'attuale forma di globalizzazione neoliberista che attribuiscono a queste politiche l'aumento di tutte le diseguaglianze, inclusa quella tra i sessi.

Gli apologeti del neoliberismo vedono la parità tra i sessi come una conquista realizzata e indiscussa del mondo occidentale, che i processi di modernizzazione (a volte aiutati dalla maieutica delle armi...) diffondono nel resto del mondo. L'emancipazione delle donne è conseguenza dello sviluppo economico, della partecipazione al mercato mondiale di libero scambio e del lasciar le mani libere al capitale privato senza troppi vincoli sindacali, ambientali, fiscali, grazie a deregolamentazioni e privatizzazioni: il diffondersi del benessere economico assicurerà anche il miglioramento di status di coloro che stanno al fondo della scala sociale, come le donne.

L'economista Jagdish Bhagwati, che rivendica la palma di «primo liberoscambista al mondo», ritiene che aziende e paesi che discriminano le donne dovranno cedere alla concorrenza, la quale utilizzerà al meglio le risorse in suo possesso impiegando le donne secondo le loro reali capacità. Il quadro è tracciato in un capitolo intitolato proprio La situazione femminile: è penalizzata o favorita?: «Le donne, intese come classe, non sono penalizzate dal progresso più di altri gruppi» (Bhagwati 2005, 121). Non vi sarebbero infatti prove sufficienti a corroborare le critiche che esprimono molte ONG femministe. Bhagwati rileva solo tre aspetti negativi, i quali però sono collegati solo indirettamente alla globalizzazione:

1) Le donne che si recano all'estero come collaboratrici domestiche – spesso nel Medio Oriente, dove la popolazione femminile locale vive tipicamente nel medioevo e sotto la legge islamica, che in paesi come l'Arabia Saudita è interpretata da leader religiosi illetterati e conservatori – sono soggette ad abusi e necessitano di protezione.

2) In paesi come la Thailandia la crescita del turismo è inevitabilmente accompagnata da un aumento della prostituzione femminile e anche maschile.

3) Il traffico di donne è cresciuto, specialmente in seguito allo sconvolgimento economico che ha accompagnato tentativi di transizione in paesi come la Russia e alle crisi economiche dei paesi asiatici (Bhagwati 2005, 123-124).

Un esempio, anche se argomentato meno esplicitamente, della medesima lettura dei meccanismi di causa-effetto che la globalizzazione ha sulla condizione femminile è proprio la premessa di un lesto contro la violenza ginocida di Amnesty International:

La moderna globalizzazione e le nuove prospettive di comunicazione e di scambio hanno portato innanzi tutto a una nuova consapevolezza nel campo delle lotte delle donne per i propri diritti (Amnesty International 2005, 27).

Le pecche di questo sistema, per Amnesty e per la maggior parte dei politici e degli uomini di governo, sono individuate essenzialmente nella criminalità organizzata, che si avvantaggia anch'essa della maggiore facilità di movimento internazionale: «Purtroppo la globalizzazione ha però anche un lato oscuro, un nuovo tipo di violenza contro le donne, non più legata al territorio, allo Stato, alla nazione o alla comunità», ovvero il traffico di esseri umani, cui per Amnesty si aggiunge il problema della mancanza di diritti per i migranti.

Un discorso più radicale di quello di Amnesty International lo fa la Commissione per i diritti umani dell'ONU nei suoi agghiaccianti rapporti sulla violenza contro le donne nel mondo. Radhika Coomaraswami, la prima incaricata, si colloca sul versante antiglobalizzazione, denunciando in particolare l'attacco neoliberista alla sopravvivenza collettiva con lo smantellamento delle reti del welfare state e la privatizzazione della sanità (Coomaraswamy 2000, 3). Gli aspetti economici delle politiche neoliberiste di globalizzazione peggiorano la situazione di grandi masse di persone, e se questi sviluppi appaiono essere neutri, cioè non rivolti specificamente contro le donne, in realtà vi è anche qui una grave asimmetria di genere: sono maschili le élites del pianeta che si arricchiscono sempre più (Chiesa e Villari 2003), mentre sono le donne ad affondare sempre più in basso nella scala sociale.

