Copertina
Autore Massimo D'Antoni
CoautoreRonny Mazzocchi
Titolo L'Europa non è finita
SottotitoloUscire dalla crisi rilanciando il modello sociale europeo
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2012, Report , pag. 288, cop.fle., dim. 13,8x21x1,5 cm , Isbn 978-88-359-9218-9
PrefazioneRoberto Artoni, Stefano Fassina
LettoreRiccardo Terzi, 2013
Classe economia , politica , economia finanziaria
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Indice


    Prefazione di Roberto Artoni                                 11

    Introduzione                                                 15

1.  La crisi dell'euro e le sue narrazioni                       31

    1. Lo scoppio della crisi: vizi pubblici e private virtù?    34
    2. Dieci anni di unione monetaria                            40
    3. Le responsabilità del sistema bancario e finanziario      50
    4. The Wrong Design: l'approccio di Maastricht               57
    5. L'Italia prima e dopo Maastricht                          67

2.  Un modello sociale troppo costoso?                           75

    1. Spesa pubblica e crescita                                 77
    2. Misurare correttamente la spesa pubblica                  87
    3. Quanta redistribuzione?                                   95
    4. La falsa risposta della selettività                      104
    5. Spesa sociale pubblica e privata                         115
    6. La diseguaglianza non fa bene alla crescita              121
    7. Oltre il trade-off                                       134

3.  Lo Stato assicuratore                                       139

    1. Fallimenti dei mercati                                   141
    2. L'assicurazione mancante: il caso della sanità           149
    3. Assicurazione, globalizzazione e investimenti            161
    4. Non c'è un solo capitalismo                              168
    5. Redistribuzione e sistema politico                       177
    6. L'Italia a che famiglia di capitalismo appartiene?       181
    7. Una visione più equilibrata del ruolo dello Stato        187

4.  L'Europa oltre Maastricht                                   191

    1. La riscoperta della politica economica                   194
    2. Il canale finanziario                                    197
    3. Il canale reale                                          204
    4. I limiti democratici dell'approccio di Maastricht:la Bce 221
    5. Verso una nuova Unione monetaria: problemi politici      226
    Appendice. II Gold-standard                                 233

5.  Conclusioni. L'Europa è finita?                             239

    1. Il trilemma dell'integrazione europea                    240
    2. Protezione, diritti e modello sociale europeo            247
    3. La "nazione" europea                                     251
    4. L'Europa come orizzonte politico                         257

    Ringraziamenti                                              263
    Postfazione di Stefano Fassina                              265
    Bibliografia                                                271


 

 

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Pagina 11

Prefazione



Nell'interpretazione della crisi dell'euro si è formata un'opinione ampiamente condivisa e ineccepibile nelle conclusioni. L'incompletezza istituzionale che ha accompagnato la creazione della moneta è unica e vera causa della crisi: non è operativa di fatto alcuna forma di governo sovranazionale capace di compensare gli shock che colpiscono in modo non uniforme i diversi paesi dell'area euro. D'altro canto, l'evoluzione spontanea delle localizzazioni produttive, associata all'introduzione di vincoli alle scelte di finanza pubblica, non ha portato, né poteva portare com'era stato sottolineato, alla costruzione di un'area monetaria ottimale. Oggi, al contrario, ci troviamo di fronte a profonde spaccature all'interno dell'area euro, per motivi attinenti sia alla struttura produttiva, sia all'organizzazione dei mercati finanziari, con l'acquisizione di un ruolo egemone da parte di un solo paese. È ovvio osservare che questa strutturazione dei rapporti fra i paesi dell'Unione non può che portare nel medio periodo alla distruzione della stessa costruzione europea.

