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| << | < | > | >> |Indice11 Il morale alle stalle 15 Le strafighe 17 Più o meno sei mesi prima 29 La storia si complica 42 Tutto si può risolvere? 50 The day after. Cioè lunedì di scuola 58 Una, due, tre vite 75 Mrs Butterfly 84 Nervoso contagioso 94 Capitan Uncino 102 Ma non dovevamo vederci più? 116 L'amica ritrovata 122 Casa tremenda casa 126 E se non puoi la vita che desideri 132 L'appuntamento 138 Un banco vuoto 142 So tutto 147 Le cose precipitano 150 Il dramma 152 Qui e ora |
| << | < | > | >> |Pagina 11È il 4 luglio. La festa dell'indipendenza. Oddio! Se vivessi in America, sarebbe the Independence Day. Ma visto che abito nella cara-e-vecchia Europa, non ho un mondo da cui smarcarmi. Per me l'indipendenza è ancora un concetto astratto. La verità è che io dipendo. Da un nugolo di persone e soggetti di varia natura. Dipendo da mamma Dany, papà Giuseppe, nonna Alba, James. Dipendo soprattutto dal gioco/giogo delle circostanze (avverse). Il giorno dell'indipendenza nel mio calendario non ha nemmeno una collocazione utopistica. Una casella in cui farsi largo. È giovedì: questo giorno sbadato - o sbandato - che sta in mezzo ad altri sei, tutti più svettanti di lui. Questo giorno che se venisse tolto dal calendario nessuno direbbe niente. Perché il giovedì non è come un incisivo o un laterale: anche se sta fra i sette giorni di una settimana qualunque, è tipo uno di quei denti che ti trovi nascosto in bocca, e che - pure se ti affanni - non riesci mai a pulirlo a fondo. E il dentista te lo ricorda con un sospiro. Costoso. Certo che paragonare un giorno a un molare e la settimana a un'arcata dentaria è indice di scompenso mentale. In effetti, non mi sento troppo in linea. Né nel fisico, né nella testa. Ho appena iniziato la mia prima estate dopo la prima liceo, e ho il morale alle stalle. Quelle di Giada. O meglio: quelle del nonno di Giada. È il 4 luglio. E ho la nausea.
Non perché l'aria delle stalle sia irrespirabile. È che mi
rendo conto solo ora di aver sbagliato tutto.
Giada era la mia migliore amica, anche se non l'avevo scelta io. Era stato il destino. O la sorte. O un insieme di fortuite circostanze. Giada era con me all'asilo, con me alle elementari, con me alle medie. Siamo cresciute in parallelo. Io mi sono fermata a un metro e sessantadue, lei a uno e settanta milioni di centimetri di più. Vallo a capire il Dna. Giada, fin dall'asilo, aveva un sogno: fare la contadina. Suo padre, sotto casa, ha un orto così piccolo che l'unica pianta di pomodoro fa ombra all'unica pianta di zucchine, che fa ombra al prezzemolo, che fa ombra a un formicaio. Ma il nonno di Giada che sta in campagna ha un sacco di terra. E una stalla, con vacche e vitelli (quando nascono dei vitelli). Alle elementari Giada ha quasi sempre disegnato vacche. A volte sembravano ippopotami, o giraffe, ma lei diceva di no. Diceva che erano vacche. Io ho quasi sempre finto di darle ragione, finché una volta ho visto una vacca che era identica spiccicata a una gallina. "Che carina questa gallina, Giada!" Lei mi ha incenerito con gli occhi verdi pascolo suburbano, ha appallottolato il foglio e l'ha lanciato nel cestino/canestro. "Ti sembrava una gallina?" "Forse era un gallo." Facevamo la seconda, o la terza, o la quarta, non ricordo. Se non eravamo proprio migliori amiche, eravamo due bambine che passavano un uragano di tempo insieme. A scuola, e a casa. E in campagna, da suo nonno. Mia mamma e la sua ci dicevano che insieme stavamo benissimo. E, alle elementari, delle mamme ci si fida. Alle medie, Giada s'è portata dietro la sua passione per campi e stalle. Qualunque fosse la traccia del tema che la prof Mattiuzzi ci propinava (lo sport, la musica, le amicizie tra i banchi di scuola), Giada ci ficcava dentro una mucca (anzi: una vacca, perché Giada dice che così vanno chiamate le mucche), una capretta, una pecora, un vitello. Insomma condiva il compito con un po' di fieno. Ma pigliava lo stesso un bel voto. È stato per questo, per un filare di voti che non andavano mai sotto la superficie dell'otto, che Giada ha deciso di frequentare il liceo.