I critici del neoliberismo affermano con decisione che, se la situazione delle donne sta peggiorando, è proprio a causa delle politiche di deregolamentazione e privatizzazione promosse dagli interessi forti in tutto il pianeta: «La globalizzazione rafforza un sistema sessista, escludente e patriarcale. Incrementa la femminilizzazione della povertà ed esacerba tutte le forme di violenza contro le donne». L'ecofemminista Maria Mies (1998) scrive le stesse cose a proposito del capitalismo moderno in generale, al quale imputa una concezione del dominio dell'uomo sulla natura quale femmina da sottomettere. Una posizione simile è quella di Ivan Illich (1984): ha effetti negativi sulla condizione femminile la «misura unica» per i due sessi che il modo di produzione capitalista ha introdotto, sostituendo le due sfere «separate ed eguali» delle competenze maschili e femminili tradizionali con la divisione tra lavoro femminile domestico e lavoro maschile salariato, cioè una gerarchia a tutti gli effetti.

L'analisi delle società precapitalistiche però non suffraga questa posizione. La stessa rigida divisione del lavoro in base al sesso significa solitamente già di per sé una perdita di potere sociale da parte delle donne, benché come al solito si cerchi di mascherare il dominio maschile con un doppio standard di valutazione delle attività delle donne rispetto a quelle degli uomini. La divisione del lavoro tra i sessi invece legittima lo sfruttamento della forza lavoro delle donne, costrette ai compiti più lunghi e più faticosi, e costituisce probabilmente il primo esproprio dei frutti del lavoro dei produttori. Infatti, in buona parte delle società precapitalistiche le donne lavorano più degli uomini (come del resto fanno in quelle capitalistiche) e non hanno la disponibilità di ciò che producono né la facoltà di possedere gli strumenti di produzione – anche se è vero che in alcuni luoghi, come in America Latina, la Conquista europea peggiorò notevolmente la condizione femminile relativamente a quella maschile.

È un fatto che il sistema capitalistico e di economia di mercato ha avuto storicamente il merito di permettere alle donne di liberarsi dal controllo della famiglia di origine. Esso ha sostituito un modo di produzione agricolo, basato principalmente sul clan familiare, con un modo di produzione in cui vi è la necessità di mettere in vendita la propria forza lavoro su un mercato più impersonale rispetto ai rapporti tra famiglie. L'individualismo di cui è portatrice la società capitalistica moderna è correlato indubbiamente a un avanzamento della posizione sociale delle donne, dal momento che queste hanno raggiunto lo status di persone formalmente indipendenti e non più di beni di cui un'altra persona, il padre o il marito, può disporre.

Tra le due posizioni che vedono un miglioramento o un peggioramento assoluti della posizione sociale delle donne (potremo dire della nostra libertà) vi è una possibilità intermedia: differenziare il ruolo dell'espansione dell'economia di mercato a seconda delle sue diverse fasi, allo stesso modo in cui Karl Marx riconosceva alla borghesia una funzione progressista in India: gli inglesi con il loro sfruttamento brutale stavano spingendola in una modernità tecnologica e sociale che l'avrebbe infine strappata alla povertà, alla stagnazione e all'ingiustizia del sistema delle caste. Le due tesi dunque potrebbero descrivere fasi susseguenti: la prima di peggioramento delle condizioni delle donne, seguita da un miglioramento e infine da un superamento della condizione iniziale — come è avvenuto nei paesi del capitalismo avanzato a mano a mano che i lavoratori si sono organizzati e autodifesi per riuscire a godere della riduzione della fatica e del miglioramento dello standard di vita materiale offerti dal progresso tecnologico. Oppure, quarta possibilità, questo non si sta verificando né si verificherà, dal momento che, secondo la teoria della dipendenza e l'analisi del sistema-mondo di Immanuel Wallerstein, la prosperità del centro è interamente dovuta allo sfruttamento della periferia: lo stesso varrebbe per la situazione delle donne al di qua e al di là della divisione centro-periferia. La liberazione femminile dunque poggerebbe interamente sullo sfruttamento dei paesi del Sud del mondo e in particolare delle donne che vi sono nate.

E, se invece di fasi, queste possibilità rappresentassero le forze diverse che spingono il mondo attuale in direzioni contrastanti? Cominciamo subito a verificare in che modo la ricerca sociale sulla violenza contro le donne può suffragare o smentire queste diverse ipotesi teoriche e affermazioni politiche.

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Pagina 23

II
SOCIETÀ SENZA VIOLENZA



La violenza è una modalità dell'interazione umana, è una possibilità sempre presente nell'incontro con l'altro – ed è molto più presente negli incontri tra estranei laddove il grado di organizzazione sociale è più basso: le fitte foreste tropicali sono molto più pericolose delle strade asfaltate delle grandi città (Diamond 1998). Eppure esiste una minoranza di società prestatuali in cui i rapporti tra uomini e donne non seguono il copione dell'aggressione maschile contro le femmine: non vi è alcuna violenza ginocida, non vi sono maltrattamenti o stupri, né fra estranei né all'interno della coppia.