Ma, se nell'interpretazione delle cause della crisi si può ritrovare, al di là di possibili articolazioni, un consenso generalizzato, non altrettanto si può dire delle diagnosi e delle terapie che sono avanzate per il superamento dell'attuale situazione, ormai per molti paesi drammatica sotto il profilo sociale. Nelle istituzioni europee, oltre che in molti governi, domina ancora una visione che può essere denominata in modi diversi, ma che si rifà comunque alle tragiche esperienze della Grande Depressione degli anni Trenta quali furono quelle degli Stati Uniti prima del New Deal o quelle sintetizzabili per l'Inghilterra ne Le conseguenze economiche di Winston Churchill di Keynes o quelle della Germania negli anni che precedettero l'avvento del nazismo. Gli elementi fondanti di questa visione sono facilmente riconoscibili: se una situazione di crisi generalizzata si manifesta, questa è dovuta all'inadeguato funzionamento dei meccanismi concorrenziali; a sua volta, l'allontanamento dai canoni concorrenziali può derivare solo da irresponsabilità politica (che si manifesta in disavanzi dei conti pubblici, riconducibili ad un'eccessiva estensione dei meccanismi di protezione sociale) o dalla presenza di sindacati che impongono salari troppo elevati e introducono elementi di rigidità nel funzionamento del mercato del lavoro. Si aggiunga che in queste situazioni in cui i meccanismi di mercato non funzionano adeguatamente l'elemento di disciplina è costituito dalla libertà di movimento internazionale dei capitali.

Come osservato, l'impostazione di politica economica prima descritta trova un antecedente preoccupante nei primi anni Trenta, ma ha anche una forte somiglianza con la realtà europea degli ultimi anni. È martellante la richiesta di rigore sotto forma di pareggio dei bilanci, ponendo limiti alla crescita della spesa pubblica; sono inoltre necessarie riforme strutturali (che in buona misura non sono che liberalizzazioni ulteriori del mercato del lavoro, prescindendo da ogni considerazione degli effetti distributivi che ne derivano). Non si affronta peraltro il problema dell'instabilità che movimenti non controllati dei capitali provocano anche all'interno dell'area euro.

Riprendendo il titolo del libro, ci dobbiamo chiedere se in questo contesto ci possa essere un futuro per l'Europa. Tentando di sintetizzare in poche parole un volume ricco di analisi, di informazioni e di spunti interpretativi, gli autori sostengono che l'Europa avrà un futuro progressivo sul piano economico e sociale solo se riuscirà, in primo luogo, a portare a compimento quel processo di creazione di strutture sovranazionali già prefigurato nel corso degli anni Ottanta, ma poi completamente dimenticato in ossequio all'ideologia liberista, ancora oggi dominante, tutta fondata sulla fiducia nei meccanismi di autoregolamentazione dei mercati. Ma, in secondo luogo, la costruzione europea sarà vitale, avrà un futuro, se saprà tutelare gli istituti fondanti del modello sociale europeo, che è stato, come si dimostra nel libro, un grande fattore di coesione sociale oltre che di progresso economico.

Il riconoscimento del ruolo ineliminabile dei sistemi di protezione sociale, considerati nei loro aspetti non solo redistributivi, ma anche assicurativi e produttivistici, è peraltro un compito arduo, che richiede lo smantellamento di tutta una serie di false informazioni e di letture fortemente ideologiche che purtroppo hanno caratterizzato la produzione scientifica degli ultimi anni. L'analisi dell'effettiva importanza di questi istituti è condotta con grande lucidità nel volume e porta alla conclusione, che si vuole oggi ignorare, che la crisi dell'unione europea è nata nel settore privato e non in quello pubblico: i bilanci pubblici prima del 2008 erano in sostanziale pareggio nella generalità dei paesi.

Penso tuttavia che il messaggio fondamentale del libro possa esse ricondotto a una citazione di Keynes: gli economisti non sono i depositari della civiltà (fatto troppo complesso per essere riportato solo alle categorie esclusivamente economiche), ma della possibilità della civiltà. Sotto questo aspetto si deve riconoscere che il contributo di certa scienza economica è stato in questi anni non marginale nel ridurre le possibilità di civiltà. Si deve sperare nel futuro anche sotto questo aspetto.

Roberto Artoni

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Pagina 15

Introduzione



Quando, nel 2008, la crisi finanziaria cominciò a mostrare i suoi disastrosi effetti in tutto il mondo occidentale, lo sgomento di tutta l'opinione pubblica fu sintetizzato benissimo dall'esclamazione della Regina Elisabetta d'Inghilterra davanti ai professori della London School of Economics: «Com'è possibile che nessuno si sia accorto che ci stava arrivando addosso questa crisi spaventosa?». Gli economisti erano tra i principali imputati di quel disastro. Sarebbe stato certo irragionevole aspettarsi dalla disciplina economica una "previsione" della crisi, ma è rimarchevole il fatto che per buona parte della professione la possibilità di una crisi non fosse nemmeno considerata. Come riconosceva già nel gennaio 2009 Daron Acemoglu «dobbiamo rimproverarci per aver trascurato importanti aspetti della realtà economica e non essere stati più lungimiranti dei politici» e per «essere stati complici nel determinare l'atmosfera culturale che ha condotto all'attuale disastro» (Acemoglu, 2009).

