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| << | < | > | >> |IndicePREFAZIONE DI PAOLO NAPOLI I Introduzione all'edizione italiana L'errore diagnostico 6 Il neoliberalismo come razionalità 8 I limiti del marxismo 11 La crisi generalizzata di una modalità di governo 19 Liberalismo classico e neoliberismo 24 PRIMA PARTE. DEI LIMITI DEL GOVERNO 1. Meccanica sociale e razionalità degli interessi 29 La scienza dell'economia politica 31 Il soggetto dell'interesse 32 Le tensioni tra l'interesse e la morale 34 Il sistema degli interessi 40 Governare con il limite del «libero corso delle cose» 44 Governare per mezzo della conoscenza delle leggi di natura 50 2. Progresso della storia e uniformità della natura umana 54 Cosa significa «società civile» 55 Società civile e storia 58 La corruzione del legame sociale 62 Adam Smith e i due desideri 65 Gli altri volti del progressismo 69 3. I diritti dell'individuo come limite del governo 77 Rousseau, Locke e la via giuridico-deduttiva 78 La fondazione dei diritti individuali: dalla teologia alla tautologia 81 L'autonomia dei diritti naturali rispetto al Creatore 83 La proprietà di se stessi come fondamento del diritto di proprietà 88 La proprietà dopo Locke 94 La natura del potere supremo 97 I limiti del governo 102 La «grande arte del governo» 104 4. Il governo sotto l'egida dell'autorità 109 La critica del diritto naturale come principio di azione pubblica 113 Il principio di utilità come unico criterio di azione pubblica 118 Costruire la spontaneità 124 Spianare la strada al riformismo sociale 127 5. Crisi del liberalismo e nascita del neoliberalismo 131 Un'ideologia dalle maglie troppo strette 133 L'inquietudine precoce di Tocqueville e di Mill 136 La difesa del libero mercato 140 Contro la superstizione dello Stato 143 La nascita dello spirito concorrenziale di fine secolo 144 Il «nuovo liberalismo» e il progresso sociale 150 Le due azioni dello Stato secondo Karl Polanyi 157 Il neoliberalismo e le divergenze dal liberalismo 162 SECONDA PARTE. LA RIFONDAZIONE INTELLETTUALE 6. Il convegno Walter Lippmann o la reinvenzione del liberalismo 167 Contro il naturalismo liberale 169 L'originalità del neoliberalismo 175 La nuova agenda di un liberalismo reinventato 182 Neoliberalismo e rivoluzione capitalista 185 Il regno della legge 191 Un governo delle élite 195 7. L'ordoliberalismo tra «politica economica» e «politica della società» 199 L'ordine (ordo) come dovere politico 199 La legittimazione dello Stato da parte dell'economia e il suo «supplemento sociale» 204 L'ordine della concorrenza e la «costituzione economica» 209 La politica «ordinatrice» e la politica «regolatrice» 211 Il cittadino consumatore e la «società di diritto privato» 214 L'«economia sociale di mercato»: gli equivoci del «sociale» 218 La «politica della società» ordoliberale 221 La piccola impresa come argine alla proletarizzazione 226 La «terza via» 229 8. L'uomo imprenditoriale 232 Critica della ragione interventista 235 Una nuova concezione del mercato 239 Il mercato e la conoscenza 242 L'imprenditorialità come modalità di governo di sé 244 Formare il nuovo imprenditore di massa 248 Luniversalità dell'uomo-impresa 251 9. Lo Stato forte come guardiano del diritto privato 256 Né laissez-faire... né «fini sociali» 257 L'ordine spontaneo del mercato o catallaxis 259 La «sfera di garanzia della libertà» e i diritti degli individui 263 «Lambito legittimo dell'azione di governo» e la regola dello Stato di diritto 270 Meglio uno Stato forte che la democrazia 281 TERZA PARTE. LA NUOVA RAZIONALITÀ 10. La grande svolta 287 Una nuova regolazione mediante la concorrenza 291 Il boom del capitalismo finanziario 297 Ideologia (1): il «capitalismo libero» 303 Ideologia (2): lo Stato previdenziale e la demoralizzazione degli individui 307 Disciplina (1): un nuovo sistema di discipline 314 Disciplina (2): l'obbligo di scegliere 321 Disciplina (3): la gestione neoliberista dell'impresa 323 Razionalità (1): la pratica degli esperti e degli amministratori 328 Razionalità (2): la «terza via» della sinistra neoliberista 331 11. Le origini ordoliberali della costruzione europea 342 Archeologia dei principi della Costituzione europea 347 L'egemonia dell'ordoliberalismo nella Repubblica federale tedesca 352 Il condizionamento della costruzione europea 356 Verso la concorrenza tra legislazioni? 360 12. Il governo imprenditoriale 366 Dalla «governance d'impresa» alla «governance di Stato» 370 Governance mondiale senza governo mondiale 380 Il modello dell'impresa 383 L'ipotesi dell'attore egoista e razionale 385 Il Public Choice e la nuova gestione pubblica 390 La concorrenza al centro dell'azione pubblica 396 Una politica di sinistra? 402 Una tecnologia di controllo 407 Managerialismo e democrazia politica 410 13. La fabbrica del soggetto neoliberista 414 Il soggetto plurale e la separazione delle sfere 415 La modellizzazione della società attraverso l'impresa 419 La «cultura d'impresa» e la nuova soggettività 421 L'impresa di sé come ethos dell'autovalorizzazione 425 Le «ascesi della prestazione» e le loro tecniche 430 «Management dell'anima» e management d'impresa 434 Il rischio: una dimensione esistenzale e uno stile di vita obbligato 438 «Accountability» 442 Il nuovo dispositivo «prestazione/godimento» 445 Dall'efficienza alla prestazione 449 Clinica del neo-soggetto 453 Sofferenza sul lavoro e disagio dell'autonomia 454 Erosione della personalità 456 Demoralizzazione 457 Depressione generalizzata 458 Desimbolizzazione 459 «Perversione ordinaria» 462 Il godimento di sé del neo-soggetto 463 Governare il soggetto neoliberista 465 Conclusione. La fine della democrazia liberale 468 Una razionalità a-democratica 469 Un dispositivo di natura strategica 475 Inventare un'altra governamentalità 479 Le «contro-condotte» come pratiche di soggettivazione 485 INDICE ANALITICO DEI NOMI 493 |
| << | < | > | >> |Pagina 5«Il neoliberismo non è morto», questa la prima frase dell'introduzione all'edizione francese del libro, pubblicato per la prima volta nel 2009. In quel momento si trattava di dissipare le illusioni scaturite dal fallimento di Lehman Brother del settembre 2008. In Europa e negli Stati Uniti, erano infatti in molti a ritenere che la crisi finanziaria avesse suonato la campana a morto del neoliberismo e che fossimo sul punto di un «ritorno allo Stato» e alla regolazione dei mercati. Joseph Stiglitz solcava il pianeta proclamando la «fine del neoliberismo» e dei suoi principali esponenti politici, mentre il presidente francese Nicolas Sarkozy proclamava la riabilitazione dell'intervento di Stato in economia. Queste illusioni, pericolose perché suscettibili di indurre a smobilitazione politica, erano ben lontane dallo stupirci, fondate com'erano su un errore diagnostico piuttosto condiviso che il presente lavoro aveva appunto per fine di correggere. Fraintendere la vera natura del neoliberalismo, ignorarne la storia, non coglierne le ben radicate molle sociali e soggettive, significava votarsi alla cecità e a restare disarmati di fronte a ciò che non avrebbe tardato a sopraggiungere: lungi dal comportare un indebolimento delle politiche neoliberiste, la crisi è sfociata nel loro brutale rafforzamento, sotto forma di piani di austerità promossi da Stati sempre più attivi nell'incentivazione della logica della concorrenza dei mercati finanziari. Ci sembrava, e continua a sembrarci tutt'oggi più di prima, che l'analisi della genesi e del funzionamento del neoliberalismo fosse la condizione per pensare una resistenza efficace, tanto su scala europea che globale.
Questo libro, pur tentando di rispettare i criteri di una ricerca
scientifica, non si presenta come un libro «accademico» nel senso
tradizionale del termine, ma si vuole anzitutto come un'opera di
chiarificazione politica sulla logica normativa e globale del neoliberalismo.
Insomma, la comprensione del neoliberalismo rappresenta, a nostro avviso, una
posta in gioco
strategica
universale.
L'errore diagnostico Dalla fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, il neoliberismo viene generalmente interpretato come una ideologia e una politica economica direttamente ricavata da questa ideologia, il cui nocciolo duro sarebbe costituito dall'identificazione del mercato a una realtà naturale. Stando a tale ontologia naturalista, basterebbe lasciare a se stessa questa realtà per raggiungere equilibrio, stabilità, crescita. Poiché qualunque intervento statuale non può fare altro che sregolare e perturbare un corso altrimenti spontaneo, occorrerebbe dunque incoraggiare un atteggiamento astensionista in questo ambito. Così inteso, il neoliberismo si presenta come la mera riabilitazione del laisser-faire. Considerato nella sua messa in pratica, lo si è anzitutto analizzato in modo assai limitato, come ha fatto notare con perspicacia Wendy Brown: «Come uno strumento della politica economica dello Stato, con, da un lato, lo smantellamento degli aiuti sociali, della progressività dell'imposta e di altri strumenti distributivi della ricchezza; e dall'altro la stimolazione di un'attività scevra da vincoli del capitale, attraverso la deregolamentazione del sistema sanitario, del lavoro e delle politiche ambientali». Quando si è concesso che, effettivamente, c'è «un intervento», lo si è fatto unicamente per indicare l'azione con la quale lo Stato abdica a parte della propria missione, indebolendo i servizi pubblici dei quali in precedenza aveva l'appannaggio. Un «interventismo» puramente negativo, dunque, che non sarebbe altro che il risvolto politico attivo dell'organizzazione da parte dello Stato della sua stessa ritirata, un anti-interventismo di principio. Non è nostra intenzione contestare l'esistenza e la diffusione di una tale ideologia, non più di quanto lo sia negare che questa ideologia abbia nutrito le politiche economiche massicciamente promosse dagli anni di Reagan e Thatcher, trovando nel maestro di Wall Street, Alan Greenspan, il suo adepto più entusiasta, con le conseguenze che conosciamo. D'altra parte, quello che Joseph Stiglitz ha giustamente chiamato il «fanatismo del mercato» è ciò che i lettori del «Wall Street Journal», dell'«Economist» o dei loro equivalenti in giro per il mondo, sanno conservare al meglio. Ma il neoliberismo non è affatto riducibile a un fanatico atto di fede nella naturalità del mercato. Il grande errore che commettono coloro che annunciano la «morte del liberismo» è confondere la rappresentazione ideologica che accompagna l'istituzione di politiche neoliberiste con la normatività pratica che caratterizza specificamente il neoliberalismo. Per questo, il relativo discredito che oggi intacca l'ideologia del laissez-faire non impedisce in alcun modo al neoliberismo di prevalere più di prima in quanto sistema normativo dotato di una certa efficacia, ovvero capace di orientare dall'interno la pratica effettiva dei governi, delle imprese e di milioni di persone che non ne sono necessariamente coscienti. Sta qui, appunto, il cuore del problema: com'è possibile che nonostante le ripercussioni catastrofiche cui hanno portato le politiche neoliberiste, queste ultime siano sempre più attive, al punto da precipitare interi Stati e società in crisi politiche e regressioni sociali sempre peggiori? Com'è possibile che, negli ultimi trent'anni, queste stesse politiche si siano sviluppate e approfondite senza aver incontrato resistenze sufficienti a metterle in crisi? La risposta non può ridursi ai semplici aspetti «negativi» delle politiche neoliberiste, ovvero alla distruzione programmata delle regolamentazioni e delle istituzioni. Il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi. Il neoliberismo definisce una precisa forma di vita nelle società occidentali e in tutte quelle società che hanno intrapreso il cammino della presunta modernità. Questa norma impone a ognuno di vivere in un universo di competizione generalizzata, prescrive alle popolazioni di scatenare le une contro le altre una guerra economica, organizza i rapporti sociali secondo un modello di mercato, arriva a trasformare perfino l'individuo, ormai esortato a concepire se stesso come un'impresa. Da pressoché un terzo di secolo, questa norma esistenziale presiede alle politiche pubbliche, governa le relazioni economiche mondiali, trasforma la società e rimodella la soggettività. Le circostanze di un simile successo normativo sono state descritte di frequente. A volte privilegiando l'aspetto politico (la conquista del potere da parte delle forze neoliberiste), a volte quello economico (l'ascesa del capitalismo finanziario globalizzato), altre l'aspetto sociale (l'individualizzazione dei rapporti sociali a scapito delle forme di solidarietà collettiva, l'estrema polarizzazione tra ricchi e poveri), altre ancora quello soggettivo (la comparsa di una nuova tipologia di soggetto, lo sviluppo di nuove patologie psichiche). Si tratta delle dimensioni complementari alla nuova ragione del mondo. Con questo dobbiamo intendere che siamo di fronte a una ragione globale nel duplice senso del termine: una ragione che di colpo diventa valida su scala mondiale e una ragione che, lungi dal limitarsi alla sfera economica, tende a totalizzare, cioè a «fare mondo», con un proprio specifico potere di integrazione di tutte le dimensioni dell'esistenza umana. La ragione del mondo è anche, contemporaneamente, una «ragione-mondo». | << | < | > | >> |Pagina 8Il neoliberalismo come razionalitàLa tesi sostenuta in questo lavoro è che il neoliberalismo, prima ancora di un'ideologia o di una politica economica, sia fondamentalmente una razionalità, e che a questo titolo tenda a strutturare e a organizzare non solo l'azione dei governanti, ma anche la condotta individuale dei governati. La razionalità neoliberale ha per principale caratteristica quella della generalizzazione della concorrenza come norma di comportamento e dell'impresa come modello di soggettivazione. Qui non intendiamo usare il termine razionalità come un eufemismo, per evitare di pronunciare la parola «capitalismo». Il neoliberalismo è la ragione del capitalismo contemporaneo, di un capitalismo sgombro da riferimenti arcaizzanti e pienamente assunto come costruzione storica e come norma generale di vita. Il neoliberalismo può definirsi come l'insieme dei discorsi, delle pratiche, dei dispositivi che determinano una nuova modalità di governo degli uomini secondo il principio universale della concorrenza. Il concetto di «razionalità politica» è stato elaborato da Foucault in stretta connessione con le sue ricerche consacrate al problema della «governamentalità». Nel riassunto del corso al Collège de France tenuto da Foucault nel 1978-1979 — e pubblicato con il titolo di Nascita della biopolitica — si trova una presentazione del piano di analisi scelto per lo studio del neoliberalismo: si tratta, dice in sostanza Foucault, di un «piano di analisi possibile: quello della "ragione governamentale", vale a dire dei tipi di razionalità che sono utilizzati nei procedimenti volti a dirigere la condotta degli uomini, mediante l'amministrazione statuale». In questo senso, la razionalità neoliberale è una razionalità «governamentale». Bisogna peraltro intendersi sul senso della nozione di governo: «Si tratta, ben inteso, non del governo in quanto istituzione, ma dell'attività che consiste nel guidare la condotta degli uomini entro un quadro e mediante degli strumenti statuali». Foucault torna molte volte sulla concezione del governo come attività invece che come istituzione. Così, nel riassunto del corso al Collège de France intitolato Du gouvernement des vivants, la nozione di governo è «intesa nel senso lato delle tecniche e delle procedure tese a dirigere la condotta degli uomini». O, ancora, nella prefazione alla Storia della sessualità, rileggendo retrospettivamente la sua analisi delle pratiche punitive, Foucault dice di essersi interessato per prima cosa ai procedimenti di potere, ossia «all'elaborazione e al dispiegamento, dal XVII secolo in poi, di tecniche per governare gli individui, vale a dire per "condurre la loro condotta"». Il termine «governamentalità» è stato espressamente introdotto proprio per indicare le molteplici forme di questa attività con la quale alcuni uomini, appartenenti o meno a un governo, intendono condurre la condotta di altri uomini, cioè governarli. E ciò è talmente vero che il governo, lungi dall'affidarsi alla sola disciplina per raggiungere i meandri più intimi dell'individuo, mira in ultima istanza a ottenere un auto-governo dell'individuo stesso, cioè a produrre un determinato tipo di rapporto con se stessi. Nel 1982 Foucault dirà di essersi sempre di più interessato al «modo di azione che un individuo esercita su se stesso attraverso le tecnologie del sé», al punto di dover ampliare la propria originaria concezione della governamentalità, troppo incentrata sulle tecnologie di esercizio del potere sugli altri: «Chiamo "governamentalità" – scriverà l'autore – quell'incontro tra tecnologie di dominio esercitate sugli altri e tecnologie del sé». Governare, quindi, significa condurre la condotta degli uomini, purché si tenga presente che tale condotta è sia quella che si adotta nei confronti di se stessi, sia quella che si segue nei confronti degli altri. È per questo che il governo richiede la libertà come condizione di possibilità: governare non è governare contro la libertà o malgrado essa; è governare per mezzo della libertà, cioè giocare attivamente sullo spazio di libertà lasciato agli individui affinché si conformino autonomamente a determinate norme. Affrontare la questione del neoliberalismo a partire da una riflessione politica sul modo di governo non è privo di un impatto sulla sua comprensione. Anzitutto, questo consente di refutare le analisi semplicistiche improntate al «ritiro dello Stato» di fronte al mercato, facendo emergere che questa opposizione tra Mercato e Stato è uno dei principali ostacoli alla precisa caratterizzazione del neoliberalismo. Contrariamente alla percezione immediata e all'idea troppo semplicistica per la quale sarebbero i mercati che, dall'esterno, hanno conquistato gli Stati, dettandogli le politiche da perseguire, affermiamo che sono piuttosto gli Stati – soprattutto quelli più forti – ad aver introdotto e universalizzato nell'economia, nella società e finanche al proprio interno, la logica della concorrenza e del modello dell'impresa. Non dimentichiamoci che l'espansione del mercato della finanza, come del finanziamento del debito pubblico sui mercati delle obbligazioni sono il risultato di politiche deliberate. È flagrante nella crisi attuale in Europa, dove gli Stati portano avanti politiche molto «interventiste» che mirano a modificare in profondità le relazioni sociali, la funzione delle istituzioni di protezione sociale ed educative, a orientare i comportamenti attraverso una concorrenza generalizzata, a fronte del fatto che gli Stati sono a loro volta collocati in un contesto concorrenziale regionale e globale che condiziona la loro azione. Ancora una volta testiamo le analisi di Marx , Weber , Polanyi secondo le quali il mercato moderno non funziona da solo, è sempre stato sorretto dallo Stato. Questo consente poi di capire che è una stessa logica normativa a presiedere alle relazioni di potere e alle modalità di governo, a livelli e in ambiti molto diversi della vita economica, politica e sociale. Contrariamente a una lettura del mondo sociale che lo suddivide in ambiti autonomi e lo frammenta in microcosmi di tribù separate, l'analisi governamentale sottolinea il carattere trasversale delle forme di potere esercitate dentro una società in una data epoca. | << | < | > | >> |Pagina 11I limiti del marxismoPonendo l'accento sul regime disciplinare imposto a tutti attraverso una logica normativa che si è incarnata dentro istituzioni e dispositivi di potere la cui estensione è oggi planetaria, le tesi sostenute in questo libro differiscono radicalmente dalle interpretazioni del neoliberalismo fornite finora. Non si tratta di contestare che le politiche neoliberiste siano dapprima state imposte con la violenza criminale in Cile, in Argentina, in Indonesia e in altri posti, con il vigoroso sostegno dei paesi capitalistici, a cominciare dagli Stati Uniti. Il lavoro ben documentato di Naomi Klein è su questo imprescindibile". Nella fattispecie, c'è una frase di Marx che non è invecchiata: «Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall'assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza». Questo parto nella violenza tradisce anzitutto il fatto che si tratta appunto di una guerra condotta con qualunque mezzo disponibile, ivi incluso il terrore, e si impadronisce di qualunque occasione possibile per istituire il nuovo regime di potere e la nuova forma di esistenza. Eppure, prenderemmo la strada sbagliata riducendo il neoliberismo all'applicazione del programma economico della Scuola di Chicago con i metodi della dittatura militare. È opportuno non confondere la strategia generale e i metodi specifici. Questi dipendono infatti da circostanze locali, da rapporti di forza e fasi storiche, potendo impiegare tanto la brutalità dei golpe militari quanto la seduzione elettorale delle classi medie e popolari; usando e abusando del ricatto all'impiego e alla crescita; servendosi dei pareggi di bilancio e del debito quali pretesto per la «riforme strutturali», come fanno da sempre il Fondo monetario internazionale e l'Unione europea. La rimessa in discussione della democrazia prende strade diverse, che non derivano tutte dalla «terapia dello shock» ma talvolta, spesso, da ciò che Wendy Brown ha giustamente definito un processo di «de-democratizzazione», che consiste nello svuotare la democrazia dalla sostanza senza sopprimerne la forma. Nessuno dubita che vi sia una guerra portata avanti dai gruppi oligarchici in cui si mischiano, in forma di volta in volta specifica, gli interessi dell'alta amministrazione, degli oligopoli privati, degli economisti e dei media (senza dimenticare l'esercito e la chiesa). Ma questa guerra mira non solo a cambiare l'economia per «purificarla» dalle nefaste ingerenze pubbliche, ma anche a trasformare in profondità la stessa società imponendole al forcipe la legge così poco naturale della concorrenza e dell'impresa. A questo fine, serve indebolire le istituzioni e i diritti che il movimento operaio era riuscito a costruire dalla fine del XIX secolo, cosa che presuppone una guerra lunga, continuativa, spesso silenziosa, non riducibile agli «urti» che servono da pretesto a questa o quell'altra offensiva. È allora fondamentale capire come oggi si eserciti la violenza ordinaria, quotidiana, che pesa sugli individui, alla stregua di Marx quando osservava che la dominazione del capitale sul lavoro ricorreva solo in via eccezionale alla violenza extra-economica, che più sovente si esercitava nella forma di una «silenziosa coazione» inscritta nelle parole e nelle cose. Ma non si tratta più di chiedersi come, in generale, i rapporti capitalistici si impongano alla coscienza operaia al pari di «leggi naturali che procedono da sé», si tratta di capire, più precisamente, come la governamentalità neoliberale si sostenga di una globale cornice normativa, che, in nome della libertà e a partire dai margini di azione degli individui, orienta in modo del tutto nuovo i loro comportamenti, le loro scelte e le loro pratiche. Inoltre, non basta l'insegnamento di Karl Marx o di Rosa Luxemburg per scoprire il segreto di quella strana facoltà del neoliberalismo di estendersi ovunque, nonostante le sue crisi e le rivolte che induce nel mondo intero. Per ragioni teoriche fondamentali l'interpretazione marxista, per quanto sia «attualizzata», si rivela qui di un'insufficienza stridente. Il neoliberalismo istituisce inedite tecnologie di potere rivolte alle condotte e ai comportamenti. Non può essere ridotto all'espansione spontanea della sfera commerciale e dell'accumulazione capitalistica. Non che si debba difendere, contro il determinismo monocausale di un certo marxismo, la relativa autonomia della politica, ma semplicemente il neoliberalismo, in molti dei suoi risvolti dottrinali e nelle politiche dispiegate, non separa affatto l'«economia» dalla cornice giuridico-istituzionale che determina le pratiche specifiche dell'«ordine concorrenziale» mondiale e nazionale. Le interpretazioni marxiste, se sono riuscite ad anticipare la crisi finanziaria del 2008, non sono comunque riuscite a cogliere la novità del capitalismo neoliberista: rinchiuse in una concezione che fa della «logica del capitale» un motore autonomo della storia, riducono quest'ultima alla ripetizione di uno stesso scenario, con identici personaggi travestiti con nuovi costumi e identici intrighi collocati in nuovi allestimenti. Insomma, la storia del capitalismo non è mai altro che il dispiegarsi di una sempre identica essenza, al di là delle sue forme fenomeniche e delle sue fasi, che di crisi in crisi ci porta al crollo finale. Così inteso, il neoliberalismo è insieme maschera e strumento della finanza, che sarebbe il vero soggetto della storia. Per Duménil e Lévy, il neoliberalismo «ha restaurato le più rigide regole del capitalismo», consentendo al potere del capitale di continuare la propria avanzata plurisecolare sotto forme rinnovate attraverso le crisi. Lo stesso David Harvey , pure molto più attento alla novità del neoliberalismo, continua ad aderire a uno schema esplicativo ben poco originale. Stando alla sua tesi, la crisi di accumulazione degli anni Sessanta, segnata da stagflazione e diminuzione dei profitti, avrebbe spinto la borghesia a prendersi una «rivincita» attuando – in questa crisi e per uscirne – il progetto sociale formulato dai teorici del Monte Pellegrino. Lo Stato neoliberale, al di là dei suoi tratti specifici e nonostante il suo interventismo, continua a essere guardato come un semplice strumento nelle mani di una classe capitalistica desiderosa di restaurare un rapporto di forza favorevole nei confronti dei lavoratori e di aumentare con questo la propria quota nella distribuzione dei redditi. L'ampiezza delle disuguaglianze e la crescita della concentrazione dei redditi e dei patrimoni, oggi sotto i nostri occhi, confermerebbero l'esistenza di questa volontà iniziale. In fondo tutto sta nella risposta formulata da Duménil e Lévy alla domanda «a chi giova il crimine?»: poiché è la finanza a trionfare, è questa che fin dall'inizio sta di manovra. Siamo di fronte a un ricorrente paralogismo che consiste nell'identificare il beneficiario di un crimine con il suo autore, come se la comparsa di una nuova forma sociale fosse da ricondurre alla coscienza di uno o più strateghi, sua fonte o suo nucleo veritiero, come se