L'antropologo David Levinson (1989) ha esaminato un campione di 90 società descritte negli Human Relations Area Files, trovando che in 15 di esse la violenza all'interno delle famiglie non esiste. Non vi è violenza ginocida sulle mogli, né violenza delle mogli sui mariti, la violenza non è un metodo educativo per correggere i bambini, né gli anziani sono maltrattati.

Queste società sono sparse in tutti i continenti, ma hanno alcune caratteristiche in comune. La prima che Levinson elenca è il matrimonio monogamico: la monogamia è espressione di parità tra i sessi. L'importanza della parità la si trova anche nelle due caratteristiche successive: la prima è l'eguaglianza economica tra i sessi, che potremmo chiamare anche il controllo femminile su una parte equa delle risorse familiari, e la seconda è l'eguaglianza tra i sessi nelle pratiche sessuali prematrimoniali e nella possibilità di divorziare. È importante poi che il divorzio esista, come nota lo stesso Levinson: «Tra i Bororo del Brasile furono i missionari, nel loro zelo di prevenire il divorzio, a incoraggiare indirettamente la violenza sulle mogli», perché se una coppia non andava d'accordo, prima della cristianizzazione si sarebbe semplicemente separata (Levinson 1989, 64). Un'altra caratteristica è invece la bassa frequenza dei divorzi effettivi. Un altro tratto comune è che molte altre persone, oltre ai genitori, si occupano dei bambini: l'allevamento dei figli è una grossa fonte di stress, e la possibilità di suddividere il carico di lavoro per la loro cura tra più persone migliora notevolmente le relazioni familiari.

Tra i fattori individuati vi è anche la disponibilità a intervenire da parte di vicini e parenti che si accorgano di atti di aggressione – una conseguenza dell'ultimo fattore, che è la presenza di norme che prediligono una risoluzione non violenta dei conflitti anche al di fuori della famiglia.

Viceversa, i maltrattamenti dei mariti sulle mogli accadono più di frequente in società in cui, nelle parole dello stesso Levinson,

gli uomini controllano i frutti del lavoro familiare, hanno l'ultima parola nelle decisioni della famiglia, il divorzio è più difficile per le donne che per gli uomini, le donne non si uniscono in gruppi di lavoro esclusivamente femminili, il parentado del marito controlla il diritto a risposarsi della vedova e il matrimonio poliginico è permesso (Levinson 1989, 71).

Questi risultati forniscono prove sia alla teoria della «cultura della violenza» (il fatto che una forma socialmente approvata di violenza renda più facile esercitarne altre forme), sia alla teoria femminista che sottolinea l'importanza dell'eguaglianza tra i sessi. In Sanctions and Sanctuary (Counts et al. 1992) un gruppo di antropologhe, coordinate da Dorothy Ayer Counts, Judith Brown e Jacquelyn Campbell, descrive altre società in cui la violenza contro le donne non è presente e le compara con quelle in cui accade con frequenza diversa.

Un popolo in cui i mariti non picchiano mai le mogli è quello dei Wape di Papua-Nuova Guinea (Mitchell 1992). I Wape sono orticoltori che vivono in montagna nella foresta tropicale, tagliando e bruciando la vegetazione per seminare sul terreno concimato dalla cenere. La loro vita sociale richiede il controllo delle emozioni, specialmente di quelle che possono sfociare nella violenza, come l'aggressività e la gelosia – in una curiosa similitudine con i tratti psico-sociali prevalenti nell'Europa del Nord, in particolare nell'egualitaria Scandinavia. Il clima sociale in cui la violenza non è ammessa è trasmesso fin dall'infanzia, come scrive William Mitchell:

Acculturare un antropologo residente o i bambini wape non è sempre un compito facile, ma il metodo è identico. Gli atti aggressivi incontrano disinteresse. Un bambino piccolo che si arrabbia è lasciato solo a scalciare e gridare finché non torna alla ragione. I bambini e gli antropologi imparano presto che l'aggressività esibita in pubblico è imbarazzante, è un'attività del tutto priva di ricompense. Di conseguenza, i Wape limitano l'espressione di emozioni negative verso gli altri e sono generalmente amichevoli nelle loro attività quotidiane nel villaggio (Mitchell 1992, 90-91).