Un giudizio altrettanto severo non sarebbe tuttavia meritato riguardo all'attuale crisi dell'euro. Nella valutazione di una larga parte degli economisti, sulla praticabilità di un'unione monetaria nel cuore dell'Europa vi erano seri dubbi fin dalla sua progettazione. Le condizioni che definiscono un' area valutaria ottimale nel senso indicato da Robert Mundell - in particolare la mobilità del fattore lavoro - erano quasi del tutto assenti, e la difficoltà di correggere gli squilibri che sarebbero emersi tra paesi diversi vincolati ad una stessa politica monetaria erano stati previsti da molti studiosi.

I motivi per cui si decise di adottare comunque l'euro furono molteplici, e solo parzialmente riconducibili a considerazioni economiche. I limiti dell'esperienza del Sistema monetario europeo e la "questione tedesca" (ovvero lo scambio fra rinuncia al Deutsche Mark e avallo alla riunificazione delle due Germanie) giocarono senza dubbio un ruolo importante. Ma centrale fu l'idea che si trattasse di un importante e decisivo passo entro quel processo di integrazione politica oltre che economica che rappresenta la scelta storicamente più rilevante compiuta in Europa nel secondo Dopoguerra.

Se da un lato non mancò chi cercava di accantonare le obiezioni degli economisti più scettici con argomenti superficiali (come il fatto che molti di essi, in quanto americani, dovessero essere pregiudizialmente ostili al disegno dell'euro), dall'altro giocò un ruolo importante la convinzione che anche questa volta l'Europa avrebbe superato la prova. Sarebbe stata la realtà economica e istituzionale degli Stati europei ad adattarsi alle nuove circostanze. Una volta fatto il grande passo, anche in modo imperfetto, altri ne sarebbero seguiti che avrebbero progressivamente risolto i problemi che si sarebbero via via presentati. Come già accaduto in passato, la lungimirante volontà politica avrebbe avuto la meglio.

L'idea che le istituzioni si sarebbero adeguate al processo avviato ammetteva tuttavia diverse interpretazioni e gradazioni. L'adattamento poteva infatti riguardare in diversa misura e con diverse combinazioni l'architettura istituzionale dell'Unione, mediante un maggiore coordinamento delle politiche economiche e una crescente integrazione anche politica, oppure le istituzioni politiche ed economiche dei singoli Stati. Se l'adozione di una moneta comune avrebbe escluso da quel momento in avanti l'utilizzo del riallineamento delle valute come valvola di sfogo a fronte di squilibri e asimmetrie, l'aggiustamento sarebbe dovuto passare per altri canali, e avrebbe dovuto essere in qualche modo prevenuto e corretto da altri meccanismi. Quanto tali meccanismi dovessero essere centralizzati e coordinati e quanto invece l'esito di un processo non cooperativo tra i singoli Stati era questione dibattuta.

A partire dal Trattato di Maastricht prese il sopravvento una impostazione che, nutrendo una sfiducia di fondo nella capacità delle istituzioni politiche di governare in modo consapevole tali processi, risolveva la questione del coordinamento introducendo un insieme di regole orientate a vincolare il più possibile l'opportunismo dei governi. A fronte del pessimismo verso la politica economica, c'era invece ottimismo rispetto all'operare virtuoso dei meccanismi competitivi. La rimozione di alcune leve di politica economica, lungi dal rappresentare un problema, avrebbe costretto ad affrontare i nodi di fondo attraverso la competizione istituzionale. Costretti a convivere senza poter più ricorrere alla svalutazione, i paesi europei avrebbero dovuto attuare quelle riforme che li avrebbero portati ad essere compatibili con il nuovo contesto. Rimossa la possibilità di operare attraverso la politica economica, ci avrebbe pensato il mercato.