il ricorso all'intenzionalità di un soggetto fosse il principio ultimo di qualunque intelligibilità storica. Ma se la spiegazione è seducente, è precisamente perché, all'inverso di tutto l'insegnamento di Marx, essa scambia i risultati storici di un processo per dei fini inizialmente prefissati in piena coscienza. L'incontestabile polarizzazione della ricchezza e della povertà, nella quale è sfociata la messa in pratica delle politiche neoliberiste, basterebbe da sola a rendere conto della loro natura. In fondo non si tratterebbe di altro che dell'eterna tendenza del capitale ad autovalorizzarsi attraverso l'estensione della merce. Non molto di nuovo sarebbe accaduto dal 1867, quando Marx esponeva il gioco delle leggi dell'accumulazione capitalistica, risalendo dalla merce, forma elementare della ricchezza borghese, fino all'accumulazione originaria, produttrice delle condizioni storiche della trasformazione della merce e del denaro in capitale. Nella misura in cui l'analisi di Marx fa del rapporto salariale, inteso come rapporto mercificato sui generis, il cuore del capitalismo, questa critica tende logicamente a privilegiare la relazione mercificata come modello di ogni relazione sociale: il neoliberalismo allora equivarrebbe alla impietosa mercificazione di tutta la società. È ciò che Duménil e Lévy sostengono quando scrivono: «in ultima istanza il neoliberalismo è certamente il portatore di un processo generale di mercificazione dei rapporti sociali». David Harvey grossomodo concorda con questa tesi, che traduce con l'espressione «accumulazione per spossessamento», che nel suo lavoro rimanda al senso più profondo di «neoliberalizzazione» della società e ha l'effetto di estendere illimitatamente e a priori la mercificazione. Eppure Harvey apporta al quadro una nuova pennellata, cosa che va a suo merito, quando sottolinea che i metodi della «presunta accumulazione originaria» sono proseguiti ben oltre la nascita del capitalismo industriale e quando fa di Karl Polanyi lo storico del capitalismo più adeguato a capire come ancora oggi sia richiesto l'intervento pubblico per costruire dei mercati e creare «merci fittizie». Ma il vero motore della storia resta il potere del capitale, che subordina lo Stato e la società mettendoli al servizio della propria cieca accumulazione. Questo schema, largamente condiviso dai movimenti contemporanei, soffre di un certo numero di debolezze. Oltre a fare dell'economia l'unica dimensione del neoliberalismo, suppone che la «borghesia» sia un soggetto storico che si conserva nel tempo, preesistente ai rapporti di conflitto con le altre classi, e che le sia bastato allertare, influenzare e corrompere gli uomini politici perché questi abbandonassero le politiche keynesiane e le forme di compromesso tra lavoro e capitale. Questo scenario, in Harvey, entra in contraddizione con il riconoscimento che le classi si sono profondamente rinnovate durante il processo di neoliberalizzazione, al punto che in alcuni paesi delle nuove borghesie scaturiscono direttamente dagli apparati comunisti (oligarchi russi, principi rossi cinesi), finendo con l'essere incoerente con la sua stessa analisi, molto precisa, delle forme specifiche di intervento dello Stato neoliberale. In realtà, non c'è stato alcun grande complotto, né alcun corpus dottrinario che le politiche avrebbero applicato con cinismo e determinazione per colmare le attese dei loro potenti amici affaristi. La logica normativa che ha finito per imporsi si è costituita lungo il filo di battaglie incerte e di politiche claudicanti. La società neoliberista nella quale viviamo è il risultato di un processo storico che non è stato programmato dai suoi pionieri, gli elementi che la compongono si sono formati poco a poco, interagendo e rafforzandosi gli uni con gli altri. Non più di quanto non sia il diretto risultato di una dottrina omogena, la società neoliberista non è il riflesso di una logica del capitale che indurrebbe le forme sociali, culturali e politiche più convenienti con l'avanzare della sua espansione. La spiegazione marxista classica disconosce che la crisi di accumulazione alla quale è supposto rispondere il neoliberismo, lungi dall'essere la crisi di un capitalismo sempre identico a sé, ha questo di specifico: è legata alle regole istituzionali che finora inquadravano un certo tipo di capitalismo. L'originalità del neoliberalismo è allora quella di creare un nuovo insieme di regole che, oltre a definire un altro «regime di accumulazione», definisce in modo più generale un' altra società. Siamo qui di fronte a un punto fondamentale. Nella concezione marxista, il capitalismo è anzitutto un «modo di produzione» economico, in quanto tale indipendente dal diritto e che produce l'ordine giuridico-politico di cui necessita in ogni momento del proprio autosviluppo. Ora, lungi dal derivare da una «sovrastruttura» condannata a esprimere o a ostacolare l'economico, il giuridico è fin da subito parte dei rapporti di produzione nel dare forma all'economico dall'interno. «L'inconscio degli economisti», come dice Foucault – che in realtà è l'inconscio di qualunque economista, sia esso liberale o marxista – è precisamente l'istituzione, ed è appunto all'istituzione che il neoliberalismo, in particolare nella sua versione ordoliberale, intende restituire un ruolo determinante. Siamo di fronte a un punto sostanziale, la cui posta in gioco attiene al problema della possibilità di sopravvivenza al di là delle sue crisi, possibilità di cui sappiamo si è di nuovo discusso al culmine della crisi nel novembre 2008. Se ci collochiamo in una prospettiva marxista, la logica unica e necessaria dell'accumulazione del capitale determina l'unicità del capitalismo: «Esiste in realtà un solo capitalismo, dato che c'è una sola logica del capitale» osserva Foucault. Le contraddizioni che ogni società capitalista manifesta in ogni epoca sono le contraddizioni del capitalismo. Se seguiamo, ad esempio, l'analisi del Primo libro del Capitale, la legge generale dell'accumulazione capitalistica ha come conseguenza una tendenza alla centralizzazione dei capitali la cui ricorrenza è, insieme al credito, la leva principale. La tendenza alla centralizzazione è allora inscritta nella logica della concorrenza come una «legge naturale», quella «dell'attrazione del capitale da parte del capitale». Ma se pensiamo come gli ordoliberali, e dopo di loro come gli economisti «regolazionisti», che la figura contemporanea del capitalismo, lungi dal potersi ridurre alla logica del capitale, non è altro che «una figura economico-istituzionale» storicamente singolare, dobbiamo allora convenire che la forma del capitalismo e i meccanismi della crisi sono l'effetto contingente di alcune regole giuridiche e non la conseguenza necessaria delle leggi dell'accumulazione capitalistica. Di conseguenza, sono suscettibili di essere superate al costo di trasformazioni giuridico-istituzionali. È ciò che in ultima istanza giustifica l'interventismo giuridico rivendicato dal neoliberalismo: dal momento che abbiamo di fronte un capitalismo singolare, diventa possibile intervenire in questo insieme così da inventare un altro capitalismo differente dal primo, il quale costituirà a sua volta una configurazione singolare determinata da un insieme di regole giuridico-politiche. Piuttosto che un modo di produzione economico il cui sviluppo sarebbe presieduto da una logica agente alla stregua di un'implacabile «legge naturale», il capitalismo è un «complesso economico-giuridico» che ammette una molteplicità di figure singolari. Anche per questo dobbiamo parlare di società neoliberista e non solo di politica neoliberista o di economia neoliberista: pur essendo innegabilmente una società capitalista, questa società deriva da una figura singolare del capitalismo, che nella sua irriducibile specificità esige di essere analizzata in quanto tale. Vediamo allora che l'analisi della governamentalità neoliberale raggiunge qui indirettamente, come per contraccolpo, la concezione marxista del capitalismo nella sua essenzialità. Ma non è tutto. L'interpretazione marxista del neoliberalismo non ha ancora capito che la crisi degli anni Sessanta e Settanta non era riducibile a una «crisi economica» classicamente intesa. In questo senso, si è trattato di un'interpretazione troppo ristretta, perché cogliesse l'ampiezza delle trasformazioni sociali, culturali e soggettive introdotte dalla diffusione nell'intera società delle norme neoliberali. Poiché il neoliberismo non risponde semplicemente a una crisi di accumulazione, esso risponde a una crisi di governamentalità. È infatti in questo contesto molto particolare di generale contestazione che Foucault colloca l'avvento di una nuova modalità di conduzione degli individui, che ha la pretesa di dare un diritto all'aspirazione di libertà in qualunque ambito, tanto sessuale o culturale quanto economico. Per dirlo rapidamente, ha l'intuizione che, in quegli anni, in gioco ci sia la crisi acuta delle forme di potere fino a quel momento dominanti. Contro l'economismo, coglie che è possibile isolare le lotte dei lavoratori dalle lotte delle donne, degli studenti, degli artisti e dei malati e intravede che la riformulazione dei modi di governo degli individui nei diversi settori della società, che le risposte fornite alle lotte sociali e culturali, stanno per trovare nel neoliberismo una possibile coerenza tanto teorica che pratica. Occupandosi da vicino della storia del governo liberale, mostra che quanto dal XVIII secolo chiamiamo «economia» è alla base di un insieme di dispositivi di controllo della popolazione e di orientamento delle condotte (la «biopolitica») che troveranno una sistematizzazione inedita nel neoliberalismo. Con quest'ultimo, la concorrenza e il modello imprenditoriale costituiscono un modo generale di governo, ben al di là della «sfera economica» nel senso abituale del termine. Ed è appunto ciò che possiamo osservare ovunque. L'esigenza di «competitività» è diventata un principio politico generale che presiede alle riforme in qualunque ambito, persino nei più distanti dagli scontri commerciali sul mercato mondiale. È la chiara espressione che non siamo di fronte a una «mercificazione rampante», ma a un'estensione della razionalità del mercato all'intera esistenza, attraverso la generalizzazione della forma-impresa. È questa «razionalizzazione dell'esistenza» che, in fin dei conti, può avere l'effetto di «cambiare il cuore e l'anima», come sottolineava Margaret Thatcher. A questo proposito, basti guardare alla profonda devastazione soggettiva che vent'anni di berlusconismo non hanno mancato di produrre in Italia, per farsi un'idea piuttosto precisa di queste trasformazioni. Questa analisi, se si allontana da un marxismo assai limitato, finisce col ricongiungersi con una delle maggiori intuizioni di Marx, il quale aveva ben capito che un sistema di produzione economico era anche un sistema di «produzione» antropologico. | << | < | > | >> |Pagina 19La crisi generalizzata di una modalità di governoMettendo l'accento sulla dimensione «produttrice» del neoliberismo, un'analisi del genere permette di non considerare la crisi attuale soltanto come la conseguenza di un «eccesso di finanza», come un effetto della «dittatura dei mercati» o una «colonizzazione» dello Stato da parte del capitale. La crisi che attraversiamo si manifesta allora per quella che è: una crisi globale del neoliberalismo come modalità di governo delle società. L'attuale crisi dell'euro non è solo una crisi «monetaria», le crisi dei paesi del Sud dell'Europa non sono solo crisi «di bilancio», proprio come la crisi mondiale esplosa nell'autunno 2008 non è soltanto una crisi economica. Presa isolatamente, la prima potrebbe sembrare una sorta di replica differita della crisi dei subprimes, una transizione tra la crisi del debito privato e quella del debito pubblico, sotto l'effetto di mercati speculativi incontrollati. Ma anche questo punto di vista è piuttosto limitato, se non ingannevole. La crisi mondiale è una crisi generale della «governamentalità neoliberista», ovvero di una modalità di governo delle economie e delle società basata sulla mercatizzazione e sulla concorrenza generalizzata. La crisi finanziaria è profondamente legata alle misure che, a partire dalla fine degli anni Settanta, hanno introdotto nella sfera della finanza americana e mondiale delle nuove regole, fondate sulla messa in concorrenza degli istituti bancari e dei fondi di investimento, portati così ad assumersi rischi più elevati e a spalmarli sul resto dell'economia per ammassare profitti colossali con la speculazione. Se è opinione comune che la crisi sia legata al «nuovo regime di accumulazione finanziaria», con la sua cronica instabilità legata a «bolle speculative» che crescono per poi scoppiare, non è ancora abbastanza chiaro che la finanziarizzazione del capitalismo su scala mondiale è solo uno degli aspetti di un insieme di norme che hanno interessato progressivamente tutti gli aspetti dell'attività economica, della vita sociale e della politica degli Stati a partire dalla fine degli anni Settanta. Lautonomizzazione e l'espansione della sfera finanziaria non sono le cause prime e spontanee di una nuova modalità di accumulazione capitalista. L'ipertrofia finanziaria è piuttosto l'effetto storicamente individuabile di politiche che