Alla valorizzazione dell'interazione pacifica si unisce un altro tratto per noi estremamente interessante: le differenze di genere, espresse dall'abbigliamento e dalla divisione del lavoro, non polarizzano i sessi. Nelle società dove la violenza ginocida è meno diffusa si cerca di minimizzare le differenze sessuali invece di accentuarle. Tra i Wape i bambini e le bambine giocano insieme e vengono accuditi da persone di entrambi i sessi; gli uomini e le donne vivono mescolandosi socialmente, anche durante il periodo mestruale. I maschi che raggiungono la pubertà vanno sì a dormire nella casa degli scapoli. ma vedono quotidianamente i parenti e i genitori, e di solito mangiano a casa con loro. Nella loro vita sociale i Wape non prevedono i sanguinosi riti di passaggio alla virilità che in altre parti della Nuova Guinea sono approntati per purificare i giovani maschi dalle nefaste influenze materne e femminili e farli diventare dei guerrieri.

Questa interessante tendenza all'indifferenziazione sessuale collegata all'assenza di violenza contro le donne non la si ritrova però in tutte le società libere dal ginocidio. I Gerai, daiacchi che vivono nell'isola di Kalimantan in Indonesia, classificano rigidamente un individuo nel sesso maschile o in quello femminile, ma non per la capacità riproduttiva, quanto per la divisione del lavoro tra «quelle che conoscono le specie di riso» (donne) e «quelli che dissodano i campi per piantare il riso» (uomini).

Lo stupro è inesistente:

L'idea di avere un rapporto sessuale con qualcuno che non vuole – e così l'idea di costringere qualcuno al sesso – è quasi impensabile per il popolo gerai. Gli informatori affermano inoltre che qualunque azione di tal fatta distruggerebbe l'equilibrio spirituale dell'individuo e del suo gruppo del riso, portando calamità all'intero gruppo (Helliwell 2000, 192).

L'antropologa Christine Helliwell scrive di non essere stata subito classificata come donna, dal momento che insieme ai genitali femminili possedeva molte caratteristiche maschili: l'alta statura, il coraggio nell'attraversare la giungla per andare da un villaggio all'altro, e soprattutto l'incapacità di distinguere le specie di riso. I Gerai credono che i bambini vengano concepiti grazie all'incontro di fluidi simili («altrimenti come potrebbero unirsi?»), e che anche gli uomini in linea di principio possano condurre una gravidanza, benché non lo facciano a motivo del fatto che le donne sono molto più brave.

I Wape e i Gerai non sono i soli popoli che ignorano il ginocidio. Sempre in Nuova Guinea, anche ai Nagovisi rimangono sconosciute e incomprensibili le violenze coniugali e le aggressioni sessuali: «In generale, la gente non riusciva proprio a immaginare come potesse avvenire uno stupro: dicevano che la donna avrebbe gridato e che gli altri sarebbero accorsi per aiutarla» (Nash 1992. 103). Il meccanismo sociale per limitare la violenza è diverso dalla prevenzione dei Wape ma egualmente efficace: l'interposizione attiva dei vicini.

Un'altra caratteristica di questo popolo è la sua filosofia dell'«azione circolare»: «Per i Nagovisi, l'idea di reciprocità delle azioni e degli oggetti materiali impregna il comportamento sociale. Fin dall'infanzia si ha la consapevolezza che sia il comportamento positivo che quello negativo verranno ripagati» (Nash 1992, 108).

Un'altra società che non pratica il ginocidio di cui si parla estesamente in Sanctions and Sanctuary è quella dei Mayotte che vivono nell'arcipelago delle Comore, tra Madagascar e Tanzania. I Mayotte sono musulmani, ma le relazioni tra i sessi sono molto diverse dallo stereotipo che l'Occidente attribuisce a tutto l'islam derivandolo dall'estremismo integralista:

Le donne non sono segregate dagli uomini in nessun modo particolare e non indossano veli; oggi hanno parecchia voce in capitolo nella scelta del loro primo partner nel matrimonio e piena voce in capitolo dopo di ciò; possono far finire un matrimonio praticamente a piacimento e di frequente agiscono nella sfera pubblica, politica e cerimoniale (Lambeck 1992, 159).