Grazie all'accresciuta pressione concorrenziale, l'Europa avrebbe anche superato tutti quei limiti strutturali che ne frenavano la crescita e che molte analisi individuavano in un eccesso di regolamentazione e di protezione dei mercati, nonché negli esagerati livelli di spesa pubblica. A partire dagli anni Nonta il termine "eurosclerosi" divenne un neologismo molto in voga per legare l'elevata disoccupazione europea proprio all'eccessiva rigidità dei mercati del lavoro del Continente. Ancora nel 2006, poco prima dell'irrompere della crisi finanziaria, in un libro dal significativo titolo Goodbye Europa, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi rilanciavano le stesse tesi: le difficoltà dell'Europa non erano dovute alla costruzione della moneta unica, ma alla lentezza delle riforme dal lato offerta che l'unione valutaria aveva reso necessarie e che gli Stati tardavano a realizzare. L'euro non faceva altro che penalizzare i paesi più recalcitranti nel ridurre la regolamentazione nel mercato del lavoro, nell'aumentare la concorrenza e l'apertura dei mercati agli investimenti esteri, nel liberalizzare i servizi pubblici. La malattia europea era in fondo riconducibile alla specificità del Continente, cioè l'elevato livello di spesa pubblica, che aveva creato una cultura della dipendenza, una resistenza al cambiamento, una sfiducia nel mercato, in un circolo vizioso per cui una maggiore redistribuzione generava una maggiore domanda per creare a sua volta ulteriore redistribuzione. Se paragonati agli americani, gli europei lavoravano troppo poco - sia in termini di persone impiegate che di ore totali lavorate – e la ragione di questo fenomeno era da ricercare nell'eccesso di tassazione sui redditi e nell'eccessiva regolamentazione che ne "distorceva" le scelte, deprimendo la capacità produttiva del continente e quindi impoverendo l'economia europea.

Una tesi certo meno brutale nel linguaggio, ma non poi così diversa nella sostanza da quella espressa da certi economisti di scuola liberale che, nei primi anni del Novecento, vedevano nelle politiche sociali l'azione del «sindacato degli inetti [che] intende frenare la forza che sostiene ogni attività economica, cioè l'egoismo degli individui, ossia la loro concorrenza e, in quanto non può sopprimerla e sostituirla, vuole neutralizzarne artificialmente gli effetti, togliendo il premio della vittoria a chi vinse la battaglia della vita per darlo tutto o per darne una parte a chi la perdette» (Pantaleoni, 1900, p. 267).

L'arrivo della crisi, che in Europa è partita dai paesi in cui più compromessa era l'esposizione bancaria e finanziaria e ha coinvolto progressivamente i paesi più vulnerabili, ha suscitato reazioni diversificate. Se da un lato c'è stato il riconoscimento di alcuni gravi errori compiuti nel processo di costruzione dell'unione monetaria, dall'altro c'è chi proprio nella crisi europea ha trovato una conferma delle proprie posizioni.

Ad esempio, c'è chi ha visto nel propagarsi della crisi in Europa una conferma del fatto che la moneta unica fosse una cattiva idea, e che la decisione di adottarla sia stata una scelta avventata e tale da compromettere, invece di promuovere, il progetto di integrazione. Si tratta di economisti di vario orientamento, alcuni dei quali ritengono probabile un ritorno alle valute nazionali.

La posizione prevalente, non tanto nell'accademia quanto nei circoli più vicini alle sedi ove si prendono le decisioni di politica economica, è stata però quella di puntare ancora una volta il dito sulle decisioni di finanza pubblica e sulla rigidità dei mercati, attribuendo la crisi ad una insufficiente disciplina dei governi nell'adeguarsi al quadro imposto nell'approccio di Maastricht. Il rischio di insolvenza è diventato così una opportunità per imporre ad alcuni Paesi quelle riforme "strutturali" — dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro ad un cospicuo dimagrimento del welfare — attuate in misura insufficiente nei primi anni dell'euro per colpa di governi troppo timidi nelle loro azioni perché troppo preoccupati del consenso. La crisi, più che una iattura, sarebbe quindi un'occasione per ricostruire un'Europa coerente con il disegno iniziale. Si tratta di una posizione fortemente radicata nell'orientamento di alcuni governi (per lo più di impronta conservatrice) e in certi ambienti delle istituzioni europee (la Commissione e la Banca centrale), che si esprime nella cosiddetta linea dell'austerità e che, rispetto al nostro paese, ha trovato esplicita traduzione nella lettera della Bce dell'estate del 2011.