hanno stimolato la concorrenza tra attori nazionali e mondiali della finanza. Che un bel giorno i mercati finanziari siano sfuggiti al controllo della politica è una favola bella e buona. Sono gli Stati, e le organizzazioni economiche mondiali, in stretta complicità con gli attori privati, ad aver prodotto le regole favorevoli al boom della finanza di mercato. Se la crisi finanziaria americana ha mostrato le basi instabili e inegualitarie del nuovo capitalismo mondiale (ciniche speculazioni del mercato della finanza, susseguirsi di bolle sempre più colossali, crescente polarizzazione tra le classi sociali, asservimento al debito bancario delle classi povere e dei paesi periferici, ecc.), l'attuale crisi europea mostra invece come i fondamenti della costruzione europea («l'ordine della concorrenza libera e non falsata») portino ad asimmetrie sempre maggiori tra paesi più o meno «competitivi». Ed è proprio l'imperativo della «competitività», vantata da tutti come il solo «rimedio», a spiegare la specificità dell'attuale crisi europea. La corsa alla competitività, in cui la Germania si è lanciata all'inizio degli anni Duemila con crescente successo, non è altro che l'effetto pratico di un principio sancito dalla «Costituzione europea»: la competizione tra le economie dell'Europa, insieme con l'esistenza di una moneta unica gestita da una banca centrale che garantisce la stabilità dei prezzi, costituisce in effetti la base dell'edificio comunitario e l'asse dominante delle politiche nazionali. Ciò significa che ciascun paese è libero di mettere in atto il dumping fiscale più agguerrito per attirare le multinazionali e i contribuenti più ricchi, di abbassare il livello dei salari e della previdenza sociale per creare impiego a spese dei vicini, di perseguire l'abbassamento dei costi della produzione delocalizzandola completamente o solo in parte, di ridurre la spesa pubblica, compresa la sanità e l'istruzione, per abbassare il livello delle imposte. L'assurgere della «competitività» a principio generale di governo rappresenta con precisione l'estendersi della norma neoliberista a tutti i paesi, a tutti i settori dell'azione pubblica, a tutti i campi della vita sociale, ed è proprio l'attuazione di questa norma a provocare, simultaneamente in tutti i paesi, il calo della domanda nel miraggio di un'offerta più «competitiva» e la concorrenza generalizzata tra i lavoratori salariati dei paesi europei e del mondo, con la successiva deflazione salariale e l'acuirsi delle disuguaglianze. A questo proposito è illuminante il comportamento della Renault in Spagna: da una parte la direzione vanta ai lavoratori francesi la competitività dei colleghi spagnoli, dall'altra si serve in Spagna dell'esempio della Romania per chiedere ai dipendenti di lavorare (gratis) anche di sabato. Come spiegare lo slancio suicida della corsa all'austerità? È soltanto mancanza di lucidità, o – ragione più profonda – siamo di fronte agli effetti dell'ingranaggio concorrenziale? All'interno di un sistema europeo basato sulla concorrenza e la moneta unica, la pressione speculativa degli investitori privati sul mercato del debito pubblico e l'influenza delle agenzie di rating, per non parlare dell'impossibilità di svalutare, sono le manifestazioni di un'unica logica disciplinare, tremendamente efficace quando si tratta di comprimere i salari ed erodere la previdenza sociale. Non si può capire l'ostinazione, quando non il fanatismo, con cui gli esperti dei governi, dell'Unione europea e del Fondo monetario internazionale perseguono una politica cosiddetta «di austerità», se non si considera che sono inviluppati in un quadro normativo, al contempo mondiale ed europeo, fatto di regole di diritto sia privato che pubblico e di un «consenso» con valore di impegno per il futuro, che essi stessi hanno attivamente fabbricato nell'arco di decenni. Non potendo e non volendo infrangere questo quadro, sono trascinati in una fuga in avanti per adattarsi sempre di più agli effetti della loro politica precedente. Per questo motivo, i piani di austerità che riducono il reddito della gran parte della popolazione sono inscindibili dalla volontà di gestire le economie e le società come imprese «lanciate nella competizione mondiale». Si condannano qua e là, negli spazi in cui la critica è ancora consentita, gli «errori» delle politiche di austerità europee che, come quelle degli anni Trenta, aggravano la depressione ovunque siano applicate e trascinano intere società in un regresso sociale che fino a poco tempo fa sarebbe stato inconcepibile. Da anni Paul Krugman spinge per un rilancio della spesa pubblica che permetta alla macchina di ripartire. Ma bisogna andare più a fondo nell'analisi per capire quali concatenazioni mortifere portino i governi «tecnici» greci, spagnoli, portoghesi o italiani, ma anche il governo «socialista» francese, ad attuare politiche tanto contrarie a ogni «buon senso» dal momento che riducono la domanda e affossano l'occupazione, quando invece dovrebbero tendere all'espansione e creare attività. Qualche buon keynesiano o postkeynesiano può anche tentare, oggi, di dimostrare che queste politiche applicate forzosamente al Sud dell'Europa non solo sono nocive per il benessere dei più, ma anche deleterie per la crescita e la sopravvivenza stessa della costruzione europea. Un semplice ragionamento non basterà a persuadere i politici europei, gli ambienti finanziari e i giornalisti incaricati di giustificare il suicidio collettivo. Credere ancora oggi che il neoliberismo si riduca a un'«ideologia», a una «convinzione», a uno «stato mentale» che i fatti oggettivi, debitamente analizzati, scioglierebbero come neve al sole, significa mancare fatalmente i termini della lotta, condannandosi all'impotenza. Il neoliberismo è un sistema di norme ormai profondamente impresse nelle pratiche governamentali, nelle politiche istituzionali, negli stili del management. Bisogna poi precisare che il sistema è tanto più «resiliente» dal momento che è esteso ben oltre la sfera commerciale e finanziaria in cui regna il capitale. Mette in pratica un'estensione della logica del mercato ben al di là delle frontiere limitate del mercato, soprattutto producendo una soggettività «contabile» tramite la concorrenza generalizzata degli individui. Si pensi in particolare alla generalizzazione dei metodi di valutazione dell'impresa nel campo dell'istruzione pubblica: il lungo sciopero del 2012 degli insegnanti di Chicago ha ricacciato indietro, almeno per il momento, un sistema di valutazione dei docenti in funzione dei risultati degli alunni in un test concepito appositamente per valutare gli insegnanti, tramite la valutazione degli alunni, con il possibile licenziamento degli insegnanti i cui allievi ottenessero risultati insufficienti. Si pensi anche a come l'indebitamento cronico modelli la soggettività, diventando un vero e proprio «stile di vita» per centinaia di migliaia di individui: le mobilitazioni degli studenti del Québec hanno evidenziato la logica infernale di indebitamento a vita che l'innalzamento brutale delle tasse di iscrizione avrebbe imposto. In tutti questi esempi è in gioco la costruzione di un nuovo modello di soggettività, quella che chiamiamo «soggettivazione contabile e finanziaria», che altro non è che la forma più compiuta della soggettivazione capitalista. Di fatto, si tratta di produrre nel soggetto individuale un rapporto con se stesso omologo al rapporto con il capitale: il soggetto, per essere più esatti, è portato a vedere in se stesso un «capitale umano» da valorizzare indefinitamente, un valore da aumentare sempre di più. Si capisce allora come non ci siano tanto delle teorie false da combattere, o dei comportamenti immorali da denunciare, ma un intero quadro normativo da smantellare per sostituirgli un'altra «ragione del mondo». È questa la posta in gioco per le lotte sociali di oggi, che determineranno la caduta della logica neoliberista o, al contrario, permetteranno che si protragga, o addirittura che si radicalizzi. Quanto allo Stato, sul quale alcuni fanno ancora ingenuamente affidamento perché «controlli» i mercati, la crisi ha mostrato fino a che punto sia parte volontaria della produzione delle norme di competitività, a spese di qualunque considerazione sulla salvaguardia delle condizioni minime di benessere, salute e istruzione della popolazione. Ma la crisi ha mostrato anche che lo Stato, con la sua difesa incondizionata del sistema finanziario, aveva un proprio interesse nelle nuove forme di assoggettamento del lavoro salariato all'indebitamento di massa che caratterizza il funzionamento del capitalismo contemporaneo. Lo Stato neoliberista non è dunque uno «strumento» da utilizzare indifferentemente per finalità diverse. In quanto «Stato-stratega» è parte attiva nella realizzazione degli investimenti e delle norme, è un ingranaggio della macchina da combattere. Colpendo l'Europa, la crisi mondiale ha agito come un rilevatore brutale e spietato. Ha messo a nudo le illusioni su cui l'Europa si è costruita fino a questo momento: il miraggio di fondare l'Europa politica sul successo economico e la prosperità materiale, «costituzionalizzando» le norme della stabilità di bilancio, della stabilità monetaria e della concorrenza. La crisi dell'Europa è una crisi dei suoi principi. Non basterà «riorientarla» verso la crescita, né tantomeno «colmare il deficit democratico» sovrapponendo al grande mercato la sovrastruttura istituzionale di uno Stato federale, se non la si modifica dalle fondamenta. Non è il tetto di «casa Europa» che è troppo fragile, sono le fondamenta che cadono a pezzi. Bisogna capire fino a che punto i tre aspetti dell'Europa attuale sono interdipendenti: costituzionalizzazione della concorrenza e della regola d'oro del pareggio di bilancio, «federalismo esecutivo» che consacra il primato dell'intergovernamentale, passaggio in secondo piano dei diritti sociali. In particolare, il fatto che il Parlamento sia privato di ogni iniziativa in materia di legislazione, che la Commissione, organismo non elettivo, sia la sola abilitata a proporre leggi e disponga del diritto di veto sulla materia legislativa, e che questa stessa Commissione e il Consiglio dei ministri (che non rispondono in alcun modo al Parlamento) siano considerati organi indipendenti incaricati di promuovere «l'interesse generale», non dipende affatto da circostanze accidentali: vi si legge anzi una coerenza istituzionale forte che si basa sul principio antidemocratico per cui l'indipendenza nei confronti dei cittadini è la migliore garanzia del perseguimento dell'interesse generale. Bisogna allora rifondare l'Europa, ovvero, stando così le cose, dotarla di nuove fondamenta. Al contrario dei trattati precedenti, un atto del genere non può essere negoziato e realizzato da un organismo intergovernamentale, né dipendere dal monopolio di un Parlamento. Non può essere che l'atto degli stessi cittadini europei. | << | < | > | >> |Pagina 24Liberalismo classico e neoliberismoAl di là di questo obiettivo politico, approcciare lo studio del neoliberismo a partire dal problema della governamentalità produce necessariamente alcuni slittamenti riguardo alle concezioni dominanti o alle linee di demarcazione meglio consolidate. Quest'opera si propone di esaminare i caratteri differenziali che rendono specifica la governamentalità neoliberista. Non cercheremo quindi, con i più, di individuare una semplice continuità tra liberalismo, liberismo e neoliberalismo, ma di sottolineare la novità peculiare del neoliberalismo. Con questo scopo percorreremo a ritroso lo sviluppo delle analisi che presentano il neoliberalismo come un «ritorno» al liberalismo delle origini, o come una «restaurazione» di quest'ultimo dopo la lunga eclissi che seguì la crisi dell'ultimo decennio del XIX secolo. Nella sinistra le conseguenze politiche di questa confusa interpretazione sono facili da individuare. Dal momento che qualsiasi regolamentazione della vita economica è considerata per definizione anti-liberista, si è portati ad appoggiarla senza una debita valutazione del contenuto o, peggio ancora, con un pregiudizio positivo sul contenuto stesso.
Il «primo liberalismo», quello che prende corpo nel XVIII secolo, è
caratterizzato dall'elaborazione della questione dei limiti
del governo. Il governo liberale è inquadrato da «leggi», più o
meno connesse fra loro: leggi naturali che fanno dell'uomo ciò che
è «naturalmente», e devono stabilire i confini dell'azione pubblica; leggi
economiche, anch'esse naturali, che devono circoscrivere
e regolamentare la delibera politica. Ma le tecniche utilitariste del
governo liberale, più fini e più flessibili di quanto non le dipingano le
dottrine del diritto naturale e la dogmatica del
laissez faire,
cercano di orientare, stimolare, combinare gli interessi individuali perché
concorrano al bene comune. Se è vero che nel primo liberalismo esiste una
concezione condivisa dell'uomo, della società e
della storia, e se è vero che la questione dei limiti dell'azione governamentale
vi occupa una posizione centrale, l'unità del liberalismo «classico» diventerà
sempre più problematica, come dimostrano i cammini divergenti dei liberali nel
XIX secolo, tra il dogmatismo del
laissez-faire
e un certo riformismo sociale, divergenza
che porterà a una crisi sempre più profonda delle vecchie certezze.