Già, saremmo state compagne-di-scuola (anzi di classe: le mamme non si
limitano a firmare l'iscrizione: ci mettono lo zampino in calce) anche alle
superiori.
Ma è stato proprio al liceo artistico che Giada s'è inguaiata. Lei e tutta la sua passione per le vacche. Una mattina qualunque di una settimana qualunque, Elisabetta e Beatrice hanno iniziato a prenderla in giro. Al driiin della campanella Giada è entrata in aula portandosi dietro un sentore di campagna, un profumo che aveva una nota accesa di cacca, o di latte, o di fieno. O di tutte queste cose insieme. Di quel miscuglio di afrori che solfeggiano in una stalla. Io non ci ho fatto caso: quello era l'odore di Giada e non ci trovavo niente di strano. Ed era sempre meglio l'odore di Giada di quello di William, che sa di fritto perché sua mamma cucina grasso. "Senti che puzza!" ha iniziato a dire Beatrice. "Ti sei lavata col letame, Giada?" "Bleah! Che tanfo. Fai schifo!" ha rincarato Elisabetta. "Cerca di starmi lontano. E voi, aprite tutte le finestre dell'aula che qui si sviene." Giada ha fatto finta di non sentire. Più o meno era fatta così. Sembrava che non le importasse niente di quello che dicevano di lei. Sembrava che se ne fregasse alla grande. Per questo mi sono guardata dall'aprire bocca. Se non importava a lei del giudizio degli altri, perché sarei dovuta intervenire? Fingevo di non sentire, e quando Giada si sedeva di fianco a me (sì, era ancora la mia compagna di banco) si limitava a tirare fuori l'astuccio e vi rovistava dentro per cercarci non-so-cosa. Io la guardavo con la coda dell'occhio (si fa per dire, perché i miei occhi allora non avevano la coda) e cercavo di capire se fosse infastidita. Lei sospirava. Alzava la testa dall'astuccio, si voltava verso di me e sorrideva. Io pensavo: "Ecco. Non è infastidita per niente. Meglio così". | << | < | > | >> |Pagina 15Beatrice ed Elisabetta sono state le strafighe della classe fin dall'inizio della scuola. Non so se fossero le più belle di tutte. Di me e di Giada lo erano di sicuro, pensavo. Eppure anche Lisa era carina, con quelle due fossette che le spuntavano quando sorrideva, o Karen, con quel caschetto di capelli neri e lucidi e quell'accento sudamericano che mi faceva morire dal ridere. O Biju Coulobaly che aveva la pelle nerissima e i denti bianchi e dritti, anche se giurava di non aver mai messo un apparecchio. Beatrice ed Elisabetta erano le strafighe perché credevano di esserlo. E quando una (o uno, sia chiaro) crede davvero in qualcosa, vai a fargli cambiare idea. Beatrice ed Elisabetta per tutti erano Bea e Eli. Persino i nomignoli avevano fashion. Io ero solo Ste (che mi si chiamasse Stefania tutto intero era fuori discussione, vista l'altezza), Maria era Mari (con la i, non con la ypsilon), perché Maria era troppo lungo per essere pronunciato, "e poi è così banale!" diceva Bea. Gloria era Glo e Giuditta era Giu. Come Giulia.
Giada era Giada. A pensarci ora, pure lei doveva avere il
nome accorciato, no? Invece doveva portarsi addosso il peso
di due sillabe.
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