La tesi descritta, che ispira le politiche del rigore e del ridimensionamento della spesa sociale, si basa su una duplice premessa, figlia del clima culturale prevalente negli anni Novanta. Un clima segnato, come dicevamo, da eccessiva fiducia nelle virtù di correzione spontanea dei meccanismi concorrenziali e da profonda sfiducia verso tutto quanto è pubblico, governo, azione politica. La prima premessa è che il problema dell'Europa sia il suo modello sociale, caratterizzato da elevata spesa pubblica e da una regolamentazione ritenuta eccessivamente invadente. La seconda che l'unione monetaria possa fare a meno di un'unione fiscale, o quanto meno di un'unione fiscale in senso proprio, affidandosi prevalentemente a meccanismi di aggiustamento "di mercato".

In questo libro intendiamo contrastare tali tesi mostrando come alcune delle premesse che le sorreggono sul piano interpretativo e analitico — pur essendo accettate spesso in modo acritico per superficialità, conformismo culturale o convenienza — sono in realtà piuttosto deboli se non addirittura infondate. Dimostrarne la debolezza e l'infondatezza richiede innanzitutto una diversa ricostruzione delle ragioni della crisi dell'euro rispetto a quella implicita nel dibattito pubblico attuale. Il tentativo di far ricadere la responsabilità delle difficoltà dell'area euro sulla scarsa disciplina dei governi serve solo a nascondere le vere e più profonde cause della crisi. I conti pubblici di quasi tutti i paesi europei erano infatti lentamente — ma costantemente — migliorati dal 2002 in poi, per poi stabilizzarsi a livelli non certo preoccupanti. Il drammatico peggioramento dei bilanci dei singoli paesi a partire dal 2009 è stato quasi ovunque dovuto alle ricadute della crisi bancaria e della recessione che ne è seguita.

Più che la gestione dissennata della finanza pubblica, a determinare la fragilità dell'unione monetaria ha concorso in misura determinante la scelta di demandare alle sole forze del mercato il compito di colmare i divari territoriali fra i vari paesi europei. L'introduzione della moneta unica ha permesso ai governi privi di un orizzonte strategico di lungo periodo di affidarsi all'espansione del mercato unico e al finanziamento facile dei bilanci privati e pubblici, dimenticando il problema della perdurante divergenza reale. L'integrazione finanziaria, che ha visto le banche del Nord Europa acquistare attività emesse sia dal settore pubblico che da quello privato dei paesi della periferia, ha alimentato l'illusione che una maggiore liberalizzazione dei mercati, una minora tassazione sui redditi da capitale e un sistema di protezione sociale più snello avrebbero attratto risorse e sprigionato le forze progressive dei mercati con effetti benefici su crescita, occupazione e redditi, chiudendo così il gap con i paesi più ricchi.

In realtà, l'accesso delle banche della periferia ai finanziamenti della Bce ad un bassissimo tasso di interesse nominale e il supporto assicurato dai fondi strutturali e di coesione hanno sortito l'effetto di favorire soprattutto l'espansione dei settori tradizionali e a bassa tecnologia e, in alcuni casi, i comparti finanziari e immobiliari. Nell'ultimo decennio solo Spagna e Irlanda sono stati capaci di tradurre in realtà la prevista convergenza. Ma in questi paesi, a lungo indicati come esempio da seguire per gli altri paesi mediterranei, la rincorsa al reddito pro-capite dell'Europa più avanzata ha fatto leva non tanto sullo sviluppo di una solida base produttiva quanto su fattori trainanti particolarmente fragili ed effimeri come le bolle speculative immobiliari e finanziarie, che hanno mostrato la loro inconsistenza non appena la crisi è esplosa.

I divari di competitività fra paesi del centro Europa e della periferia, lungi da colmarsi, si sono andati così aggravando nel tempo. La divergenza reale fra periferia e centro Europa ha mostrato come la principale debolezza della zona euro risieda ancora oggi nella distribuzione asimmetrica fra costi e benefici apportati dalla moneta unica. Da un lato c'è un'economia leader che gode, per ragioni legate anche alle istituzioni che caratterizzano il suo specifico modello capitalistico, di un continuo deprezzamento reale che ne favorisce esportazioni e crescita. Dall'altra vi sono le economie periferiche, frenate da un continuo apprezzamento reale che ne danneggia export e possibilità di sviluppo. È da qui che nasce il divario, ormai strutturale, che separa il tasso medio di crescita del Pil della periferia da quello del centro Europa. Ed è questa divergenza fra sentieri di crescita che mina la fiducia nella sostenibilità fiscale di alcuni paesi e, in ultima istanza, la possibilità di sopravvivenza dell'euro. L'esplosione degli spread e la pressione dei mercati finanziari, più che il risultato di una presunta irresponsabilità fiscale, sono quindi il risultato di una costruzione comunitaria incompleta e contraddittoria.