In una prima parte, il presente lavoro metterà in evidenza quella che potremmo chiamare la matrice del primo liberalismo, ovvero l'elaborazione della questione dei limiti del governo. Emergerà allora che questa elaborazione è sostenuta da una specifica concezione dell'uomo, della società e della storia. L'unità di tale questione non permetterà tuttavia di affermare l'omogeneità del liberalismo «classico», come dimostrano le direzioni divergenti che approderanno alla grande crisi di certezze della fine del XIX secolo. Nella seconda parte ci si adopererà per dimostrare che, fin dal suo atto di nascita, il neoliberalismo segna una distanza, se non una netta frattura, con la versione dogmatica del liberalismo affermatasi nel XIX secolo. Il fatto è che la gravità della crisi di questo dogmatismo spingeva a rivedere esplicitamente e consapevolmente l'antico adagio del laissez-faire. Anche in questo caso, l'impegno di una rifondazione intellettuale del liberalismo non porta a una dottrina integralmente unitaria. Fin dal convegno Walter Lippmann del 1938, infatti, si distinguono due grandi correnti: l'ordoliberalismo tedesco, i cui principali esponenti sono Walter Eucken e Wilhelm Röpke, e la corrente austro-americana, rappresentata da Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek. Nella terza parte si potrà infine stabilire che la razionalità neoliberista, sviluppatasi propriamente nel decennio 1980-1990, non è una mera applicazione della dottrina elaborata negli anni Trenta. Non è un semplice passaggio dalla teoria alla pratica. Una sorta di filtro, che tuttavia non procede da una selezione cosciente e deliberata, trattiene alcuni aspetti a spese del resto, a seconda del loro valore operativo e strategico all'interno di una situazione storica determinata. Non si tratta di un'azione monocausale (dall'ideologia verso l'economia o viceversa), ma di una molteplicità di processi eterogenei che hanno portato, mediante «fenomeni di coagulazione, di sostegno, di rafforzamento reciproco, di coesione, di integrazione», a questo effetto globale che è la messa in opera di una nuova razionalità governamentale. Il neoliberalismo non è dunque l'erede naturale del primo liberalismo, non più di quanto ne sia il tradimento o lo sviamento. Non riprende la questione dei limiti del governo da dove era stata lasciata. Non si chiede più: che tipo di limiti assegnare al governo politico, se il mercato, i diritti o il calcolo dell'utilità (cfr. parte I). Ma piuttosto: come fare del mercato il principio del governo degli uomini e del governo di sé (cfr. parte II)? Inteso come razionalità, il neoliberalismo è precisamente il dispiegamento della logica del mercato come logica normativa, dallo Stato fino ai meandri più intimi della soggettività (cfr. parte III). In conseguenza di tutto ciò, la continuità della ricerca condotta nel presente lavoro riveste un'importanza particolare. Niente impedisce, comunque, di leggere separatamente le tre parti del libro, nella misura in cui ciascuna detiene una propria coerenza specifica. Estate 2013 | << | < | > | >> |Pagina 291Ci proponiamo in questo capitolo di esaminare, nell'ordine, i quattro punti che seguono. Il primo riguarda la relazione di sostegno reciproco in virtù della quale le politiche neoliberiste e le trasformazioni del capitalismo si sono per così dire spalleggiate a vicenda per produrre quello che abbiamo chiamato la «grande svolta». La svolta, tuttavia, non è dovuta soltanto alla crisi del capitalismo, non più di quanto non sia stata improvvisa. È stata preceduta e accompagnata da una lotta ideologica, che è consistita soprattutto in una critica sistematica e duratura allo Stato previdenziale, da parte di saggisti e uomini politici. Questa offensiva ha nutrito direttamente l'azione di certi governi e ha contribuito largamente a legittimare la nuova norma quando quest'ultima ha finito per emergere. E questo è il secondo punto. Ma la sola conversione delle menti non sarebbe bastata: bisognava ottenere una trasformazione dei comportamenti. Questa fu essenzialmente l'opera di tecniche e di dispositivi di disciplina, ovvero di sistemi di vincolo, tanto economico quanto sociale, la cui funzione era costringere gli individui a governarsi sotto la pressione della competizione, secondo i principi del calcolo massimizzatore e in una logica di valorizzazione del capitale. È il terzo punto. La progressiva estensione di questi sistemi disciplinari così come la loro codificazione istituzionale sono giunte infine all'organizzazione di una razionalità generale, una sorta di nuovo regime dell'evidenza, che si impone ai governanti di ogni corrente come unico quadro di intelligibilità della condotta umana.Una nuova regolazione attraverso la concorrenza Ci sono due modi di fraintendere il senso della «grande svolta». Il primo consiste nel farla derivare esclusivamente da trasformazioni economiche interne al sistema capitalista. Si isola così artificialmente la dimensione di reazione-adattamento a una situazione di crisi. La seconda consiste nel vedere nella rivoluzione neoliberista l'applicazione deliberata e concertata di una teoria economica, privilegiando il più delle volte quella di Milton Friedman. E in questo caso è la dimensione della rivalsa ideologica a essere sopravvalutata. In realtà, l'assestamento della norma mondiale della concorrenza ha avuto luogo tramite un innesto di un progetto politico su una dinamica endogena, allo stesso tempo tecnologica, commerciale e produttiva. In questa sezione e in quella seguente vorremmo evidenziare i tratti principali di questa dinamica, riservando l'esame specifico della seconda dimensione alle sezioni successive dedicate all'ideologia e alla disciplina. Il programma politico di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, imitato poi da un gran numero di governi e rilanciato dalle grandi organizzazioni internazionali come il Fmi o la Banca mondiale, si presenta dapprima come un insieme di risposte a una situazione giudicata «ingestibile». Questa dimensione di reazione propriamente detta è perfettamente evidente nel rapporto della Commissione Trilaterale intitolato The Crisis of Democracy, un documento chiave che testimonia la coscienza dell'«ingovernabilità» delle democrazie, condivisa da molti dirigenti dei paesi capitalisti. Gli esperti chiamati a formulare una diagnosi nel 1975 constatavano che i governanti erano diventati incapaci di governare a causa dell'eccessiva implicazione dei governati nella vita politica e sociale. Al contrario di Tocqueville o di Mill che deploravano l'apatia dei moderni, i tre relatori della Commissione Trilaterale, Michael Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, lamentano l'«eccesso di democrazia» comparso negli anni Sessanta, ovvero a partire dalla crescita delle rivendicazioni egalitarie e del desiderio di partecipazione politica attiva delle classi più povere e marginalizzate. Ai loro occhi la democrazia politica può funzionare normalmente solo con un certo grado «di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi». Abbracciando i temi classici dei primi teorici neoliberisti, arrivavano a reclamare che si riconoscesse che «ci sono pure limiti potenzialmente auspicabili all'ampliamento indefinito della democrazia politica». L'appello a porre dei «limiti alle rivendicazioni» esprimeva a suo modo l'entrata in crisi della vecchia norma fordista. Quest'ultima conciliava i principi del taylorismo con delle regole di distribuzione del valore aggiunto favorevoli all'innalzamento regolare dei salari reali (tramite l'indicizzazione sui prezzi e i guadagni di produttività). Questa connessione della produzione e del consumo di massa si fondava inoltre sul carattere relativamente autocentrico di questo modello di crescita che garantiva una certa «solidarietà» macroeconomica tra salari e profitti. Le caratteristiche della domanda (ridotta differenziazione dei prodotti, elevata elasticità della domanda rispetto al prezzo, progressività dei redditi) corrispondevano alla soddisfazione progressiva dei bisogni delle famiglie in beni di consumo e di produzione. Così la crescita sostenuta dei redditi, assicurata dall'aumento dei guadagni di produttività, permetteva di riversare la produzione di massa su mercati essenzialmente domestici. Settori industriali poco esposti alla concorrenza internazionale giocavano un ruolo trainante nella crescita. L'organizzazione dell'attività produttiva poggiava su una divisione del lavoro molto avanzata, un'automazione accresciuta ma rigida, un ciclo produzione/consumo lungo, che permetteva di ottenere economie di scala su basi nazionali o anche internazionali, queste ultime già legate alla massiccia delocalizzazione di segmenti d'assemblaggio nei paesi asiatici. Si capisce come tali condizioni rendessero possibili, sul piano politico e sociale, degli aggiustamenti che fino a un certo punto mettevano in relazione la valorizzazione del capitale con un aumento dei salari reali (fenomeno che si è potuto definire come «compromesso socialdemocratico»). Dalla fine degli anni Sessanta, tuttavia, il modello «virtuoso» della crescita fordista incontra dei limiti endogeni. Le imprese conoscono allora un calo molto sensibile dei tassi di profitto. La caduta della «redditività» si spiega con il rallentamento dei guadagni di produttività, dovuto al rapporto tra le forze sociali e alla combattività dei salariati (che è la caratteristica storica del '68), alla forte inflazione amplificata dalle due crisi petrolifere del 1973 e del 1979. La stagflazione sembra allora firmare l'atto di morte dell'arte keynesiana di «pilotare la congiuntura», che presupponeva un arbitraggio tra inflazione e recessione. La coesistenza dei due fenomeni, forte tasso d'inflazione e tasso di disoccupazione elevato, sembra screditare l'azione benefica della spesa pubblica sul livello della domanda e il livello d'attività, che parte dal livello di occupazione. | << | < | > | >> |Pagina 297Il boom del capitalismo finanziarioSul piano mondiale, la diffusione della norma neoliberista trova un veicolo privilegiato nella liberalizzazione finanziaria e nella globalizzazione della tecnologia. Un mercato unico dei capitali si realizza attraverso una serie di riforme della legislazione, le più significative delle quali sono state la completa liberazione dei cambi, la privatizzazione del settore bancario, la rimozione delle barriere del mercato finanziario e, a livello locale, la creazione della moneta unica europea. Questa liberalizzazione politica della finanza è fondata su un bisogno di finanziamento del debito pubblico da soddisfare ricorrendo agli investitori internazionali. Essa è giustificata sul piano teorico dalla superiorità della concorrenza tra attori finanziari nell'amministrazione del credito, per quanto riguarda il finanziamento delle imprese, delle famiglie e degli Stati indebitati. È stata poi agevolata da una revisione progressiva della politica monetaria americana, che ha abbandonato gli stretti canoni del monetarismo dottrinale. [...] Nulla lo dimostra meglio del ruolo degli Stati e delle organizzazioni economiche internazionali nella realizzazione del nuovo regime d'accumulazione a dominante finanziaria. C'è in effetti una certa falsa ingenuità nel deplorare la potenza del capitalismo finanziario in opposizione alla forza declinante degli Stati. Il nuovo capitalismo è profondamente legato alla costruzione politica di una finanza globale governata dal principio della concorrenza generalizzata. In questo, la mercatizzazione (marketization) della finanza è figlia della ragione neoliberista. Non bisogna prendere dunque l'effetto per la causa, identificando sommariamente neoliberismo e capitalismo finanziario. Certo non tutto viene dalle mani dello Stato. Se al principio uno degli obiettivi della liberalizzazione dei mercati finanziari era agevolare i bisogni crescenti di finanziamento dei deficit pubblici, l'espansione della finanza è anche il risultato di innovazioni molteplici nei prodotti finanziari, nelle pratiche e nelle tecnologie, che in origine non erano state previste. Resta il fatto che negli anni Ottanta, con le riforme di liberalizzazione e di privatizzazione, lo Stato stesso ha dato vita a una finanza di mercato in luogo di una gestione più amministrata dei finanziamenti bancari alle imprese e alle famiglie. Ricordiamo che dagli anni Trenta agli anni Settanta il sistema finanziario era inquadrato da regole che miravano a proteggerlo dagli effetti della concorrenza. A partire dagli anni Ottanta, le regole cui continuerà a essere soggetto subiscono una brusca inversione, e mirano ora a regolamentare la concorrenza generale tra tutti gli attori della finanza su scala internazionale. [...]
E dunque non c'è da stupirsi se i governi, a partire dallo scoppio della
crisi nel 2007, moltiplicano gli interventi di «salvataggio» degli istituti
bancari e delle società d'assicurazioni: questi interventi non fanno che
illustrare su vastissima scala il principio della «nazionalizzazione dei rischi
e privatizzazione dei profitti». Così il governo britannico di Gordon Brown ha
nazionalizzato quasi il 50% del sistema bancario e
il governo americano ha ricapitalizzato le banche di Wall Street
per un ammontare di svariate centinaia di miliardi di dollari. Contrariamente a
quanto sostenuto da alcuni analisti, non si tratta di
«socialismo», e tanto meno di una nuova «rivoluzione d'ottobre», ma di
un'estensione obbligata e forzata del ruolo attivo dello Stato neoliberista.
Costruttore, vettore e partner del capitalismo finanziario,
lo Stato neoliberista ha percorso un passo ulteriore divenendo effettivamente,
col favore della crisi, l'istituzione finanziaria d'ultima istanza. Tanto che
questi «salvataggi» possono farne provvisoriamente una sorta di Stato
borsistico,
che acquista a basso prezzo dei titoli per cercare di rivenderli più tardi con
un andamento favorevole. L'idea secondo cui, dopo la «ritirata dello Stato»,
assisteremmo a un «ritorno dello Stato», deve essere presa dunque in
seria considerazione.
Ideologia (1): il «capitalismo libero» Che una tale illusione sia tanto diffusa, lo dobbiamo per larga parte a una strategia efficace di conversione degli intelletti che, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, ha preso la duplice forma di una lotta ideologica contro lo Stato e le politiche pubbliche, da una parte, e di un'apologia senza riserve del capitalismo più sfrenato, dall'altra. Tutta una vulgata ha ricamato abbondantemente sul tema del necessario «disimpegno dello Stato» e sull'incomparabile «efficienza dei mercati». All'inizio degli anni Ottanta, così, si è creduto al ritorno del mitico mercato autoregolato, nonostante le politiche neoliberiste mirassero a una costruzione dei mercati più attiva possibile. Questa conquista politica e ideologica è stata l'oggetto di numerosi studi. Alcuni autori hanno sviluppato una strategia di lotta ideologica assai consapevole. Hayek, von Mises, Stigler o Friedman hanno pensato nel vero senso della parola l'importanza della propaganda e dell'istruzione, tema che occupa una parte notevole dei loro scritti e dei loro interventi. Hanno cercato persino di dare una forma popolare alle loro tesi perché toccassero, se non direttamente l'opinione pubblica, almeno quelli che la influenzano, e questo molto presto come mostra il successo mondiale de La via della schiavitù di Hayek. Si spiega così anche la costituzione dei think tank, il più celebre dei quali, la Società del Monte Pellegrino, fondata nel 1947 a Vevey in Svizzera da Hayek e Röpke, non è stata altro che la «centralina» di una vasta rete di associazioni e circoli militanti in tutti i paesi. La storiografia racconta come i think tank degli «evangelisti del mercato» abbiano reso possibile l'assalto ai più grandi partiti di destra, appoggiandosi su una stampa dipendente dai circoli d'affari, e poi come le «idee moderne» del mercato e della globalizzazione, poco a poco, abbiano fatto indietreggiare e poi deperire i sistemi ideologici immediatamente contrapposti, a cominciare dalla socialdemocrazia. [...] Tale argomentazione si riannoda facilmente con il vecchio tema del «governo frugale» che non deve permettersi di prelevare ricchezze eccessive per non nuocere all'attività degli agenti economici, privandoli di risorse e distruggendone le motivazioni. È stata rafforzata poi, negli anni Trenta, dalle analisi di Ludwig von Mises e Friedrich Hayek sull'inefficienza della burocrazia, dovuta essenzialmente all'impossibilità del calcolo in un'economia regolata e all'impossibilità di qualsiasi scelta tra soluzioni alternative. Gli argomenti elaborati da questi autori contro la «burocrazia» e lo «Stato onnipotente», che al momento della loro formulazione erano in contro-tendenza, hanno conosciuto cinquant'anni dopo un grandissimo successo di stampa, e ben oltre la destra, dal momento che il crollo dell'Unione sovietica sembrava dimostrare che qualsiasi economia centralizzata fosse destinata a fallire. L'amalgama tra burocrazia di tipo staliniano e le diverse forme d'intervento nell'economia, che Hayek e von Mises non avevano esitato a confondere, divenne luogo comune nella nuova vulgata. I fallimenti della regolazione keynesiana, le difficoltà incontrate dalla scolarizzazione di massa, il peso della fiscalità, i diversi deficit delle casse pubbliche di previdenza sociale, la relativa incapacità dello Stato sociale di sopprimere la povertà o di ridurre le disuguaglianze, tutto fu pretesto per tornare sulle forme istituzionali che, dopo la Seconda guerra mondiale, avevano assicurato un compromesso tra le grandi forze sociali. Non solo, sono tutte le riforme sociali realizzate dalla fine del XIX secolo ad essere messe in discussione in nome della libertà assoluta dei contratti e della difesa incondizionata della proprietà privata. Dando torto alla tesi polanyiana della «grande trasformazione», gli anni Ottanta si caratterizzano sul piano ideologico come un'epoca spenceriana. Tutto viene amalgamato, con un contenuto certo un po' diverso, ma secondo lo stesso metodo che Hayek aveva impiegato ne La via della schiavitù. Il gulag e l'imposta non erano in fondo che due elementi dello stesso continuum totalitario. In Francia, ad esempio, «nuovi filosofi» e «nuovi economisti» parteciparono insieme alla stessa denuncia del grande Leviatano. Non solo, abbiamo assistito a un ribaltamento completo della critica sociale: se fino agli anni Settanta la disoccupazione, le disuguaglianze sociali, l'inflazione, l'alienazione, tutte le «patologie sociali» erano messe in relazione con il capitalismo, dagli anni Ottanta sono ormai attribuite sistematicamente allo Stato. Il capitalismo non è più il problema, è diventato la soluzione universale. E tale era il messaggio delle opere di Milton Friedman negli anni Sessanta. In effetti, l'intervento pubblico era stato giustificato, dagli anni Venti fino al dopoguerra, proprio in nome dei «fallimenti del mercato» (market failures). L'inversione della critica è stata perfettamente riassunta da Friedman in Liberi di scegliere: Il settore pubblico è un mezzo attraverso il quale possiamo cercare di compensare il «fallimento del mercato», possiamo cercare di usare più efficacemente le nostre risorse per produrre la quantità di aria, di acqua e terra non contaminate che siamo disposti a pagare. Disgraziatamente, gli stessi fattori che producono il fallimento del mercato rendono difficile anche al settore pubblico il raggiungimento di una soluzione soddisfacente. In genere, per il settore pubblico non è più facile identificare i particolari individui che sono stati danneggiati e beneficiati di quanto lo sia per le parti di una transazione di mercato, né è più facile valutare l'entità del danno o del beneficio di ognuno.