Anche qui troviamo una caratteristica estremamente interessante del modo di vivere le relazioni intime. La gelosia è un sentimento che non è socialmente sostenuto, dal momento che non si concepisce l'unione coniugale come l'attribuzione all'uno del possesso del corpo dell'altro:

L'autonomia corporea degli adulti si riflette anche sui costumi sessuali. L'adulterio è piuttosto comune; inoltre, se i coniugi feriti rispondono con dolore e rabbia, essi non possono, nel senso stretto del termine, punirsi l'un l'altro a causa di un adulterio, dal momento che né l'uno né l'altra sono sotto il controllo sessuale altrui. Se un marito si arrabbia per le conquiste sessuali di sua moglie (ma alcuni uomini sono compiacenti), la sua aggressività viene diretta, in modo più appropriato, verso l'amante della moglie» (Lambeck 1992, 165).

L'uomo tradito può lasciare la moglie, ridurre la quantità di aiuti che le tornisce o lottare contro l'amante, sia fisicamente sia per mezzo della stregoneria. Invece tra i Mayotte è socialmente scorretto aggredire fisicamente la moglie (o il marito nel caso delle donne che vengono tradite), perché ciò significherebbe rivendicare un'autorità su di essa, significherebbe voler controllare la sessualità della moglie, come se fosse una propria subordinata. E sarebbe così scorretto da provocare un grande risentimento sia da parte della moglie che del suo intero clan.

L'indagine comparativa di questi autori rimane senza pretesa di definitività, come essi stessi ammettono, anche per il basso numero di società studiate, scelte con il semplice criterio delle competenze degli antropologi che hanno accettato di partecipare all'impresa. In totale cinque delle società a confronto presentano un livello alto di violenza contro le mogli (iraniana, indiana, indo-figina, taiwanese, bun); in cinque il livello è intermedio (aborigeni, paesani dell'Ecuador, !Kung, Kaliai e abitanti delle isole Marshall); mentre tre hanno una bassa frequenza di violenza coniugale (Garifuna, Nagovisi, Mayotte), con un solo caso privo di violenza (Wape). La prima conclusione degli autori è che non esiste un rapporto lineare tra la frequenza della violenza contro le mogli e lo status femminile generale, status definito essenzialmente come il controllo del comportamento sessuale premaritale e la divisione ereditaria della proprietà. È importante invece lo status delle donne all'interno della famiglia per capacità di guadagno, capacità di decisione femminile, presenza o assenza di restrizioni al divorzio. La presenza di gruppi di lavoro femminili protegge le donne che ne fanno parte. Le caratteristiche correlate a una maggiore violenza contro le donne sono l'isolamento delle mogli dal gruppo familiare di origine, la mancanza di sanzioni e di rifugi contro questo tipo di violenza, la bassa età delle mogli, perché nel processo di invecchiamento una donna conquista un potere maggiore sia in famiglia che nella società. Si riduce l'abuso sulle mogli anche quando le sanzioni sono certe, immediate e severe.

Tra tutti i fattori elencati, i rifugi, cioè le alternative al continuare la convivenza con un uomo violento, sembrano essere quello più importante, insieme alla solidarietà femminile che si concretizza nell'intervento di altre donne in immediato soccorso della donna maltrattata. La presenza di parenti vicini (residenza uxorilocale) in particolare garantisce protezione a una moglie: al contrario, se è la moglie a dover andare a vivere presso la famiglia allargata del marito (residenza virilocale), si troverà tra estranei che più difficilmente le presteranno soccorso. La protezione del vicinato in casi di violenza infatti mancava quasi del tutto nel villaggio iraniano, dove la condizione femminile era indubbiamente la peggiore: «La gente non voleva intervenire, e alcune donne consigliavano pazienza: le donne devono sopportare e rassegnarsi» (Hegland 1992, 207). Una donna maltrattata avrebbe potuto trovare rifugio solo presso il padre, che però non avrebbe avuto il diritto di rimproverare il marito per la violenza, contemplata nell'autorità che questi esercita sulla moglie. Alle donne schiacciate da questo sistema, si richiede inoltre di accettarlo e di provare amore per i propri oppressori:

Gli uomini iraniani picchiavano le loro mogli e sorelle quando le donne sfidavano il sistema gerarchico autoritario. Se le mogli disobbedivano al marito o se gli rispondevano, se non eseguivano immediatamente e con allegria il lavoro che veniva loro richiesto, se non erano abbastanza sottomesse e bendisposte verso i parenti di lui, venivano punite. Il comportamento corretto non era sufficiente, era dovuto ai superiori anche un sentimento corretto (Hegland 1992, 208).

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