L'errore non è stato l'euro, ma l'insufficiente struttura istituzionale concepita a Maastricht e mai corretta nei vent'anni successivi. Si tratta di una architettura che ha controbilanciato, fino ad azzerarli, i benefici che la moneta comune avrebbe potuto portare alle economie europee. Sarebbe stato necessario monitorare la bilancia commerciale dei paesi della zona euro e sostenere con adeguate politiche comunitarie la rincorsa dei paesi periferici al più elevato reddito pro-capite dei paesi più avanzati. Ma un pregiudizio negativo verso le istituzioni e la politica economica ha fatto dimenticare il ruolo fondamentale e insostituibile che esse possono avere nel contenere gli effetti degli shock e accelerare i cambiamenti strutturali.

L'aver chiarito che l'origine delle difficoltà dei paesi periferici ad allinearsi ai livelli di efficienza produttiva del centro Europa è dovuto ad una errata concezione delle istituzioni di politica economica continentali permette non solo di individuare soluzioni e rimedi, ma anche di togliere dal banco degli imputati gli ingiusti colpevoli, ovvero i sistemi di welfare.

Anche rispetto alla questione della spesa pubblica, che costituisce la base del modello sociale e della sua presunta insostenibilità, occorre sviluppare una analisi libera da pregiudiziali ideologiche. Il problema degli effetti dell'intervento pubblico nell'economia è uno dei temi più dibattuti e controversi fin dalla nascita della disciplina economica. La disputa non è mai stata risolta sul piano della riflessione accademica, e la prevalenza di una posizione o l'altra è stata più spesso determinata da eventi esterni e dal clima culturale e politico generale. Naturalmente, tale clima culturale non è soltanto il frutto di un'intensa azione di diffusione e propaganda. L'insoddisfazione per il sistema di protezione sociale non avrebbe tanta presa nell'opinione pubblica se non affondasse le sue radici in difficoltà e insufficienze reali. Il sistema è senza dubbio costoso. La questione è tuttavia se tale costo sia o meno giustificato, se cioè l'alternativa di un radicale ridimensionamento potrebbe soddisfare in modo adeguato la domanda di protezione, sicurezza e redistribuzione.

Il nostro obiettivo sarà quello di mostrare come le premesse del pregiudizio negativo verso la spesa pubblica che ha prevalso negli ultimi decenni siano, da un punto di vista dell'analisi economica, molto meno solide di quanto non si possa pensare. Esistono anzi buoni e convincenti argomenti per ritenere che i costi della spesa pubblica siano assai meno rilevanti di quel che si crede, e che l'argomento per cui un elevato livello di spesa pubblica è un freno alla crescita non trova alcun riscontro.

In particolare, nel capitolo 2 mostreremo che le analisi econometriche che hanno cercato di trovare un nesso causale tra maggiore dimensione del settore pubblico e minore crescita economica non hanno raggiunto alcuna conclusione condivisa. Le ragioni per cui il legame tra spesa e crescita è così elusivo sono diverse: in primo luogo, la dimensione aggregata della spesa pubblica è una misura fuorviante dell'effettiva dimensione dell'intervento pubblico, date le differenze istituzionali e la pluralità di modi in cui è possibile organizzare un sistema di welfare. Ne segue che obiettivi quali la riduzione tout court della spesa pubblica possono avere un'indubbia efficacia mediatica o risultare attraenti sul piano della comunicazione politica, ma hanno uno scarso fondamento economico.

In secondo luogo, la dimensione della spesa pubblica ci dice poco sia sul contenuto redistributivo che sul potenziale distorsivo della stessa. Diversi livelli di redistribuzione possono essere associati ad uno stesso livello di spesa. Il tema è particolarmente rilevante per valutare correttamente una proposta che viene assai spesso avanzata: quella di ridurre il peso del sistema pubblico rendendolo più selettivo, concentrando cioè le prestazioni pubbliche e i trasferimenti sulle fasce più deboli invece che sulla generalità della popolazione. Come avremo modo di argomentare, se valutiamo il costo della spesa in termini di distorsività, non è affatto detto che un sistema più selettivo sia, per il solo fatto di richiedere un minore impegno di bilancio, meno distorsivo. Tanto più che un abbandono del principio di universalismo delle prestazioni a favore di una maggiore selettività rischia di minare e compromettere il consenso alla distribuzione e di erodere il senso di appartenenza ad una stessa comunità.