Ronald Reagan ne aveva fatto uno slogan: «Il governo non è la soluzione, è
il problema».
Ideologia (2): lo Stato previdenziale e la demoralizzazione degli individui [...] Se la ricchezza poggia su queste virtù, la povertà è aggravata da politiche dissuasive per il lavoro come per il successo: «l'assistenza sociale così com'è oggi e gli altri programmi di aiuti riducono notevolmente la fatica lavorativa. I poveri scelgono il tempo libero non per debolezza morale, ma perché sono pagati per farlo». E prendere ai ricchi per dare ai poveri vuol dire dissuadere con la fiscalità i ricchi dall'arricchirsi: «La minaccia più grossa a cui è esposto il sistema è l'imposizione fiscale con aliquote così progressive [...] che i ricchi si rifiutano di rischiare il loro denaro». I rimedi da adoperare sono evidenti: ridurre i trasferimenti di ricchezza dagli uni verso gli altri. La sola guerra contro la povertà che tenga è il ritorno ai valori tradizionali: «L'unica via sicura per uscire dalla povertà è sempre il lavoro, la famiglia e la fede». I tre mezzi sono legati, dal momento che è la famiglia a trasmettere il senso dell'impegno e la fede. Matrimonio monogamo, religione, spirito d'impresa sono i tre pilastri della prosperità, non appena ci si sbarazza dell'assistenza sociale che distrugge famiglia, coraggio e lavoro. Milton Friedman e sua moglie Rose si muovono nella stessa direzione quando considerano che: «Lo sviluppo dell'intervento pubblico nei decenni recenti e la crescente incidenza della criminalità nello stesso periodo [sono] in larga misura due facce della stessa medaglia». [...] Il fondamento del metodo di Becker consiste nell'estendere la funzione d'utilità dell'analisi economica, considerando l'individuo come un produttore e non come un semplice consumatore. Egli produce mercanzie che lo soddisfino utilizzando beni e servizi acquistati sul mercato, tempo personale e altri input che hanno un proprio valore, un prezzo non sempre evidente ma calcolabile. Si tratta insomma di scegliere tra «funzioni di produzione», supponendo che ogni bene è prodotto da un individuo che mobilita svariate risorse: denaro, tempo, capitale umano, e persino le relazione sociali identificate come «capitale sociale». Evidentemente, si pone il problema dell'identificazione degli input, ma anche quello della quantificazione di tutti gli aspetti non monetari che rientrano nel calcolo e portano a una decisione.
L'essenziale, in questo reinvestimento in regioni esterne al
campo classicamente delimitato della scienza economica, è di
dare o piuttosto ridare una consistenza teorica all'antropologia
dell'uomo neoliberista; non solo, come dice Becker, nell'intento di
perseguire un fine scientifico disinteressato, ma per fornire degli
appoggi argomentativi indispensabili alla governamentalità neoliberista della
società. Ma in se stessa, per quanto abbia potuto essere influente, questa
concezione dell'
uomo come capitale — che è il significato proprio del concetto di «capitale
umano» – non è riuscita a produrre le mutazioni soggettive di massa che oggi
possiamo constatare. Perché queste si verificassero, era necessario che essa
prendesse materialmente corpo attraverso l'organizzazione di dispositivi
molteplici, diversificati, simultanei o successivi, che
hanno plasmato in modo durevole la condotta dei soggetti.
Disciplina (1): un nuovo sistema di discipline [...] Si devono distinguere tre aspetti delle discipline neoliberiste. La libertà dei soggetti economici presuppone innanzitutto la sicurezza dei contratti e la fissazione di un quadro stabile. La disciplina neoliberista porta a estendere il campo d'azione da stabilizzare ricorrendo a regole fisse. La costituzione di una cornice non solo legale, ma anche inerente le politiche di bilancio e monetarie, deve impedire ai soggetti di anticipare delle variazioni di politica economica, ovvero di fare di queste variazioni degli oggetti di anticipazione. Questo per ribadire che il calcolo individuale deve potersi fondare su un ordine di mercato stabile, il che esclude di fare del quadro stesso l'oggetto di un calcolo. La strategia neoliberista consisterà allora nel creare il numero maggiore possibile di situazioni di mercato, ovvero nell'organizzare tramite svariati mezzi (privatizzazione, messa in concorrenza dei servizi pubblici, «mercatizzazione» di scuole e ospedali, solvibilizzazione tramite debito privato) l'«obbligo di scegliere», perché gli individui accettino la situazione di mercato loro imposta come «realtà», cioè come unica «regola del gioco», e integrino così la necessità di operare un calcolo d'interesse individuale se non vogliono perdere «la partita» e, a maggior ragione, se vogliono valorizzare il loro capitale personale in un universo in cui l'accumulazione sembra la legge generale dell'esistenza. [...] Uno degli argomenti maggiori della propaganda neoliberista è stato la denuncia dell'eccessiva rigidità del mercato del lavoro. L'idea direttrice a questo proposito è la presunta contraddizione tra la protezione di cui godrebbe la manodopera e l'efficienza economica. L'idea non è nuova. Jacques Rueff, negli anni Venti, denunciava il dole come causa principale della disoccupazione in Gran Bretagna. Ciò che è più nuovo è la concezione disciplinare della presa in carico dei disoccupati. Non si tratta in effetti di sopprimere in modo puro e semplice qualsiasi assistenza ai disoccupati, ma di fare in modo che l'aiuto conduca a una maggiore docilità dei lavoratori privi d'impiego. Si tratta di fare del mercato del lavoro un mercato molto più conforme al modello della pura concorrenza, non per un semplice scrupolo dogmatico, ma per meglio disciplinare la manodopera sottomettendola agli imperativi di ripristino della redditività. Ritroviamo così, sotto una nuova forma, una politica che mira a penalizzare il lavoratore disoccupato, perché sia per così dire incitato a ritrovare un lavoro il più presto possibile, senza potersi accontentare troppo a lungo degli aiuti ricevuti. È facile ricordare che, in un altro momento, la riforma della previdenza in Inghilterra aveva perseguito scopi simili. La legge sui poveri del 1834 promulgata sotto istigazione di Nassau Senior e di Edwin Chadwick, nello spirito dell'economia classica e del principio di utilità, si era tradotta nell'imposizione ai residenti delle workhouses di un regime di lavoro quasi penitenziario, un vero repellente per quanti avessero a cuore dignità e libertà. È, in sintesi, lo spirito delle politiche di Welfare to Work (dagli aiuti sociali al lavoro), fondate anch'esse sul postulato della scelta razionale. Sul terreno della politica dell'impiego, la disciplina neoliberista consisteva nel «responsabilizzare» i disoccupati servendosi dell'arma della punizione per quanti non accettassero di piegarsi alle regole del mercato. La disoccupazione non sarebbe altro che un'inclinazione dell'agente economico all'ozio quando quest'ultimo è sovvenzionato dalla collettività, e sarebbe dunque «volontaria». Cercare di ridurla tramite politiche di rilancio è inutile se non nefasto, stando alla dottrina dei tassi di disoccupazione naturali. L'indennizzazione dei disoccupati non fa altro che creare «trappole del welfare». Il primo obiettivo pratico è stato combattere tutto ciò che poteva contribuire a questa rigidità, ritenuta la causa della disoccupazione. Il secondo ha avuto per scopo la costruzione di un sistema di «ritorno all'occupazione» molto più stringente per i salariati senza impiego. I sindacati e le legislazioni del lavoro sono stati i primi bersagli dei governi che si rifacevano al neoliberismo. La desindacalizzazione nella gran parte dei paesi capitalisti sviluppati ha avuto senza dubbio cause oggettive, come la deindustrializzazione e la delocalizzazione delle fabbriche in regioni e paesi a bassa remunerazione, senza tradizione di lotte sociali o sottomessi a regimi autoritari. Ma essa è anche il prodotto di una volontà politica di indebolimento del potere sindacale che si è tradotta, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, in una serie di misure e di dispositivi legislativi che limitavano il potere d'intervento e di mobilitazione dei sindacati. A partire da allora, la legislazione sociale si trasformò in una direzione molto più congeniale ai datori di lavoro: ridefinizione verso il basso dei salari, soppressione dell'indicizzazione sul costo della vita, accresciuta precarizzazione degli impieghi, ecc. L'orientamento generale di queste politiche è lo smantellamento dei sistemi che proteggevano i salariati dalle variazioni cicliche dell'attività economica, e la loro sostituzione con nuove forme di flessibilità, che permettessero ai datori di lavoro di regolare in maniera ottimale i loro bisogni in manodopera sul livello dell'attività, riducendo allo stesso tempo il più possibile il costo della forza-lavoro. Tali politiche mirano anche ad «attivare» il mercato del lavoro, modificando il comportamento dei disoccupati. L'individuo «in cerca di impiego» deve diventare soggetto-attore della propria impiegabilità, un self-entreprising, che si prende carico di se stesso. I diritti alla previdenza sono sempre più subordinati a dispositivi d'incentivazione e di penalizzazione che rispondono a un'interpretazione economica del comportamento individuale. Le misure di «responsabilizzazione» dei soggetti «in cerca di impiego» non sono esclusivo appannaggio dei governi conservatori. Hanno trovato alcuni dei migliori difensori nella sinistra europea, come sembra provare la «coraggiosa» Agenda 2010 del cancelliere tedesco Gerhard Schröder, per cui l'aiuto dello Stato ai richiedenti impiego è strettamente condizionato alla loro docilità nell'accettare i lavori proposti, ma anche al livello di reddito e ai beni posseduti dalla famiglia: «Chiunque benefici del denaro dei contribuenti deve essere pronto a limitare per quanto è possibile il carico che rappresenta per la collettività. Ciò significa che tutti i beni e i redditi personali devono essere utilizzati innanzitutto per soddisfare i bisogni elementari». Tale politica disciplinare, lo si vede bene, rimette radicalmente in discusione i principi di solidarietà con le eventuali vittime dei rischi economici. | << | < | > | >> |Pagina 328Razionalità (1): la pratica degli esperti e degli amministratoriDunque non si tratta più, come nel welfarismo, di ridistribuire i beni secondo un certo regime di diritti universali alla vita, ovvero sanità, istruzione, integrazione sociale e partecipazione politica, ma di fare appello alle capacità di calcolo dei soggetti per compiere scelte e raggiungere risultati che sono posti come condizioni per l'accesso a un certo benessere. È dunque necessario che i soggetti, per «essere responsabili», dispongano degli elementi di tale calcolo, degli indicatori di comparazione, degli effetti contabili delle loro azioni, o ancora, in modo più radicale, della monetarizzazione delle loro «scelte»: si devono sensibilizzare i malati, gli scolari e le loro famiglie, gli studenti, gli individui in cerca di occupazione, sobbarcandoli di una parte sempre crescente del «costo» che rappresentano, proprio come si devono «responsabilizzare» i lavoratori salariati individualizzando le ricompense e le sanzioni legate ai risultati ottenuti. L'opera politica ed etica di responsabilizzazione è legata a doppio filo con svariate forme di «privatizzazione» della condotta, visto che la vita si presenta unicamente come risultato di scelte individuali. L'obeso, il delinquente o il cattivo scolaro sono responsabili della propria sorte. La malattia, la disoccupazione, il fallimento scolastico e l'esclusione sono considerati conseguenza di calcoli sbagliati. Le problematiche della salute, dell'istruzione, dell'impiego, della vecchiaia, confluiscono in una visione contabile dei capitali che ognuno accumulerebbe e gestirebbe per tutto il corso della vita. Le difficoltà dell'esistenza, l'infelicità, la malattia e la miseria sono fallimenti di questa gestione, per difetto di lungimiranza, prudenza, risolutezza di fronte ai rischi. Da qui il lavoro di «pedagogia» che va intrapreso perché ciascuno si consideri in possesso di un «capitale umano» da far fruttificare; da qui la messa in atto di dispositivi destinati ad «attivare» gli individui obbligandoli a prendersi cura di sé, a educarsi, a trovare un lavoro. [...] La cosa più importante non è tanto il trionfo della vulgata neoliberista quanto il modo in cui il neoliberismo si è tradotto in politiche concrete, in fin dei conti subite e talvolta anche accettate da una parte della popolazione salariata, persino quando queste politiche avevano per fine esplicito l'arretramento dei diritti acquisiti e delle solidarietà tra gruppi e generazioni, e mettevano in difficoltà un gran numero di soggetti sociali, che si trovavano di fronte a minacce sempre maggiori, posti sistematicamente ed esplicitamente in una logica di «rischio». Il neoliberismo è molto più che un'ideologia di parte. I responsabili politici che mettono in atto le pratiche neoliberiste rifiutano del resto qualsiasi ideologia. Il neoliberismo, dal momento che ispira politiche concrete, nega di essere ideologia perché è la ragione stessa. È così che politiche molto simili fra loro possono adattarsi al modello delle retoriche più disparate (conservatrici tradizionaliste, moderniste, repubblicane, a seconda delle situazione e dei casi), manifestando in questo modo la loro estrema plasticità. Per dirla in altre parole, la dogmatica neoliberista si propone come una pragmatica generale indifferente alle origini di parte. La modernità e l'efficienza non sono né di destra né di sinistra, secondo la formula di quelli che «non fanno politica». L'essenziale è «che funzioni», come ripeteva spesso Tony Blair. Tutto questo ci permette anche di misurare lo scarto tra la fase militante del neoliberismo politico