E ancora: la considerazione della sola componente pubblica della spesa sociale fornisce solo un quadro parziale. Paesi in cui è minore la spesa pubblica non necessariamente risparmiano risorse. Essi finiscono per provvedere alla domanda di protezione sociale affidandosi a soluzioni privatistiche, non necessariamente più efficienti e spesso molto meno efficaci rispetto agli obiettivi di redistribuzione e coesione sociale. Infine, accanto ai costi della redistribuzione, sottolineati da chi invoca il ridimensionamento del sistema pubblico, vanno considerati i costi di un mancato intervento di riduzione della diseguaglianza. Le analisi più recenti mettono in luce come società più diseguali sono società in cui non solo si vive peggio, ma si genera anche una minore crescita economica.

Il capitolo 3 sviluppa ulteriormente l'argomento sui vantaggi di un sistema di welfare ampio e universalistico, allargando l'analisi oltre la mera finalità redistributiva, per considerare il ruolo assicurativo della spesa pubblica. La spesa sociale deve essere correttamente compresa come una risposta all'incompletezza e ai "fallimenti" dei mercati assicurativi privati, alla loro incapacità di garantire protezione nel lungo periodo rispetto a fondamentali rischi legati alla salute, la vecchiaia, la disoccupazione. Le soluzioni "pubbliche" rappresentano a questo riguardo una risposta certamente imperfetta, ma quasi sempre preferibile, sul piano dell'efficienza oltre che dell'equità, rispetto alle alternative basate sul mercato.

Un punto che ci preme sottolineare è che l'estensione e la dimensione dei sistemi di welfare non possono essere considerate in astratto, ma vanno viste in relazione alle specifiche caratteristiche di un certo sistema produttivo. Diversi tipi di capitalismo generano infatti una diversa domanda di protezione dei rischi legati agli investimenti individuali in capitale umano. Il filone di ricerca delle "varietà di capitalismo" ha illustrato in modo convincente come l'acclamato modello delle economie liberali di mercato, caratterizzato da bassa protezione sociale e limitata regolazione dei mercati, sia solo uno dei possibili modi di organizzare la produzione capitalistica. Nell'Europa continentale ha prevalso una diversa forma di capitalismo, che fa maggiore ricorso a meccanismi di coordinamento esplicito tra i soggetti coinvolti (imprese, lavoratori, istituzioni finanziarie) e che richiede, per funzionare correttamente, un maggiore protezione sia in termini regolatori che in termini di protezione assicurativa pubblica.

La debolezza di una certa visione, prevalente nel corso dello scorso ventennio, che ha identificato il capitalismo di matrice anglosassone come l'unico modello di successo, sta nel non riconoscere la varietà di soluzioni possibili e nell'aver proposto spesso riforme astratte dallo specifico contesto produttivo e istituzionale dei diversi paesi. È plausibile che questo errore sia stato la ragione del fallimento dell'azione riformatrice anche nel nostro paese, che nel tentativo di inseguire un astratto modello "liberale" potrebbe aver addirittura contribuito alle attuali difficoltà della nostra economia.

L'individuazione del sentiero di uscita dalla crisi a livello nazionale è strettamente legata alla soluzione che verrà data all'assetto dell'eurozona. È chiaro infatti come sia sempre meno possibile ragionare in un'ottica nazionale, e come il rischio per i singoli paesi sia quello di subire gli eventi senza reale possibilità di controllarli. Ad essere chiamata in causa è la grave carenza di governance che ha caratterizzato i primi vent'anni dell'unione monetaria. La liberalizzazione dei movimenti di capitale avrebbe richiesto qualche forma di "repressione finanziaria" capace di impedire che le economie meno sviluppate e con i più pronunciati ritardi strutturali restassero esposte all'instabilità finanziaria. Nell'area euro questo si sarebbe dovuto tradurre in forme di cooperazione che dovevano riguardare sia i debiti pubblici che l'individuazione di strumenti finanziari capaci di affrontare il problema della crescita su scala continentale. Nulla di tutto ciò, però, è stato approntato. Così come nulla è stato fatto per risolvere il problema della scarsa mobilità del lavoro e delle specializzazioni produttive che caratterizzavano alcuni paesi e che avrebbero reso difficilmente sostenibile una integrazione economica e monetaria, specie in mancanza di strumenti di compensazione fiscale. La storia economica mondiale è piena di esempi di processi di integrazione politica ed economica che sono naufragati di fronte all'incapacità di affrontare il problema della distribuzione geografica di costi e benefici. Affinché il processo di convergenza fra economie deboli ed economie forti abbia successo e permetta all'euro di sopravvivere è quindi necessario superare l'attuale fase di integrazione lasciata al mercato, per passare ad una governance macroeconomica capace di favorire una sostenibile convergenza reale e finanziaria.

Due sono gli strumenti che abbiamo individuato nel capitolo 4: l'unione fiscale e quella bancaria. Solo con forme di condivisione della sovranità nel campo della finanza pubblica e in quello della finanza bancaria sarà infatti possibile immaginare un superamento dell'attuale crisi e il rilancio della moneta unica. Occorre tuttavia intendersi sull'uso e abuso del termine unione fiscale. I difensori dell'approccio di Maastricht agitano continuamente il problema dell'opportunismo (azzardo morale) per rifiutare qualsiasi proposta che comporti una reale condivisione dei rischi e dei costi della crisi. L'enfasi sull'aspetto della vigilanza e delle sanzioni mostra come si stia, forse volutamente, confondendo il concetto di fiscal policy con quello di fiscal police. Non possiamo tuttavia ignorare il fatto che la vigilanza fiscale sarebbe servita a poco per prevenire la crisi. Come mostriamo nel capitolo 1, guardando ai primi dieci anni di moneta unica, irresponsabilità fiscale e azzardo morale non sembrano aver inciso molto. La crisi e la sua rapida propagazione in tutto il continente, più che la conseguenza di comportamenti opportunistici, è derivata dal fatto che i dispositivi di stabilizzazione previsti dal Patto di stabilità non funzionano, amplificando invece che smorzando i difetti dei singoli paesi.

La scelta di non ricorrere a forme di assicurazione reciproca e di non procedere a una condivisione della sovranità è frutto di un errore di valutazione: la sottovalutazione del grado di interdipendenza tra le economie dell'eurozona, da cui deriva la convinzione che eventi negativi colpiranno soltanto gli altri. Comportarsi bene, fare "i compiti a casa" e non essere colpiti da eventi negativi, temporanei o permanenti che siano, non è affatto sufficiente a scongiurare i rischi. L'integrazione economica e monetaria europea ha tolto validità al presupposto che sta alla base di tutta l'architettura istituzionale comunitaria, ovvero l'idea che ogni paese sia unico ed esclusivo responsabile della propria economia. Il Fiscal Compact, perpetrando gli stessi errori dell'approccio di Maastricht, rappresenta una risposta concettualmente sbagliata al problema irrisolto della mancanza di un secondo pilastro fiscale da affiancare a quello monetario.

C'è dunque una via d'uscita? In questo libro sosteniamo che rilanciare il progetto di integrazione europea e salvare il modello sociale europeo sono le due facce di una stessa medaglia. Non dunque la prima a spese della seconda, e nemmeno l'illusione che i singoli paesi, al di fuori del progetto di integrazione, possano recuperare lo spazio di manovra necessario a perseguire politiche redistributive e protezione sociale. L'Europa si salva insieme e si salva mantenendo i suoi standard di sicurezza, diritti sociali, servizi pubblici.

Non è solo un auspicio, ma una necessità. Il difficile snodo tra condivisione di sovranità, capacità di governare i processi economici e democrazia rende ancor più necessario il mantenimento di un sistema di welfare universalistico. Storicamente, la costruzione delle identità nazionali ha tenuto insieme l'azione di omogenizzazione e standardizzazione (normativa, culturale, linguistica) e quella assicurativa. La creazione di un'identità europea che sostenga l'unione politica e fiscale non sarà possibile senza un'azione volta a garantire una equilibrata distribuzione di costi e benefici, e questo vale sia a livello orizzontale (solidarietà e assicurazione reciproca tra paesi e regioni) che a livello verticale (tra individui, classi sociali, occupazioni). Come argomenteremo nel capitolo conclusivo, occorre dosare in modo equilibrato un'azione di rafforzamento dei processi di omogenizzazione culturale e normativa, il disegno di strumenti macroeconomici di assicurazione reciproca tra Stati e, in attesa che i tempi siano maturi per un welfare europeo, un elevato livello di protezione attraverso i sistemi di welfare nazionali.

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