della Thatcher e di Reagan, e la fase gestionale, in cui non si parla che di «buon governo», «buona prassi» e «adattamento alla globalizzazione». Nel corso di questa fase matura, gli ex oppositori hanno per la gran parte abiurato la loro critica del capitalismo. Alla fine, hanno riconosciuto l'«economia di mercato» come il mezzo più efficace di coordinamento delle attività economiche. La grande vittoria ideologica del capitalismo, insomma, è stata la «de-ideologizzazione» delle politiche che abbracciava, al punto che queste non sono più nemmeno in discussione. Vediamo così una delle cause del completo crollo dottrinale della sinistra nel corso degli anni Novanta. Se si ammette che i dispositivi pratici della gestione neoliberista degli individui siano i soli efficaci, se non i soli praticabili, e in ogni caso gli unici che si possano immaginare, si capisce come risulti impossibile opporsi ai principi che ne costituiscono il fondamento (l'ipotesi delle scelte razionali ad esempio), o mettere effettivamente in discussione i risultati a cui conducono (maggiore esposizione alla concorrenza e agli «azzardi» della congiuntura mondiale). Non resta che la logica della persuasione retorica, ovvero denunciare a voce alta quello che a bassa voce si accetta. Cosa che i più abili dei politici di sinistra hanno saputo fare benissimo, all'occorrenza. Ma il neoliberismo politico ha avuto effetti ancor più significativi sulle condotte effettive degli individui incitandoli a «prendersi carico di se stessi», a non contare più sulla solidarietà collettiva, a calcolare e massimizzare i propri interessi perseguendo logiche più individuali in un contesto di radicale concorrenza. In altri termini, la strategia neoliberista è consistita e consiste tuttora nell'orientare sistematicamente la condotta degli individui come se fossero sempre e dappertutto impegnati in relazioni di transazione e concorrenza su un mercato. | << | < | > | >> |Pagina 414La concezione che vede nella società un'impresa costituita di imprese non può non generare una nuova norma soggettiva, che non corrisponde più esattamente a quella del soggetto produttivo delle società industriali. Il soggetto neoliberista in via di formazione – di cui vorremmo ora tratteggiare alcune delle caratteristiche principali – è in relazione con un dispositivo di prestazione e godimento che è l'oggetto di numerose ricerche. Non mancano oggi le descrizioni dell'uomo «ipermoderno», «incerto», «flessibile», «precario», «senza gravità». Queste ricerche preziose, e spesso convergenti, all'incrocio tra psicanalisi e sociologia, rendono conto di una nuova condizione dell'uomo, che si rifletterebbe secondo alcuni fino all'economia psichica stessa. Da una parte numerosi psicanalisti dichiarano di avere in cura pazienti affetti da sintomi che testimoniano di una nuova era del soggetto. Il nuovo stato soggettivo è spesso rapportato nella letteratura clinica a categorie vaste come l'«era della scienza» o il «discorso capitalista». Il fatto che una prospettiva storica si sostituisca a una strutturale non stupirà i lettori di Lacan, per il quale il soggetto della psicanalisi non è una sostanza eterna né una costante trans-storica, ma l'effetto di discorsi inscritti nella storia e nella società. Dall'altra, in campo sociologico, la trasformazione dell'«individuo» è un fatto innegabile. Ciò che viene designato il più delle volte con il termine ambiguo di «individualismo» fa riferimento talvolta a mutazioni morfologiche, nella tradizione di Durkheim , talvolta all'espansione dei rapporti mercificati, nella tradizione marxista, talvolta ancora all'estensione della razionalizzazione a tutti i campi dell'esistenza, secondo un filo più weberiano. Psicanalisi e sociologia registrano dunque ciascuna a suo modo una mutazione del discorso sull'uomo che può essere rapportata, come in Lacan, da un lato alla scienza e dall'altro al capitalismo: è proprio un discorso scientifico che dal XVII secolo comincia a enunciare cosa sia l'uomo e cosa debba fare ed è proprio per fare dell'uomo quell'animale produttivo e consumatore, quell'essere di fatiche e bisogni, che un nuovo discorso scientifico ha cercato di ridefinire il metro umano. Ma tale quadro assai generale è ancora insufficiente per spiegare come una nuova logica normativa abbia potuto imporsi nelle società occidentali. In particolare, non mette a fuoco le inflessioni che la storia del soggetto occidentale ha potuto subire negli ultimi tre secoli, e meno ancora le trasformazioni in corso che possono essere messe in relazione con la razionalità neoliberista. Il nuovo soggetto, se di nuovo soggetto si tratta, deve essere colto nelle pratiche discorsive e istituzionali che alla fine del XX secolo hanno prodotto la figura dell'uomo-impresa, o «soggetto imprenditoriale», favorendo l'imposizione di una fitta trama di sanzioni, incentivi e coinvolgimenti che generano comportamenti psichici di un tipo nuovo. Portare a compimento l'obiettivo di riorganizzare da cima a fondo la società, le imprese e le istituzioni tramite la moltiplicazione e l'intensificazione dei meccanismi, delle relazioni e dei comportamenti di mercato, tutto questo non può non implicare una trasformazione dei soggetti. l'uomo benthamiano era l'uomo calcolatore del mercato e l'uomo produttivo delle organizzazioni industriali. L'uomo del neoliberismo è competitivo, completamente immerso nella competizione mondiale. Di questa trasformazione si è parlato continuamente nelle pagine precedenti. Si tratta ora di descriverne più sistematicamente le forme molteplici. | << | < | > | >> |Pagina 421La «cultura d'impresa» e la nuova soggettivitàLa governamentalità imprenditoriale dipende da una razionalità complessiva che trae la propria forza dal suo particolare carattere inglobante, poiché permette di descrivere le nuove aspirazioni e le nuove condotte dei soggetti, di prescrivere le modalità di controllo e influenza che devono essere esercitate su di essi nei loro comportamenti, di ridefinire gli obiettivi e le forme dell'azione pubblica. Dal soggetto allo Stato passando per l'impresa, uno stesso discorso permette di definire l'uomo per come vuole «realizzare» la propria esistenza ma anche per come deve essere guidato, incitato, formato, potenziato (empowered) per raggiungere i suoi obiettivi. In altri termini, la razionalità neoliberista produce il soggetto di cui ha bisogno servendosi dei mezzi per governarlo affinché si comporti davvero come un'entità in competizione che deve massimizzare i risultati esponendosi ai rischi da affrontare e assumendosi la totale responsabilità di eventuali fallimenti. Il governo di sé nell'era neoliberista si chiama «impresa». E dunque il «governo di sé imprenditoriale» non coincide – anzi, è molto di più – con la «cultura d'impresa» di cui abbiamo parlato più sopra. Certo la valorizzazione ideologica del modello dell'impresa ne fa parte, certo l'impresa è presentata sempre come il luogo di maturazione dell'individuo, come l'organismo nel quale possono finalmente congiungersi il desiderio di realizzazione, il benessere materiale, il successo commerciale e finanziario della «comunità» di lavoro e il loro contributo alla prosperità generale della popolazione. Così il nuovo management ambisce a superare sul piano immaginario la contraddizione segnalata a suo tempo da Daniell Bell tra i valori edonisti del consumo e i valori ascetici del lavoro. Ma cedere a tale seduzione sarebbe un grave errore. Così come la filantropia del XVIII secolo accompagnava con parole dolci la realizzazione delle nuove tecnologie di potere, gli argomenti umanitari ed edonisti della moderna gestione degli uomini accompagnano l'adozione di tecniche volte a produrre forme di assoggettamento nuove e più efficaci. Queste, per quanto nuove, sono impregnate della più sorda e classica delle violenze sociali caratteristiche del capitalismo: la tendenza a trasformare il lavoratore in semplice mercanzia. L'erosione progressiva dei diritti riconosciuti al lavoratore, l'insicurezza instillata poco a poco in tutti i salariati tramite le «nuove forme di occupazione» precarie, provvisorie e temporanee, la maggiore facilità del licenziamento, l'indebolimento del potere d'acquisto fino all'impoverimento di interi settori delle classi popolari, sono altrettanti elementi che hanno rafforzato considerevolmente la dipendenza dei lavoratori dai loro datori di lavoro. In un contesto di paura sociale l'adozione del neo-management nelle imprese è stata molto più facile. A questo proposito, la «naturalizzazione» del rischio caratteristica del discorso neoliberista e l'esposizione sempre più diretta dei salariati alle fluttuazioni del mercato per via dell'indebolimento delle protezioni e dei meccanismi di solidarietà collettiva, sono due facce della stessa medaglia. Riportando i rischi sui lavoratori, producendo una percezione più acuta del sentimento del rischio, le imprese hanno potuto esigere da loro una disponibilità e un impegno ben più significativi. Ciò non significa che il neomanagement non abbia nulla di nuovo, e che il capitalismo sia in fondo sempre uguale a se stesso. La grande novità sta al contrario nel modellamento con il quale gli individui vengono preparati a sopportare le nuove condizioni imposte, nel fatto che essi stessi contribuiscono con il proprio comportamento a inasprire e cristallizzare tali condizioni. In una parola, la novità sta nell'«effetto a catena» per cui i «soggetti intraprendenti», una volta prodotti, riproducono a loro volta, allargano, rafforzano i rapporti di reciproca competizione, imponendosi così, nella logica di un processo autorealizzatore, un adattamento soggettivo crescente alle condizioni sempre più dure che essi stessi hanno prodotto. | << | < | > | >> |Pagina 444L'ideale che si pone come modello di quest'attività di valutazione, compresi i settori più distanti dalla pratica finanziaria (sanità mentale, istruzione, servizi alla persona, giustizia), sarebbe poter valutare i profitti prodotti da ogni gruppo o da ogni individuo, considerati responsabili del valore azionario prodotto con la loro attività. La trasposizione delle tecniche di auditing cui vengono sottoposti i «centri di profitto» dell'impresa all'insieme delle attività economiche, sociali, culturali e politiche, rientra in una vera e propria logica di soggettivazione finanziaria dei lavoratori. Ogni prodotto diviene «oggetto finanziario» e il soggetto stesso è concepito come un creatore di valore azionario responsabile davanti agli azionisti.Tutto lascia pensare che la mutazione principale introdotta dalla valutazione sia d'ordine soggettivo. Se le nuove tecnologie incentrate sulla produzione dell'«impresa di se stessi» sembravano rispondere a un'aspirazione dei lavoratori a una maggiore autonomia nel lavoro, la tecnologia valutativa accresce la dipendenza nei confronti della «catena manageriale». Costretto a realizzare il «proprio» obiettivo, il soggetto della valutazione non può far altro che imporre agli altri, subordinati, clienti, pazienti o alunni, le priorità dell'impresa. L'impiegato alle poste deve aumentare le vendite di un certo prodotto esattamente come il consulente finanziario di qualsiasi banca, ma persino il medico dovrà prescrivere terapie redditizie, o liberare i letti d'ospedale il più velocemente possibile. Uno degli effetti più facili da prevedere è che le «transazioni» prendano sempre più il posto delle «relazioni», che la strumentalizzazione degli altri prenda importanza ai danni di qualsiasi altra modalità di rapporto possibile. Ma, ancora più importante, la trasformazione riguarda il modo di indurre nei soggetti una partecipazione attiva a un dispositivo molto diverso da quello caratteristico dell'era industriale. La tecnica di sé è una tecnica di prestazione in un ambito concorrenziale. Non mira soltanto all'adattamento e all'integrazione, ma all'intensificazione delle prestazioni. | << | < | > | >> |Pagina 468Quali sono gli aspetti fondamentali che caratterizzano la ragione neoliberista? Alla fine di questo studio, possiamo identificarne quattro. Primo, al contrario di quello che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, che come tale richiede l'intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con un'ontologia dell'ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto costruttivista». Secondo, l'essenza dell'ordine di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o «imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche. A questo proposito vanno riconosciute le conseguenze della prima lezione degli ordoliberali: la missione dello Stato, ben oltre il ruolo tradizionale di «guardiano notturno», è realizzare l'«ordine-quadro» a partire dal principio «costituente» della concorrenza, e poi «vigilare sul quadro generale» e verificare che tutti gli agenti economici lo rispettino. Terzo, e ancora più innovativo sia rispetto al primo liberalismo che al liberalismo «riformatore» degli anni 1890-1920, lo Stato non è solo un guardiano che vigila sul quadro, ma è esso stesso sottoposto nella propria azione alla norma della concorrenza. Seguendo l'ideale di una «società di diritto privato», non c'è ragione per cui lo Stato dovrebbe far eccezione alle regole di diritto che deve far applicare. Al contrario, qualsiasi forma di autoesenzione o autoderoga da parte sua non può che squalificarlo dal ruolo di guardiano inflessibile di tali regole. Dal primato assoluto del diritto privato risulta uno svuotamento progressivo di tutte le categorie del diritto pubblico, disattivato a livello operativo senza essere smantellato formalmente. Lo Stato oramai è tenuto a considerarsi come un'impresa, sia nel suo funzionamento interno che nelle sue relazioni con gli altri Stati. Così lo Stato, cui è affidata la costruzione del mercato, deve al tempo stesso costruirsi secondo le norme del mercato.
Quarto,
l'esigenza di universalizzazione della norma della concorrenza supera di molto
le frontiere dello Stato, e tocca direttamente gli individui nel loro rapporto
con se stessi. La «governamentalità imprenditoriale», che deve prevalere al
livello dell'azione statale, trova un naturale prolungamento nel governo di sé
dell'«individuo-impresa». Ovvero, più correttamente, lo Stato imprenditoriale,
come gli attori privati della
governance,
deve condurre indirettamente gli individui a gestire se stessi come
imprenditori. La modalità governamentale propria del neoliberismo comprende
dunque «l'insieme delle tecniche di governo che oltrepassano l'azione statale
in senso stretto, e organizzano il modo di gestire se stessi degli individui».
L'impresa è promossa al rango di modello di soggettivazione:
siamo tutti imprese da gestire e capitali da far fruttare.
Una razionalità a-democratica Dalla costruzione del mercato alla concorrenza come norma di tale costruzione, poi dalla concorrenza come norma dell'attività degli agenti economici alla concorrenza come norma della costruzione dello Stato e della sua azione, infine dalla concorrenza come norma dello Stato-impresa alla concorrenza come norma di condotta del soggetto-impresa: sono queste le fasi che hanno scandito l'estensione della razionalità commerciale a tutte le sfere dell'esistenza umana, e che fanno della ragione neoliberista una vera e propria ragione-mondo. Nota bene, non intendiamo qui riallacciarci al tema habermasiano di una «colonizzazione del mondo vissuto», se non altro perché non è mai esistito un «mondo della vita» (Lebenswelt) che non fosse già avviluppato nei discorsi o investito da dispositivi di potere. Vogliamo piuttosto definire fino a che punto questa estensione, cancellando la separazione tra sfera pubblica e privata, eroda i fondamenti della stessa democrazia liberale. Quest'ultima presupponeva una certa irriducibilità del piano politico e morale al piano economico, di cui si trova un'eco diretta nell'opera di Smith e Ferguson. E postulava tra l'altro un certo primato della legge come atto del legislativo, subordinando in un certo senso il potere esecutivo al legislativo. Implicava poi, se non una preminenza del diritto pubblico su quello privato, almeno una coscienza acuta della necessaria definizione dei rispettivi ambiti. Di qui una certa connessione dell'individuo con il «bene comune» e l'«interesse pubblico», e una valorizzazione della partecipazione diretta del cittadino agli affari collettivi, soprattutto nei momenti in cui era in gioco l'esistenza stessa della comunità politica. La razionalità neoliberista, pur garantendo perfettamente la sopravvivenza di queste distinzioni sul piano ideologico, disattiva come mai prima d'ora il loro carattere normativo. Diluizione del diritto pubblico a vantaggio di quello privato, conformità dell'azione pubblica ai criteri della redditività e della produttività, svalutazione simbolica della legge come atto proprio del legislativo, potenziamento dell'esecutivo, valorizzazione delle prassi, tendenza dei poteri di polizia a liberarsi da qualsiasi controllo da parte della magistratura, promozione del «cittadino-consumatore» incaricato di scegliere tra «offerte politiche» concorrenti, sono tutte tendenze palesi che testimoniano l'esaurirsi della democrazia liberale come norma politica. [...] Un dispositivo di natura strategica Il fatto essenziale è che il neoliberismo è divenuto oggi la razionalità dominante. Della democrazia liberale non è rimasto che un involucro vuoto, condannato a sopravviversi sotto la forma degradata di una retorica talvolta «commemorativa», talvolta «marziale». In quanto razionalità, il neoliberismo ha preso corpo in un insieme di dispositivi tanto discorsivi quanto istituzionali, politici, giuridici, economici, che formano una rete complessa e volubile, soggetta a riprese e aggiustamenti dovuti all'insorgere di effetti indesiderati a volte in completa contraddizione con gli scopi iniziali. Si può parlare in questo senso di dispositivo globale, che, come tutti i dispositivi, ha natura essenzialmente «strategica», per riprendere uno dei termini più cari a Foucault. Ciò vuol dire che il dispositivo è il risultato di un intervento concertato che mira, dati una situazione di rapporti di forza, a modificarla in una certa direzione in funzione di un «obiettivo strategico». L'obiettivo non dipende da uno stratagemma, dalle trame di un soggetto collettivo esperto di manipolazione, ma si impone agli attori stessi e produce così il suo proprio soggetto. Come abbiamo visto più sopra, è proprio quello che è successo negli anni Settanta-Ottanta con l'innesto di un progetto politico su una dinamica endogena di regolazione, combinazione di due logiche che arriva a imporre l'obiettivo strategico della concorrenza generalizzata. Dunque non esiste un progetto cosciente di passaggio dal modello fordista di regolazione a un altro modello, che avrebbe dovuto essere concepito intellettualmente prima di essere realizzato seguendo un piano in una fase successiva. Attribuire un carattere strategico al dispositivo richiede di tener conto delle situazioni storiche che ne permettono lo sviluppo, e spiegano la serie di aggiustamenti a cui va soggetto nel tempo e la varietà di forme che assume nello spazio. Solo a questa condizione si può comprendere la «svolta» imposta ai dirigenti dei paesi capitalisti dominanti dall'ampiezza della crisi finanziaria. Come abbiamo visto, essa apre una crisi della governamentalità neoliberista. Oggi, al di là delle prime «riparazioni» d'urgenza (nuove norme di contabilità, un minimo controllo dei paradisi fiscali, riforma delle agenzie di rating), ci troviamo probabilmente di fronte a un aggiustamento d'insieme del dispositivo Stato/mercato. Non c'è nulla di strano nel fatto che alcuni economisti prendano in considerazione un nuovo «regime di accumulazione del capitale» da sostituire al regime finanziario fondato sull'indebitamento perpetuo delle famiglie. Arrivare a dedurne che il nuovo regime di crescita, servendosi di meccanismi diversi dall'inflazione dei titoli immobiliari e finanziari, coinciderà spontaneamente con una revisione diretta della razionalità neoliberista, sarebbe d'altra parte assai imprudente. Ma preconizzare il prossimo avvento di un «capitalismo buono» dalle norme di funzionamento risanate, ancorato stabilmente all'«economia reale», rispettoso dell'ambiente, attento ai bisogni delle popolazioni e, perché no, preoccupato del bene comune dell'umanità, tutto questo, se non un racconto edificante, è almeno un'illusione altrettanto nociva che l'utopia del mercato autoregolato. La prospettiva realistica è che si entri in una nuova fase del neoliberismo. È anche possibile che questa nuova fase sia accompagnata, sul piano ideologico, da una patina di «ritorno alle origini». Dopotutto, l'appello alla «rifondazione del capitalismo regolato» non ricorda forse i toni dei rifondatori degli anni Trenta, che opponevano il buon «codice stradale» delle regole di diritto alla cieca «legge naturale» dei vecchi laissez-fairisti? Assisteremo forse, grazie a uno di quegli spostamenti di equilibrio il cui segreto sta nell'ideologia, a un ritorno della variante specificamente ordoliberale? Non possiamo escluderlo, tanto più che questa è stata a lungo relegata in subordine dalla sua concorrente austroamericana, quando non completamente ignorata. | << | < | > | >> |Pagina 479[...] La sinistra di ispirazione blairista ha già mostrato in passato che la celebrazione lirica della modernità sotto tutti i suoi aspetti, compresa la liberazione dei costumi, poteva collegarsi benissimo con la razionalità neoliberista. Non è escluso che su un altro piano, quello della politica economica, alcuni elementi della dottrina keynesiana non vengano a rinsaldare la pratica del governo imprenditoriale: rilancio temporaneo di una politica di spesa pubblica, sospensione dei criteri di stabilità monetaria, misure per tenere a freno le speculazioni dei mercati, ecc., tutti elementi che non arrivano mai a toccare la ripartizione fondamentale dei profitti tra capitale e lavoro, e dunque a rinnovare un compromesso salariale comparabile a quello del dopo guerra. Questo concorso puramente circostanziale e «pragmatico» non è di per sé in grado di intaccare la logica normativa del neoliberismo, che potrebbe essere sconfitta soltanto da sollevazioni estremamente ampie.Inventare un'altra governamentalità La nuova razionalità pone alla sinistra una sfida ardua: non ci si può accontentare di una critica monolitica alla «mercificazione generale», bisogna inventare una risposta politica «all'altezza» di ciò che il regime normativo dominante ha di inedito. Se quest'ultimo implica il deterioramento irreversibile della democrazia liberale, la sinistra non può ripiegare, come spesso ha fatto, sulla difesa della democrazia liberale. Non che debba rinunciare a difendere le libertà pubbliche, ma deve guardarsi bene dal farlo in nome di quella democrazia, opponendo ad esempio un «autoritarismo neoliberista» alla «democrazia liberale». Per citare ancora una volta Wendy Brown: difendere la democrazia liberale in termini liberali non vuol dire soltanto rinunciare a una visione di sinistra. Vuol dire anche, con questo sacrificio, screditare la sinistra riducendola a un'obiezione permanente al regime in vigore, e nulla di più: un partito della lamentela piuttosto che un partito dotato di una visione politica, sociale ed economica alternativa. Per la stessa ragione non possiamo tornare alla critica marxista della «democrazia formale», perché significherebbe ignorare che l'esaurimento della democrazia liberale priva questa critica di qualsiasi fondamento: non è che la governamentalità neoliberista sia democratica nella forma e antidemocratica nei fatti, essa non è più democratica per nulla, fosse anche solo nel senso formale, senza per questo identificarsi con un esercizio dittatoriale o autoritario del potere. La scissione di «cittadino» e «borghese» ha fatto il suo tempo, e con essa l'appello a una riunificazione dell'uomo con se stesso. Sempre per la stessa ragione, la sinistra non può porsi l'obiettivo di «ridare vita a sistemi in declino» cercando di ritardare il cedimento della democrazia rappresentativa con i puntelli malsicuri della «democrazia partecipativa». Non può rimanere attestata sulla linea di replica che oppone «liberalismo politico» e «liberismo economico»: sarebbe trascurare che le basi stesse del liberalismo «puramente politico» sono minate da un liberismo che è tutto tranne che «puramente economico». In un contesto più ampio, è tutto lo spazio occupato da ciò che chiamavamo «socialdemocrazia» a essere messo direttamente e radicalmente in discussione, dal momento che tale definizione si fondava sulla possibilità di estendere la democrazia politica tramite il riconoscimento di diritti sociali che definissero una cittadinanza sociale, a completamento e a sostegno della cittadinanza politica classica. | << | < | > | >> |Pagina 491La genealogia del neoliberismo proposta in quest'opera ci insegna che la nuova ragione del mondo non è un destino necessario che incatena l'umanità. Essa non è, al contrario della Ragione hegeliana, la ragione della storia umana. Essa stessa è storica da cima a fondo, cioè relativa a condizioni particolari che nulla ci autorizza a ritenere insuperabili. È essenziale comprendere che nulla può esimerci dal promuovere un'altra razionalità. Per questo la convinzione che di per sé la crisi finanziaria abbia cantato il requiem del capitalismo neoliberista è la più pericolosa delle convinzioni. Forse piace a quelli che sperano di vedere la realtà adeguarsi ai loro desideri senza muovere un mignolo. Certo conforta chi cerca di che rallegrarsi per la propria «preveggenza». Ma in fondo è la meno accettabile delle rinunce politiche e intellettuali. Il capitalismo neoliberista non cadrà come un «frutto maturo» per via delle sue contraddizioni interne, e i traders non gli scaveranno loro malgrado la fossa. Già Marx lo diceva forte e chiaro: «La storia non fa niente». Quello che conta sono gli uomini, che agiscono in condizioni date per crearsi un avvenire con la propria azione. Sta a noi consentire che un nuovo senso del possibile si faccia strada. Il governo degli uomini può mirare a orizzonti che non siano quelli della massimizzazione delle prestazioni, della produzione illimitata, del controllo generalizzato. Il governo degli uomini può fondarsi su un governo di sé che si apra a rapporti con gli altri che non siano quelli della concorrenza tra «attori imprenditori di se stessi». Le pratiche di «comunizzazione» del sapere, di mutua assistenza, di lavoro cooperativo possono disegnare le linee di un' altra ragione del mondo. Non la si potrebbe designare meglio: la ragione del comune.| << | < | |